Tratto dal libro Qualche ragione per credere (a colloquio con M. Brambilla), Mondadori 1997
di Vittorio Messori
Si tratta del capitolo XV (pp. 275 - 298)
M. B.: Per riprendere il discorso: sembra che, nella prospettiva del Dio che si propone e che non si impone, che vuoi preservare la nostra libertà, teorie come quella dell’evoluzionismo nella sua versione «materialista», «casuale», atea, adempiano a una funzione indispensabile. Infatti, preservano quel cono di «ombra» che deve convivere con la «luce». Danno un appiglio - che può rivelarsi sì illusorio, ma che sembra avere un minimo di credibilità - almeno al dubbio a proposito di un Dio creatore. Alle tracce e agli indizi «per credere» si affiancano - come sempre - ipotesi «per non credere».
V. M.: Naturalmente, «tutto è Grazia», per dirla con le ultime parole del «curato di campagna» di Bernanos, che ripeteva qui un’espressione della piccola (e grandissima!) santa Teresa di Lisieux. Non lo ricorderemo mai abbastanza: tra i motivi per credere in questo nostro Dio c’è proprio questa discrezione che rifugge dalla brutalità di un’evidenza che ti costringerebbe ad alzare le mani in segno di resa.
Come ha detto qualcuno, questo Signore ha «uno stile da signore». Una sorta di understatement da gentiluomo all’antica, che Gli fa apporre sì la firma, ma in modo così discreto che puoi scorgerla, e riconoscere che è la Sua, solo approfondendo e riflettendo bene. Anzi, più che una firma potrebbe sembrare una sigla, se non un’impronta digitale.
Un Dio che ama celarsi, e insieme rivelarsi, nei particolari. O agli estremi, nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo: nell’insondabile vastità delle galassie che solo i telescopi rivelano; e nella struttura profonda della materia, scopribile unicamente con i microscopi elettronici.
Del «signore», del resto, almeno come l’intendiamo in senso umano, sembra avere altre caratteristiche. Ad esempio, la prodigalità che si fa scialo: milioni di spermatozoi per fecondare un solo ovulo; milioni di galassie, con miliardi di stelle; più di due milioni soltanto di specie di insetti ...
Ma, «signorile», anche, la gratuità: la bellezza dei fiori su montagne inaccessibili, dove nessuno giungerà mai per ammirarli; la bellezza delle specie viventi negli abissi oceanici e delle quali solo di recente abbiamo avuto esperienza, mentre di infinite altre non ne avremo mai. E quella gratuità che il Medio Evo aveva intuito: così, per imitare anche in questo il suo Dio, ne simboleggiava lo stile, posando le statue più belle negli angoli dei soffitti delle cattedrali, inaccessibili ad occhi umani.
Forse anche in questo senso va inteso il famoso appunto di Pascal che, in nome del Deus absconditus, rende l’onore delle armi all’ateismo: «Segno di forza di pensiero, ma solo fino a un certo punto». Un pensiero, cioè, che non si spinge sino a quelle profondità dove stanno, appunto, le «impronte digitali» dell’Autore.
E Jean de La Bruyère: «Ésprit fort, ésprit faible». L’ésprit fort, lo «spirito forte» è appunto il miscredente, l’agnostico, l’ateo; che mostra però di essere faible, debole, non riuscendo ad andare al di là di quelle apparenze, dietro le quali il Creatore si cela.
In questa prospettiva andrebbe rovesciato il luogo comune, secondo il quale la penetrazione intellettuale, la forza di pensiero, l’anticonforrnismo culturale contrassegnerebbero chi rifiuta o critica la credenza religiosa. Pensiamo a quell’Ottocento e a quell’inizio di Novecento, in cui i cristiani - e i cattolici soprattutto - erano visti come un’etnia superstiziosa in via di estinzione, gente aggrappata a miti e leggende ormai insostenibili. Usciti dalla modernità, quei presunti «miti e leggende» mostrano una tenuta ben superiore alle «luci della Ragione» che avrebbero dovuto dissolverli.
E più o meno così. C’è però da stare attenti a ogni trionfalismo. Per la logica evangelica, e per la costante dell’et-et, ogni possibile trionfo della fede («trionfo» che riguarda però, soprattutto, il segreto dei cuori) sarà sempre accompagnato dallo scacco, almeno secondo le categorie umane. Anzi, stando al Nuovo Testamento, la fede sopravviverà sì fino al ritorno del Cristo, ma andrà declinando e sarà messa in pericolo; sembra di capire che si ridurrà, almeno quantitativamente, mano a mano che ci si avvicina alla fine della storia.
Ci è promesso di far parte di un grande popolo e al contempo di un piccolo gregge. Gesù spezza in due il calendario della storia (a.C., d.C., «avanti Cristo», «dopo Cristo») e, al contempo, in quella storia resta in penombra. La discrezione, anche qui: non a caso la fede è definita dal vangelo un lievito che dà vita a tutta la pasta, restando celato all’interno di essa. Quel lievito, però, nessuno lo può più levare: la sua non appariscenza è pari alla sua tenacia; e, se vuoi, all’importanza degli effetti (quante cose, nel mondo, sono «cristiane», senza che neppure i cristiani il più delle volte lo sappiano!).
Per il futuro, comunque, converrà tener presente al contempo una doppia prospettiva (tanto per cambiare...): innanzitutto, il «successo» umano, quello «secondo il mondo», non fa parte delle categorie di quel vangelo dove sta scritto, tra l’altro: «Guai a voi quando gli uomini diranno bene di voi» (Lc 6, 26). Ma, insieme, sarà opportuno non dimenticare quanto diceva Chesterton: «Il cristianesimo è stato (e sarà) dichiarato morto infinite volte. Ma, poi, sempre è risorto (e risorgerà), perché è fondato sulla fede in un Dio che conosce bene la strada per uscire dal sepolcro».
Per tornare alle «impronte digitali», alla «firma discreta» del Creatore: mi pare che la scienza moderna stia riscoprendo l’intuizione degli antichi. Il segreto dell’universo, cioè, sta nei numeri: tutto è basato su una serie tanto costante e ferrea quanto misteriosa di rapporti matematici. Il «caso» è escluso anche dalla conferma di una struttura numerica che regge tutta la «macchina» dell’universo e che le permette non solo di funzionare, ma di esistere. Sarebbe bastato lo scostamento di un decimale di una delle «cifre» fondamentali perché ci fosse caos e non ordine o perché la vita non apparisse sulla Terra.
«Tutto è numero», per dirla con Pitagora. E proprio per questo, aggiunse Aristotele, «tutto, nell’universo, è armonia». Così che Platone poté concludere che «Dio è geometra».
Sapienza antica, confermata però, comme d’habitude, dalla ricerca moderna: non solo la Terra, ma il Cosmo intero sono retti da una dozzina di cifre, quelle che esprimono le fondamentali «costanti» fisiche. Dalla velocità della luce nel vuoto, alla massa e carica dell’elettrone, alla gravitazione universale: come ricordi tu stesso, non saremmo qui a parlarne, se una sola di queste costanti fosse stata diversa dalla cifra che la esprime. Cifra che siamo in grado di misurare ma non, come al solito, di spiegare: perché questi «numeri» e non altri? Ciò che sappiamo è che quella dozzina di valori matematici è la sola possibile »combinazione vincente», è l’unico «codice» praticabile per la comparsa e la prosecuzione della vita. Insomma, come al Bancomat: se non batti quel numero, e quello solo, niente soldi, lo sportello non si apre proprio ...
Ma, giusto a proposito di «numeri» e «armonia», mi viene in mente il singolare enigma dell’1,61803398... (come il famoso «pi greco», che è «circa» 3,14159265..., è un numero «irrazionale» – «inesprimibile», dicevano gli antichi – perché ha una serie infinita di decimali che segue la virgola).
Conviene avvertire di nuovo che, al di là delle ragioni oggettive (che pure esistono) per credere – o, volendo, per dubitare, secondo la legge di libertà che sappiamo – ci sono degli argomenti soggettivi. L’apologetica classica distingue in effetti argomenti ad omnes, per tutti, e ad hominem,
per le singole persone. Ciascuno, cioè, è convinto, o non è convinto, più da certi aspetti piuttosto che da altri.
Per quanto mi riguarda, convinto come sono del «gioco a nascondino» di Dio, ciò che soprattutto mi seduce è scoprire quelle che potrebbero essere le «orme sulla sabbia» di questo Creatore così «felpato».
Tra queste impronte, pare a molti che abbia un suo posto (importante quanto affascinante per la sua nascosta presenza) 1’1,618... O, come altri preferiscono dire, lo 0,618..., che ne è il reciproco.
Vi accenno, preciso, come a un caso che induce me alla riflessione, senza però dargli importanza decisiva e senza assolutizzarlo (anche se il fatto specifico, oggettivo, esiste e non è negabile). E una traccia assieme alle altre. Altri sono colpiti da altro: in fondo, la scelta di «indizi» – qui – è illimitata. Le vie alla fede – o all’incredulità – sono tante quanti sono gli uomini.
Se non sbaglio, quell’1 virgola «circa» 618, è la cosiddetta «sezione aurea». Quello che chiamano anche «numero d’oro».
Proprio lui. Quello che gli antichi conobbero e cercarono d’imitare dalla natura: non a caso l’indicarono pure come «proporzione divina». Ricordi, no?, l’esempio che capiamo persino noi, profani di matematica: si prende un bastone di un metro e se ne taglia un segmento di 38,2 centimetri. L’altro segmento sarà – ovviamente – di 61,8. I due pezzi, in questa lunghezza – e in questa soltanto – sono in rapporto «armonico» tra loro. In effetti, il rapporto fra il segmento più lungo e quello più corto è uguale al rapporto che c’è tra il segmento più lungo e il bastone completo, quando cioè era lungo un metro. Questo rapporto è sempre di 1,61803398 ...
Per cercare di capire meglio (anche se, in pratica, la cosa è più semplice di quanto non sembri quando si cerca di esprimerla a parole), la divisione di una linea in due pezzi secondo questa misura «stabilisce un gioco di rapporti tale, per cui la parte più piccola della linea è in rapporto con la più grande così come questa è in rapporto con la linea intera». In modo pragmatico, per farci ancor più l’idea, l’equivalente del «numero d’oro» è, con molta approssimazione, circa il rapporto che c’è fra 3 e 5.
Ebbene, gli antichi intuirono che il numero che esprimeva una simile relazione era forse il «marchio di fabbrica» di un Creatore del mondo. Intuizione che sembrò poi avere una conferma quando, nel XIII secolo, Leonardo Fibonacci (il pisano cui dobbiamo l’introduzione in Occidente delle cifre «arabe») costruì quella sua celebre «successione» o «serie numerica», dove ogni cifra è data dalla somma delle due precedenti. In questa «serie», dopo le prime sei cifre (che si avvicinano rapidamente, e con sempre maggior precisione, al valore che qui ci interessa) a partire dal settimo numero il rapporto fra due successivi è sempre 1,618. E tale resta all’infinito, aderendo anzi sempre di più al valore del «numero d’oro».
In ogni caso, la presenza di quel numero, considerato «divino» già dagli assiri, dai babilonesi, dagli egizi, dai greci, e poi dai costruttori medievali di cattedrali (considerati dai massoni come i loro antenati proprio per la straordinaria sapienza anche simbolica) è stata confermata oggi - e alla grande - dall’informatica moderna.
Già: si direbbe uno di quei casi (non infrequenti, del resto, vi abbiamo già accennato) in cui proprio il progresso della scienza rende più fitto l’enigma. Proprio i mezzi d’indagine col sussidio dell’elettronica hanno mostrato, e sempre più mostrano, che dal microcosmo al macrocosmo, dagli organismi infinitamente piccoli ai corpi celesti infinitamente grandi, il «rapporto aureo», la «proporzione divina», il misterioso 0,618 0 1,618 sembra onnipresente.
A noi moderni interessa soprattutto la scienza; anzi, quella sua applicazione concreta che è la tecnologia. Agli antichi stava a cuore la bellezza - figlia dell’armonia - da raggiungere nella musica come nelle arti figurative e nell’architettura. Si dice che proprio lì cercassero di «imitare gli dèi», applicando quello che consideravano il loro «numero».
In effetti, se lo specifico dell’arte antica, classica, è l’armonia, il segreto di quelle proporzioni che danno gioia e riposo (senza che ci rendiamo conto del motivo) sembra stare nascosto proprio nel «numero d’oro». Il Partenone di Atene, vertice dell’architettura greca, è un rettangolo i cui iati sono in perfetta «sezione aurea». Non a caso alla sua costruzione (e decorazione) sovrintese il maggior scultore greco, Fidia. Dalla iniziale del suo nome, molti matematici moderni hanno preso l’effe greco - - per indicare «la divina proporzione», cioè questo rapporto «aureo». Sembra certo che siano della scuola di Fidia (o, addirittura, azzarda qualcuno, di sua stessa mano) le due splendide statue di guerrieri ritrovate nel 1972 nel mare di Calabria, a Riace. Naturalmente, tanta bellezza è tutta basata sull’«effe greco».
Lo stesso valore si ritrova nei monumenti romani giuntici quasi intatti dall’antichità: il Pantheon, l’arco di Costantino, persino opere di utilità civile, come i grandi acquedotti.
Naturalmente bisogna guardarsi, e con divertita ironia, dai molti mitomani, visionari, maniaci, sempre insaziabili nel cercare proporzioni matematiche con significati esoterici ovunque, ma soprattutto nelle piramidi egizie.
È Umberto Eco, mi pare, che constata come di matti ce ne siano di infinite specie; ma – aggiunge - il matto «vero», quello irrecuperabile, lo si riconosce dal fatto che, poco dopo averti avvicinato, comincia a parlarti del mistero dei Templari e di quello delle piramidi.
Difficile dargli torto. Ed è da meditare anche quanto dice, lo stesso Eco, sul chiosco sotto casa dove vendono i biglietti della lotteria: se ne prendi tutte le misure e le moltiplichi o dividi o sottrai o addizioni per altre, puoi ottenere tutti i significati «simbolici» che desideri trovare. Ma, seppure con la doverosa prudenza del caso, non possiamo non constatare un fatto oggettivo e documentato in modo inoppugnabile: quelle montagne di pietra nel deserto, che avevano già migliaia di anni alla nascita di Gesù, sono tutte costruite sul «numero d’oro» e sulla serie di Fibonacci che gli è legata.
Del resto, già Pitagora aveva scoperto che l’armonia matematica è dentro le cose: il rapporto «aureo» e le successioni «alla Fibonacci» sono indispensabili perché una musica sia «bella», dunque armoniosa. Chi se ne discosta fa della cacofonia.
Per ogni cultura, almeno sino a tempi recenti, tutte le arti, esprimendo bellezza, godono di un «soffio divino»: ma forse la musica è, fra tutte, quella che più direttamente testimonia del mistero di Dio. Credo non sia un caso se certa musica contemporanea - proponendosi esplicitamente la disarmonia, la sgradevolezza: e ciò per la prima volta, bada, nella storia umana - sia sospettata di una sorta di «propaganda diabolica». Di certo - volontariamente o istintivamente che sia - è il frutto di una cultura senza Dio o in rivolta contro di Lui. E dunque, in rivolta contro l’armonia, la cui figlia è la bellezza. Profondo e accorato l’ammonimento del monaco Cassiodoro, nel VI secolo: «Se commetteremo ingiustizia (è il peccato che turba l’armonia del mondo) Dio ci toglierà la musica». Forse, è proprio a questo che stiamo arrivando.
In modi sotterranei, comunque, quella sapienza «alla Fidia» è sopravvissuta alla fine del mondo antico ed è trasmigrata nell’arte medievale e poi rinascimentale. Dalle cattedrali romaniche e gotiche, ai disegni di Leonardo, sino ai violini di Antonio Stradivari (il cui segreto è nelle proporzioni dei singoli pezzi, come si è scoperto solo di recente), 1’1,618 è onnipresente.
Per ottenere nelle loro opere la bellezza, gli artisti antichi non inventavano, copiavano: non facevano che rifarsi al mondo fisico, animale, vegetale, minerale. Avevano intuito, cioè, che quel rapporto stava dietro al Creato.
Certo, l’avevano intuito e, naturalmente, anche misurato, tanto da applicarlo nelle loro opere. Ma non potevano, ovviamente, avere la consapevolezza permessa a noi dal progresso della tecnologia, in particolare dall’informatica. Noi, oggi, non solo «intuiamo», ma siamo in grado di stabilire con esattezza che quel rapporto, che fa sì che una parte sia in proporzione armoniosa col tutto, lo si incontra nella fisica, nella zoologia, nella botanica, nella chimica, nella mineralogia... Non c’è scienza sperimentale in cui, chi lo cerchi, non sperimenti che la «sezione aurea» (e la «serie di Fibonacci» che vi è strettamente quanto enigmaticamente legata) sembra essere una delle basi su cui è costruito il cosmo.
Dove c’è armonia e rapporto, c’è un pensiero, un progetto. Ancora più difficile, dunque, ipotizzare il «Caso» - seppure con la Maiuscola - dietro una simile proporzione matematica. E ancor più facile, per il credente, vedere qui un’ennesima conferma delle parole della Scrittura. La quale nell’ultimo libro- in senso cronologico - dell’Antico Testamento, quasi prodromo della rivelazione cristiana, constata, lodando la «Sapienza di Dio» che «ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato»: «Tu hai tutto disposto con misura, calcolo, peso» (Sap 11, 20).
In effetti: è proprio quella scienza che più «misura», più «calcola», più «pesa», che, ben lungi dall’espellere Dio dal mondo, ne svela, ad occhi che sappiano leggere e interpretare, la «Sapienza».
Restiamo al caso particolare - e suggestivo - del nostro 0,618 (o 1,618...), restiamo alla successione Fibonacci. Non so quanti sappiano che da questo enigma, che ha nutrito la riflessione di tanti spirituali e ha guidato tanti artisti, hanno tratto vantaggi persino le assai poco mistiche industrie moderne di abbigliamento già confezionato. Riscoprendo che, nel corpo umano ideale, l’altezza è divisa dalla vita (dall’ombelico, nel caso perfetto) in «proporzione divina», e che gli arti sono in «serie Fibonacci» (ma anche le altre parti del corpo, comprese quelle del viso), quegli industriali hanno potuto stabilire una serie di taglie che - con pochi aggiustamenti - coprano le esigenze di ogni uomo e ogni donna ...
Del resto, il corpo umano (ricordati il celebre disegno di Leonardo, ispirato a ciò che già gli antichi ben sapevano) con braccia e gambe divaricate è contenuto in un pentagono regolare; il cui centro coincide, tra l’altro, con i genitali, cioè con gli organi per mezzo dei quali l’uomo e la donna partecipano del dono divino di dare la vita. Congiungendo i vertici di questo pentagono, si ottiene il «pentagono stellato», la «stella a cinque punte», come la chiamano: sacra già per gli ebrei («pentacolo di Salomone») ma pure per le altre religioni antiche, comprese quelle asiatiche, simboleggia per la massoneria il «Grande Architetto dell’Universo». Ebbene, in questo «pentagono stellato» -come già scoprì la scuola di Pitagora - i punti di intersezione delle diagonali dividono le diagonali stesse in due segmenti che sono tra loro in perfetto rapporto aureo: 1 a 0,618.
È singolare che la natura abbia voluto dare delle specie di saggi viventi di quella figura geometrica: le «stelle di mare», in effetti, non sono che «pentagoni stellati». E così le foglie dell’edera, del pioppo e di altre specie vegetali. Dunque, quasi simboli evidenti, visibili, di quel «numero d’oro» che altrove - in zoologia come in botanica - è rivelato solo dal calcolo.
Per non farla più lunga di quanto sia lecito, ricordiamo solo, di corsa, che il misterioso «rapporto» si riscontra in mammiferi, in pesci, in uccelli, in insetti; che la conchiglia, ad esempio, è una mirabile spirale logaritmica tutta costruita sull’1,618 e sull’1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34... (e via all’infinito) di Fibonacci. È solo perché segue queste proporzioni che la conchiglia di molluschi come il nautilo può crescere mantenendo la stessa forma e assicurando dunque un rifugio sempre adeguato all’essere vivente che vi è dentro.
C’è chi si è spinto a dire (non so se esagerando: in fondo, per la nostra ricerca di «orme» non ci occorre tanto...) che «ovunque la natura crei forme che comportano espansioni o contrazioni, sembra tenere presente come termine di riferimento costante 1’1,618».
Davvero astuto e bravo questo «Caso»!
Già. E bravi anche il «caso e la necessità» che avrebbero fornito ai ragni l’«impulso istintuale» per costruire tele secondo le proporzioni costanti di cui ci occupiamo. Ricordiamo, comunque, che secondo il «numero aureo» crescono tronchi, rami, foglie delle piante. Le scaglie della pigna d’abete, per dire, sono poste a distanze crescenti, il cui rapporto è il consueto o. Per restare alla botanica, un comunissimo e ben poco pregiato fiore di girasole è un mistero geometrico del quale i computer ci stanno rivelando sempre nuove meraviglie. In effetti, le migliaia di semi gialli dentro la corolla sono disposti secondo una spirale logaritmica affine a quella delle conchiglie: dunque, governate dal nostro consueto «numero d’oro».
Ma, adesso, basta. Ancora una volta cerchiamo di non dimenticare che non siamo qui per un trattato, meno che mai sul numerus aureus, o divina proportio o effe greco che dir si voglia ... Ricordarci qualcosa al proposito ci serviva solo per individuare una delle tante possibili «firme» del Dio che ha scelto la penombra, una probabile «sigla» del Creatore che ama la discrezione e, insieme, la bellezza. E per confermare (ma ce n’è davvero bisogno?) che, se nessun ordine può nascere dal caos, meno che mai può nascere basandosi su un simile rapporto armonico, costante, misurabile.
Basta così, dunque. Semmai - per allargare il discorso a un fatto generale - la sola cosa che potremmo aggiungere è una foglia di rosa. Dove - ça va sans dire ... - lunghezza e larghezza si adeguano alla proporzione «d’oro».
Perché aggiungere, fra tanti possibili, proprio l’esempio della rosa? Per il valore simbolico che ha in tante religioni e non solo in quella cristiana? Assieme al loto, è il fiore sacro per eccellenza: vuoi forse dire che, qui, il «marchio» del Creatore doveva essere, in qualche modo, particolarmente evidente?
Non per questo; o, se vuoi, non solo per questo. Motivo principale è un altro: vedevo, tempo fa, uno studio compiuto appunto su alcune decine di migliaia di foglie di rosa di ogni varietà. Ne risultava che il rapporto tra larghezza e lunghezza solo in pochi casi corrispondeva perfettamente alla «magica» cifra. Il valore oscillava tra un minimo di 1,616 e un massimo di 1,621. La proporzione «aurea» era dunque confermata ma, il maggior numero delle volte, con uno scarto, seppure entro limiti ridotti. E così sembra essere ovunque, in natura: ad esempio, moltissime «cose» hanno un aspetto circolare, ma pare che nessun oggetto naturale sia un cerchio perfetto. La Terra è rotonda, e al contempo non lo è, essendo schiacciata ai Poli... Anche se le imperfezioni sfuggono al nostro sguardo, gli strumenti di misura le rivelano, pur se talvolta sono minime.
È una realtà che i secoli «cristiani» riconobbero, assieme al suo significato profondo. Pensa a quei meravigliosi «libri di pietra» che sono le cattedrali, del cui manto tutta l’Europa si ricoprì in meno di tre secoli. In esse, i costruttori progettarono un microcosmo che fosse specchio del macrocosmo; la chiesa-madre - la sede della «cattedra» del vescovo e il teatro di quel dramma quotidiano che è la rinnovazione del sacrificio di Cristo - vista come immagine totale dell’universo, come icona della creazione. Ebbene: proprio ad esempio del Creatore, architetti e maestri d’opera non solo, lo ricordavamo, misero sculture in luoghi non visibili da tutti, ma introdussero anche, intenzionalmente, qualche imperfezione nella perfezione tecnica, che pur sapevano benissimo raggiungere.
Prendi uno dei vertici della civiltà medievale, il duomo di Ferrara, la «chiesa pitagorica», com’è stata chiamata, proprio perché tutta costruita sul simbolismo dei rapporti matematici. Naturalmente il «numero d’oro», la «proporzione divina» vi è onnipresente, sin dall’ingresso, dal vano del portale maggiore, la cui altezza è di 12,47 «piedi ferraresi» (l’unità di misura locale) e la larghezza di 7,70. Tra le due misure, il rapporto non è di 1,618. E, invece, di 1,619: uno scarto minimo e chiaramente intenzionale.
Come nelle foglie della rosa.
Sì, come nel creato. Come sa ogni turista - per dare un altro esempio tra i molti, sempre restando a Ferrara - la facciata di quella cattedrale è divisa in tre parti eguali, simbolo della Trinità. Ogni parte dovrebbe avere la larghezza di 33,33 «piedi»: altro numero simbolico. «Dovrebbe», dico, perché l’architetto ha introdotto anche qui un leggero scarto: 33,23 «piedi». La casa di Dio è «organismo vivo» anche nella perfezione temperata - come in natura - dall’approssimazione controllata.
Credo che, partendo da constatazioni come questa, si possano azzardare alcune ipotesi ulteriori sul «progetto di lavoro» di un Creatore come quello in cui crediamo. Un Dio che è sì «ingegnere», che è sì «architetto». Ma che non è, non vuoi essere, soltanto questo. Sembra che la libertà che ha salvaguardato per le sue creature voglia riservarsela anche per se stesso. Proprio perché ha fatto le regole del gioco, vuol permettersi di derogarvi, seppure entro certi limiti.
Giusto perché è l’autore e il padrone di quelle regole, non vuole esserne prigioniero. Nel suo software, a differenza degli specialisti umani, si è concesso il lusso di introdurre qualche scostamento, se non imprecisione, pur mai incompatibile con il Progetto globale. E un «ingegnere» ma al contempo un «artista»: la «macchina» dell’universo è mirabile per precisione, ma anche per fantasia.
È come un immenso concerto (dopo la similitudine «elettronica», proviamo quella «musicale»), durante il quale il direttore dell’orchestra si permette qualche variazione, pur rispettando lo spartito prefissato. E tanto più quel direttore si può permettere delle variazioni, se la musica che esegue l’ha scritta egli stesso.
Forse, con un gioco di parole, un «Creatore» sì, ma «creativo».
Comunque, un Artista che rifugge dalla produzione in serie, standardizzata. Dunque, l’armonia delle foglie di rose – come di ogni altro aspetto della natura – è salvaguardata, così come è assicurata l’efficacia nel compito assegnato loro per la vita della pianta; ma ciascuna è diversa dall’altra. Niente, nel mondo, esce da una Macchina capace solo di fare dei «pezzi» standardizzati, uno eguale all’altro.
Il «numero aureo» è uno dei Suoi segreti? è uno dei Suoi «marchi di fabbrica»? Sono propenso a crederlo, pur non assolutizzandolo e pur non facendo dipendere la fede – è ovvio! – da argomenti come questo. Ma non mi stupisce, anzi mi conferma in ciò che già so, lo scoprire che quel «marchio» è posto su prodotti «artigianali», «fatti a mano», tutti simili e tutti al contempo differenti.
Non è, il nostro, un Dio di «massa», ma di creature – animate o inanimate che siano – pensate una ad una. Nel mondo non c’è neppure un sasso simile a un altro. E un botanico munito di strumenti – ma persino noi stessi, se guardassimo con attenzione – è in grado di distinguere da ogni altro un filo d’erba di un prato. Dicono gli entomologi che nei formicai o nei termitai giganti, con spesso milioni di esemplari, ciascuno è in grado di distinguere l’altro, di riconoscerlo a colpo sicuro tra quelle masse che a noi sembrano indistinte per definizione. Neanche quegli esseri, dunque, sono fatti in serie!
Con pochissimi «elementi di base» (due occhi, un naso, una bocca, due orecchi...) non uno solo dei forse trecento miliardi di volti umani della intera storia umana è simile a un altro: ciascuno è inconfondibile. Dunque, unico; pur essendo al contempo eguale a tutti.
Mi sembrano constatazioni che derivano logicamente dall’essenza divina: un Dio che è amore non poteva creare diversamente. Non si ama l’indistinto, l’anonimo, lo «standardizzato». Comunque, è questo «programma personalizzato», è questa fantasia, pur dentro leggi e costanti rigorose, che assicura al mondo la sua straordinaria varietà, la sua assenza di monotonia.
Sì, ma attenzione: può darsi che il costo di questo «positivo» sia quel «negativo» (così, almeno, appare a noi, nella nostra prospettiva limitata) costituito da scartamenti dalla norma che riguardano l’uomo stesso. Una statistica rattristante ci ricorda, ad esempio, che, ogni cento bambini, in media quattro o cinque nascono con malformazioni, più o meno gravi. E non c’è specie vivente che non abbia le sue deformità.
È questo il prezzo obbligato di un mondo regolato da leggi che non sono però prigioni, che sono suscettibili di variazioni all’interno di pur precise coordinate?
Sta in questa strategia di un mondo ordinato e sottoposto a costanti regolari che permettono, tra l’altro, la descrizione e la previsione scientifica, ma di un mondo al contempo «non fatto in serie», sta forse qui una delle possibili risposte anche a quell’enigma del male e del dolore che il Dio di Gesù non ha né spiegato né eliminato ma assunto – tutto intero – su di Sé?
Come la libertà morale data all’uomo permette il peccato, così la libertà «materiale» data al Creato lascia spazio pure all’imperfezione? Molto, almeno, del male del mondo – nell’anima, certo, ma pure nelle cose – altro non è che il risvolto oscuro della realtà luminosa di un progetto divino di libertà?
Sono, al solito, balbettii, questi nostri, nel rispetto di quel mistero di cui forse intuiamo i contorni, ma senza riuscire a penetrarvi finché siamo nel chiaroscuro della vita e «vediamo come in uno specchio».
Balbettii, d’accordo; ma sufficienti per scandalizzare molti, soprattutto nella attuale intellighenzia clericale, timorosa di ogni sospetto di «contaminazione» tra scienza e fede, tra riflessione religiosa e risultati della ricerca sperimentale.
Nessuna «contaminazione», sia chiaro. E non per timore di essere etichettati come «apologeti» (cosa che non ci offende, ma ci onora) quanto per prudenza: apologeti sì, ma «avveduti». I risultati della scienza sono sempre provvisori, potenzialmente instabili, soggetti a «falsificazione», per dirla con Karl Popper. Prenderli come base per la conferma di verità eterne può essere rischioso.
Pensa, ad esempio, alla teoria del «grande botto», quel big-bang dal quale 15 miliardi di anni fa avrebbe avuto origine l’universo intero. Non sembra una delle più suggestive conferme dell’inizio stesso della Bibbia? «In principio, Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso... Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu...». Affascinante, certo; ma se l’entusiasmo ci portasse a legare la nostra fede a questa ipotesi, come a ogni altra della scienza, metteremmo in pericolo la fede stessa: la smentita della teoria (sempre possibile, come mostra l’esperienza) avrebbe riflessi anche sulle ragioni del nostro credere.
Questo precisato, non vogliamo rinunciare alla libertà della riflessione sulla fede, anche partendo da dati oggettivi, messi a disposizione dalla ricerca, pur guardandoci dall’assolutizzarli. Il mondo è il sillabario di Dio: sta a noi cercare di leggerlo. Sempre, s’intende, nella consapevolezza che c’è spesso, in simili riflessioni, anche un margine di soggettività. Possono essere motivo di conferma per alcuni e non per altri. Tanto per ricitare Pascal: «Ci si convince meglio con le ragioni che ciascuno trova da sé, piuttosto che con quelle trovate da altri...».
La presenza della «sezione aurea» - nascosta, ma abbastanza percepibile da essere «scoperta» già dalle culture antiche - è per me uno degli indizi (uno fra i tanti, bada) che, uniti a moltissimi altri, possono costituire lo stock, il magazzino delle sragioni per credere».
In fondo, è pure questo un modo per sperimentare ciò cui abbiamo già accennato: si può credere non malgrado la scienza moderna, ma anche grazie ad essa. Con le «impronte digitali» che va scoprendo, pur senza proporselo (una scienza «apologeta» di qualunque causa che non fosse la sua, di ricerca oggettiva sulla realtà, non sarebbe più tale) offre spunti fascinosi alla nostra meditazione.
Proprio in questa linea – e a mio rischio e pericolo, s’intende – da tempo vado riflettendo, fra molte altre cose, sulle possibili connessioni tra quelle prime parole dell’Antico Testamento che ho appena citato («In principio, Dio creò il cielo e la terra»), e una delle ultime del Nuovo. E l’affermazione sconvolgente, e assolutamente inaudita nella storia delle religioni, della Prima lettera di Giovanni: «Dio è amore».
A questa «essenza» del Dio cristiano abbiamo già accennato – lo ricordi di certo – parlando di quell’altro unicum che è il «dogma trinitario». Ma m’interessa, ora, un’altra pista di ricerca: risibile per alcuni, certo; ma, spero, coerente per un cristiano che non prenda la Parola di Dio come un vaniloquio e veda dunque l’universo intero come un «sistema di segni».
Vi è, cioè, nel creato, inteso anche in senso «fisico», una qualche possibile traccia che sia opera di un Creatore la cui essenza è l’Amore, così come (lo abbiamo visto) c’è chi pensa vi siano «rimandi», per quanto enigmatici e doverosamente «ambigui», al Suo mistero trinitario?
Un bel rischio, non c’è che dire. Ma, d’altro canto, tutta la fede è rischio. E la ragione c’è stata data per esercitarla in ogni direzione, pur sempre nella consapevolezza dei suoi limiti.
Dobbiamo insistere - perché è vero - sul fatto che è il credente il vero «libero pensatore». Noi non escludiamo nulla, a differenza del non-credente, costretto a ignorare e a rimuovere tutto ciò che minaccia la piccola radura che ha disboscato.
Vediamo, allora. «Dio è amore»; ma è la stessa Scrittura che ci assicura che, di quel Dio, siamo fatti «a immagine e somiglianza». Sperimentiamo che amare significa «essere attratti», sentirsi indotti a «gravitare» su di un altro. Non è forse una separazione, seppur temporanea, il momento più doloroso per gli innamorati?
Ebbene: proprio la fisica moderna ci ha mostrato che tutto l’universo - dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo - è tenuto insieme da una forza misteriosa della quale la scienza sa da tempo misurare l’intensità (la famosa «legge di Newton») ma della quale non sa ancora spiegare l’origine e la natura. E la forza detta di «attrazione e di gravitazione universale», per la quale tutti i corpi fisici si attraggono tra loro.
Se non sbaglio, è il classico esperimento che tutti abbiamo visto, a scuola, nel laboratorio per la lezione di fisica: una palla di ferro sospesa al braccio di una bilancia a torsione, l’insegnante che avvicina un altro corpo in ferro, la palla della bilancia che tende a ruotare verso quest’ultimo... Assai semplice a descriversi, ma, in effetti, assai misterioso quanto all’origine.
Anche se non riusciamo a spiegare che cosa sia, questa onnipresente «forza di gravitazione», resta il fatto che l’universo si sfascerebbe - di colpo - se tutto non fosse attirato da tutto; se tutto non «gravitasse» attorno a qualcos’altro. Dagli elettroni che girano attorno al nucleo dell’atomo, dagli atomi che si attraggono tra loro riunendosi in molecole, sino ai pianeti che - avvinti dal Sole - vi ruotano attorno. Il Sole, poi, che ruota attorno al centro della galassia e le galassie che gravitano attorno a uno sconosciuto - ma pur sicuramente esistente - centro dell’universo.
Da qui, la domanda che spesso mi faccio, che affascina me, ma che non pretendo certamente di imporre ad altri: questa forza inesorabile di attrazione, per cui nulla esiste isolato, ma solo in rapporto a qualcos’altro, non sarà per caso l’equivalente - nella materia fisica - di quell’amore che l’uomo sperimenta, come forza altrettanto inesorabile di attrazione, di gravitazione? Essere innamorati, amare, non è forse «un girare attorno all’altro»? Ed entrambe queste forze, fisica e morale, che tengono insieme tanto l’universo quanto la società (anche questa si sfascerebbe se davvero sparisse ogni «attrazione» o almeno «gravitazione» tra esseri umani), entrambe queste forze - dico - non saranno forse la traccia, discreta come nel Suo stile, del Creatore la cui essenza c’è stata rivelata come Amore?
Sarà bene affrettarsi a chiudere, prima che i «teologicamente corretti», quelli per i quali la teologia è una «disciplina accademica» come ogni altra, ci portino via con la camicia di forza. Azzardarsi, sia pure come riflessione personale, a risalire dalla fisica alla metafisica ...
Hai ragione. Ma lasciami finire (aggravo, da incosciente forse un po’ masochista, la mia posizione già compromessa) esprimendo la mia riconoscenza a un linguista americano, Joseph Harold Greenberg, della Stanford University, il celebre istituto di Palo Alto, California. Non ho mai visto quel professore e prevedibilmente non lo vedrò mai. Di lui (di cui so, naturalmente, che è tra i maggiori storici mondiali del linguaggio) ho letto solo il libro certamente più famoso. E un’opera recente, della fine degli anni Ottanta.
Ma sì, sono grato a questo esimio e benemerito professor Greenberg.
Stai cercando di montare una specie di suspense. Vedrò di non deluderti: perché tanta gratitudine per questo specialista californiano?
Ecco qua, allora. Tra le ipotesi che, sino a qualche decennio fa, provocavano sorrisi di compatimento (e poi, se insistevi, reazioni brusche) fra gli «specialisti», v’era quella di un solo linguaggio, all’origine dell’umanità. Questo avrebbe postulato logicamente un’altra ipotesi, quella di una sola origine della vita sulla Terra. Se qualcuno avesse sostenuto anche solo una possibilità del genere, sarebbe stato emarginato tra beffe e lazzi, come ridicolo credente in decrepite superstizioni religiose; come un buffo (forse anche pericoloso) «fondamentalista biblico». Uno che, dietro i racconti del primo libro della Scrittura, il Genesi, si ostinava incredibilmente a sospettare qualcosa come l’eco di una verità giuntaci attraverso una Rivelazione.
A scanso di equivoci, ci conviene ribadire quanto già abbiamo detto e che dovrebbe essere ovvio: a differenza di certi protestanti, per noi la Bibbia non è il Corano, che non sopporta interpretazioni, pena una condanna a morte ... I libri biblici hanno un intento pedagogico, teologico, sapienziale, non sono un trattato scientifico. Vogliono innanzitutto rivelarci il significato dell’esistenza umana, la sua origine da un solo Creatore, dunque la sua vocazione divina. Conosciamo la dottrina dei «generi letterari», non andiamo di certo alla ricerca affannata di «concordanze» tra la Bibbia e la scienza. Che pensare, altrimenti, di casi come la lista del libro del Levitico sugli animali puri e impuri, che tra questi ultimi mette la lepre, dandola come un «ruminante» mentre è un roditore? Quella lista ha un significato ben diverso da quello di un corso di zoologia: la famosa «inerranza biblica» tutela il messaggio, non il rivestimento umano. Anche parlando di ipotesi evoluzionistiche, lo ricordi, abbiamo più volte precisato che - qualora ne fosse provata la verità - non per questo andremmo in crisi o reagiremmo, purché non si volesse escludere la presenza, dietro le quinte, del «Grande Programmatore».
Con tutto questo, proprio la fede ci fa persone libere che non rifiutano né accettano acriticamente nulla. Dunque, senti che succede: l’altro giorno mi arriva questo libro di Luigi Luca Cavalli-Sforza, che non è esattamente un visionario o un mitomane, ma è un docente di genetica lui pure - come Greenberg - alla Stanford University, dopo una carriera passata attraverso atenei di certo non irrilevanti, come Cambridge e Pavia. Da anni, è responsabile dello Human Genoma Project, un programma internazionale che si propone di catalogare il DNA di tutte le etnìe di tutti i Continenti. Apro il libro di questo famoso - e laicissimo - scienziato, e vi leggo queste righe, basate proprio su quella ricerca mondiale di «geografia genetica»: «Molti biologi oggi pensano che vi sia stata una sola origine della vita sulla Terra, perché esiste un unico tipo di amminoacidi sintetizzati dalle cellule viventi, mentre ve ne potrebbero essere due, di struttura chimica opposta».
Non chiedermi che ti spieghi: ovviamente, non ne sarei capace. Ci basti sapere (parola di genetista giudicato fra i più illustri e aggiornati dai suoi colleghi stessi), che non escludere la possibilità di «una sola origine della vita sulla Terra» non solo non è più motivo sufficiente per essere sbattuti fuori, e con infamia, dalla comunità scientifica «seria»; ma che, anzi, può costituire un marchio di modernità, d’avanguardia.
A ennesima conferma, tra l’altro, di quanto l’esperienza consiglia: gli «esperti» e le loro «certezze» e «dogmi», prenderli, se si vuole, sul serio, mai sul tragico. Aspettare e pazientare: prima o poi il vento cambia; e, di solito, si scopre che vero «moderno» era colui che non si era staccato dal buon senso. Il quale, assai spesso, coincide con la tradizione. Anche religiosa, perché no? Abbiamo ben ricordato come non siano lontani i tempi in cui l’ateismo era il «futuro» e la fede il «passato irrimediabilmente superato» ...
Qualcosa del genere non sta succedendo con l’esegesi biblica? Dopo aver triturato i vangeli con i loro metodi «storico-critici» (dagli intimidatori nomi tedeschi), dopo averli ridotti a un puzzle sospetto di frammenti radunati da ogni parte, dopo aver deriso l’ingenuità di chi cercasse il «Gesù della storia» dietro il «Cristo della fede»; dopo tutto questo, i biblisti, da qualche tempo, non si sono fatti più prudenti? Non c’è, addirittura chi si azzarda a dire - per ora, solo a mezza voce - che, dopo due secoli di indagine «scientifica», si scopre che il modo più attendibile e «avanzato» di leggere i vangeli è quello più semplice, quello del credente che (a differenza degli «esperti») ha sempre ritenuto essenziale per la fede che ciò che è scritto in quei quattro libriccini corrisponda a ciò che è avvenuto?
«Quando una teoria è in contrasto col buonsenso, non affrettarti a dare torto al tuo buonsenso», dice uno dei sani principi della «metodologia contadina». Potremmo aggiungerne un altro, di principio: «Se vuoi restare presto vedovo, sposa una moda». Ma di questo parleremo a suo tempo, quando (a Dio piacendo) affronteremo il discorso su «Gesù», mostrando come pure lì il metodo più fruttuoso sia quello dell’et-et.
Adesso, veniamo all’ipotesi del solo linguaggio, che presuppone un solo gruppo umano all’origine di tutto.
È qui che entra in scena J.H. Greenberg, il linguista californiano. Il quale - e di recente, come ti dicevo - è riuscito a individuare quell’araba fenice (fino a poco fa ricercata soltanto da pochi ostinati, emarginati come «patetici dilettanti») che è almeno una radice etimologica comune a tutte le famiglie linguistiche del mondo. Quella radice pare sia TIK: da questo breve suono, che indichiamo con tre soli caratteri latini, attraverso processi e modificazioni che solo un linguista consumato può ricostruire e capire (e non è, ovviamente, né il mio né, credo, il tuo caso) sarebbe derivata una parola che sembra rivelare il legame tra tutti gli uomini, riconducendoli a un’origine comune.
Anzi, da qualche tempo Greenberg non è più solo. C’è per esempio un altro illustre linguista americano, Merrit Ruhlen, che in The Mother Tongue dimostra anch’egli come gli oltre cinquemila linguaggi parlati oggi sulla Terra derivino tutti dalla «lingua madre» indicata dal titolo. Ti leggo la conclusione: «La monogenesi delle lingue esistenti è ormai così evidente, che il problema del futuro non sarà stabilire che tutte le lingue del mondo sono imparentate, ma capire perché c’è voluto tanto tempo per accorgersene». Esagera, questo pur autorevole professor Ruhlen? Anche qui, in suo soccorso accorre un genetista illustre almeno quanto Cavalli-Sforza, André Langaney, direttore del Musée de l’Homme di Parigi, una delle maggiori istituzioni antropologiche. Nella convinta prefazione al libro di Ruhlen, lo specialista francese scrive: «Oggi non c’è più alcun dubbio sull’origine comune dei cinque miliardi di umani attuali da una popolazione unica della preistoria. Dunque, una "lingua madre" appare come una realtà assai coerente con questa certezza».
Naturalmente, è giusto che reagiscano aspramente quei professori che non possono rinnegare le loro poderose e ponderose bibliografie. E umano, è normale; ma, quali che siano le consuete resistenze accademiche, pare proprio che la via del futuro sia quella tracciata da questi nuovi studiosi che, sino a qualche tempo fa, sarebbero stati internati fra gli alienati.
Comunque, i linguisti che, sempre più numerosi, danno ragione al «patriarca» Greenberg dicono di avere individuato una trentina di «radici mondiali», ma ammettono che quel Tue ha una sorta di primato, è il beniamino fra i reperti venutici addirittura da una prima coppia (pare africana, a scorno dell’orgoglio di noi europei ...).
Adesso non esagerare con i tentativi di suspense: fuori il significato di quella parola modulata in tutte le lingue, partendo da quest’unica radice primitiva.
TIK può indicare sia un dito, sia il numero uno: doppio significato che non stupisce, visto che l’uno è indicabile con un dito alzato. Anzi, la cifra con cui lo scriviamo - 1 - pare abbia all’origine proprio la stilizzazione del dito. Questo è, in latino, dig-itus. «Mostrare puntando il dito» suona, nella stessa lingua, in-dic-are; in greco, deìk-nymi. Dietro quei «dig», «dic», «deìk» (per stare solo alle due lingue dell’antichità classica), ci sarebbe questa «madre di tutte le parole» individuata nella radice TIK.
Per andare - come al solito, per noi, temerari irresponsabili - dal dato fornito dalla ricerca scientifica alla riflessione religiosa, ammetterai che, pure qui, c’è uno spunto che affascina. Il Dio Uno, l’Unico per eccellenza avrebbe forse lasciato tra tutti gli uomini, come eredità comune (mascherata, alterata, ma non impenetrabile alla ricerca, secondo il consueto gioco al nascondino) la parola per indicarlo: UNO?
E, quanto al «dito», chi ha un poco di familiarità con la Scrittura non può non pensare a un testo che non è solo tra i più belli, ma anche tra i più significativi per chi, come noi, ha cercato di farfugliare almeno qualcosa attorno al mistero del Dio creatore. E il salmo 8, naturalmente.
Varrà la pena di rileggerselo:
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cos’è l’uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, dì gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi
…
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.
E con questo, basta: per ora. Adnuente Deo, s’intende (mica dimentichiamo Giacomo 4, 13 ss.!...), avremo modo di percorrere quelle due altre «tappe» che sappiamo.
Certo, questa nostra suddivisione è arbitraria: come abbiamo visto di continuo, non si può parlare del Dio Padre se non parlando del Figlio; e anche di quello Spirito che sorregge e ispira quella «marcia del Cristo nella storia» che, per noi, è la Chiesa. Volevamo prendere a guida il Credo. E questo comincia con un «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente ...». Padre: dunque è il «nostro» Dio; e quello soltanto: abbiamo cercato di ricordarlo. Dunque, sappiamo bene che la fede è un blocco dove «tutto si tiene».
Ma tant’è. Sono i nostri limiti che ci consigliano una sosta. Arrivederci, dunque, a qualche altro incontro.
V. M.: Naturalmente, «tutto è Grazia», per dirla con le ultime parole del «curato di campagna» di Bernanos, che ripeteva qui un’espressione della piccola (e grandissima!) santa Teresa di Lisieux. Non lo ricorderemo mai abbastanza: tra i motivi per credere in questo nostro Dio c’è proprio questa discrezione che rifugge dalla brutalità di un’evidenza che ti costringerebbe ad alzare le mani in segno di resa.
Come ha detto qualcuno, questo Signore ha «uno stile da signore». Una sorta di understatement da gentiluomo all’antica, che Gli fa apporre sì la firma, ma in modo così discreto che puoi scorgerla, e riconoscere che è la Sua, solo approfondendo e riflettendo bene. Anzi, più che una firma potrebbe sembrare una sigla, se non un’impronta digitale.
Un Dio che ama celarsi, e insieme rivelarsi, nei particolari. O agli estremi, nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo: nell’insondabile vastità delle galassie che solo i telescopi rivelano; e nella struttura profonda della materia, scopribile unicamente con i microscopi elettronici.
Del «signore», del resto, almeno come l’intendiamo in senso umano, sembra avere altre caratteristiche. Ad esempio, la prodigalità che si fa scialo: milioni di spermatozoi per fecondare un solo ovulo; milioni di galassie, con miliardi di stelle; più di due milioni soltanto di specie di insetti ...
Ma, «signorile», anche, la gratuità: la bellezza dei fiori su montagne inaccessibili, dove nessuno giungerà mai per ammirarli; la bellezza delle specie viventi negli abissi oceanici e delle quali solo di recente abbiamo avuto esperienza, mentre di infinite altre non ne avremo mai. E quella gratuità che il Medio Evo aveva intuito: così, per imitare anche in questo il suo Dio, ne simboleggiava lo stile, posando le statue più belle negli angoli dei soffitti delle cattedrali, inaccessibili ad occhi umani.
Forse anche in questo senso va inteso il famoso appunto di Pascal che, in nome del Deus absconditus, rende l’onore delle armi all’ateismo: «Segno di forza di pensiero, ma solo fino a un certo punto». Un pensiero, cioè, che non si spinge sino a quelle profondità dove stanno, appunto, le «impronte digitali» dell’Autore.
E Jean de La Bruyère: «Ésprit fort, ésprit faible». L’ésprit fort, lo «spirito forte» è appunto il miscredente, l’agnostico, l’ateo; che mostra però di essere faible, debole, non riuscendo ad andare al di là di quelle apparenze, dietro le quali il Creatore si cela.
In questa prospettiva andrebbe rovesciato il luogo comune, secondo il quale la penetrazione intellettuale, la forza di pensiero, l’anticonforrnismo culturale contrassegnerebbero chi rifiuta o critica la credenza religiosa. Pensiamo a quell’Ottocento e a quell’inizio di Novecento, in cui i cristiani - e i cattolici soprattutto - erano visti come un’etnia superstiziosa in via di estinzione, gente aggrappata a miti e leggende ormai insostenibili. Usciti dalla modernità, quei presunti «miti e leggende» mostrano una tenuta ben superiore alle «luci della Ragione» che avrebbero dovuto dissolverli.
E più o meno così. C’è però da stare attenti a ogni trionfalismo. Per la logica evangelica, e per la costante dell’et-et, ogni possibile trionfo della fede («trionfo» che riguarda però, soprattutto, il segreto dei cuori) sarà sempre accompagnato dallo scacco, almeno secondo le categorie umane. Anzi, stando al Nuovo Testamento, la fede sopravviverà sì fino al ritorno del Cristo, ma andrà declinando e sarà messa in pericolo; sembra di capire che si ridurrà, almeno quantitativamente, mano a mano che ci si avvicina alla fine della storia.
Ci è promesso di far parte di un grande popolo e al contempo di un piccolo gregge. Gesù spezza in due il calendario della storia (a.C., d.C., «avanti Cristo», «dopo Cristo») e, al contempo, in quella storia resta in penombra. La discrezione, anche qui: non a caso la fede è definita dal vangelo un lievito che dà vita a tutta la pasta, restando celato all’interno di essa. Quel lievito, però, nessuno lo può più levare: la sua non appariscenza è pari alla sua tenacia; e, se vuoi, all’importanza degli effetti (quante cose, nel mondo, sono «cristiane», senza che neppure i cristiani il più delle volte lo sappiano!).
Per il futuro, comunque, converrà tener presente al contempo una doppia prospettiva (tanto per cambiare...): innanzitutto, il «successo» umano, quello «secondo il mondo», non fa parte delle categorie di quel vangelo dove sta scritto, tra l’altro: «Guai a voi quando gli uomini diranno bene di voi» (Lc 6, 26). Ma, insieme, sarà opportuno non dimenticare quanto diceva Chesterton: «Il cristianesimo è stato (e sarà) dichiarato morto infinite volte. Ma, poi, sempre è risorto (e risorgerà), perché è fondato sulla fede in un Dio che conosce bene la strada per uscire dal sepolcro».
Per tornare alle «impronte digitali», alla «firma discreta» del Creatore: mi pare che la scienza moderna stia riscoprendo l’intuizione degli antichi. Il segreto dell’universo, cioè, sta nei numeri: tutto è basato su una serie tanto costante e ferrea quanto misteriosa di rapporti matematici. Il «caso» è escluso anche dalla conferma di una struttura numerica che regge tutta la «macchina» dell’universo e che le permette non solo di funzionare, ma di esistere. Sarebbe bastato lo scostamento di un decimale di una delle «cifre» fondamentali perché ci fosse caos e non ordine o perché la vita non apparisse sulla Terra.
«Tutto è numero», per dirla con Pitagora. E proprio per questo, aggiunse Aristotele, «tutto, nell’universo, è armonia». Così che Platone poté concludere che «Dio è geometra».
Sapienza antica, confermata però, comme d’habitude, dalla ricerca moderna: non solo la Terra, ma il Cosmo intero sono retti da una dozzina di cifre, quelle che esprimono le fondamentali «costanti» fisiche. Dalla velocità della luce nel vuoto, alla massa e carica dell’elettrone, alla gravitazione universale: come ricordi tu stesso, non saremmo qui a parlarne, se una sola di queste costanti fosse stata diversa dalla cifra che la esprime. Cifra che siamo in grado di misurare ma non, come al solito, di spiegare: perché questi «numeri» e non altri? Ciò che sappiamo è che quella dozzina di valori matematici è la sola possibile »combinazione vincente», è l’unico «codice» praticabile per la comparsa e la prosecuzione della vita. Insomma, come al Bancomat: se non batti quel numero, e quello solo, niente soldi, lo sportello non si apre proprio ...
Ma, giusto a proposito di «numeri» e «armonia», mi viene in mente il singolare enigma dell’1,61803398... (come il famoso «pi greco», che è «circa» 3,14159265..., è un numero «irrazionale» – «inesprimibile», dicevano gli antichi – perché ha una serie infinita di decimali che segue la virgola).
Conviene avvertire di nuovo che, al di là delle ragioni oggettive (che pure esistono) per credere – o, volendo, per dubitare, secondo la legge di libertà che sappiamo – ci sono degli argomenti soggettivi. L’apologetica classica distingue in effetti argomenti ad omnes, per tutti, e ad hominem,
per le singole persone. Ciascuno, cioè, è convinto, o non è convinto, più da certi aspetti piuttosto che da altri.
Per quanto mi riguarda, convinto come sono del «gioco a nascondino» di Dio, ciò che soprattutto mi seduce è scoprire quelle che potrebbero essere le «orme sulla sabbia» di questo Creatore così «felpato».
Tra queste impronte, pare a molti che abbia un suo posto (importante quanto affascinante per la sua nascosta presenza) 1’1,618... O, come altri preferiscono dire, lo 0,618..., che ne è il reciproco.
Vi accenno, preciso, come a un caso che induce me alla riflessione, senza però dargli importanza decisiva e senza assolutizzarlo (anche se il fatto specifico, oggettivo, esiste e non è negabile). E una traccia assieme alle altre. Altri sono colpiti da altro: in fondo, la scelta di «indizi» – qui – è illimitata. Le vie alla fede – o all’incredulità – sono tante quanti sono gli uomini.
Se non sbaglio, quell’1 virgola «circa» 618, è la cosiddetta «sezione aurea». Quello che chiamano anche «numero d’oro».
Proprio lui. Quello che gli antichi conobbero e cercarono d’imitare dalla natura: non a caso l’indicarono pure come «proporzione divina». Ricordi, no?, l’esempio che capiamo persino noi, profani di matematica: si prende un bastone di un metro e se ne taglia un segmento di 38,2 centimetri. L’altro segmento sarà – ovviamente – di 61,8. I due pezzi, in questa lunghezza – e in questa soltanto – sono in rapporto «armonico» tra loro. In effetti, il rapporto fra il segmento più lungo e quello più corto è uguale al rapporto che c’è tra il segmento più lungo e il bastone completo, quando cioè era lungo un metro. Questo rapporto è sempre di 1,61803398 ...
Per cercare di capire meglio (anche se, in pratica, la cosa è più semplice di quanto non sembri quando si cerca di esprimerla a parole), la divisione di una linea in due pezzi secondo questa misura «stabilisce un gioco di rapporti tale, per cui la parte più piccola della linea è in rapporto con la più grande così come questa è in rapporto con la linea intera». In modo pragmatico, per farci ancor più l’idea, l’equivalente del «numero d’oro» è, con molta approssimazione, circa il rapporto che c’è fra 3 e 5.
Ebbene, gli antichi intuirono che il numero che esprimeva una simile relazione era forse il «marchio di fabbrica» di un Creatore del mondo. Intuizione che sembrò poi avere una conferma quando, nel XIII secolo, Leonardo Fibonacci (il pisano cui dobbiamo l’introduzione in Occidente delle cifre «arabe») costruì quella sua celebre «successione» o «serie numerica», dove ogni cifra è data dalla somma delle due precedenti. In questa «serie», dopo le prime sei cifre (che si avvicinano rapidamente, e con sempre maggior precisione, al valore che qui ci interessa) a partire dal settimo numero il rapporto fra due successivi è sempre 1,618. E tale resta all’infinito, aderendo anzi sempre di più al valore del «numero d’oro».
In ogni caso, la presenza di quel numero, considerato «divino» già dagli assiri, dai babilonesi, dagli egizi, dai greci, e poi dai costruttori medievali di cattedrali (considerati dai massoni come i loro antenati proprio per la straordinaria sapienza anche simbolica) è stata confermata oggi - e alla grande - dall’informatica moderna.
Già: si direbbe uno di quei casi (non infrequenti, del resto, vi abbiamo già accennato) in cui proprio il progresso della scienza rende più fitto l’enigma. Proprio i mezzi d’indagine col sussidio dell’elettronica hanno mostrato, e sempre più mostrano, che dal microcosmo al macrocosmo, dagli organismi infinitamente piccoli ai corpi celesti infinitamente grandi, il «rapporto aureo», la «proporzione divina», il misterioso 0,618 0 1,618 sembra onnipresente.
A noi moderni interessa soprattutto la scienza; anzi, quella sua applicazione concreta che è la tecnologia. Agli antichi stava a cuore la bellezza - figlia dell’armonia - da raggiungere nella musica come nelle arti figurative e nell’architettura. Si dice che proprio lì cercassero di «imitare gli dèi», applicando quello che consideravano il loro «numero».
In effetti, se lo specifico dell’arte antica, classica, è l’armonia, il segreto di quelle proporzioni che danno gioia e riposo (senza che ci rendiamo conto del motivo) sembra stare nascosto proprio nel «numero d’oro». Il Partenone di Atene, vertice dell’architettura greca, è un rettangolo i cui iati sono in perfetta «sezione aurea». Non a caso alla sua costruzione (e decorazione) sovrintese il maggior scultore greco, Fidia. Dalla iniziale del suo nome, molti matematici moderni hanno preso l’effe greco - - per indicare «la divina proporzione», cioè questo rapporto «aureo». Sembra certo che siano della scuola di Fidia (o, addirittura, azzarda qualcuno, di sua stessa mano) le due splendide statue di guerrieri ritrovate nel 1972 nel mare di Calabria, a Riace. Naturalmente, tanta bellezza è tutta basata sull’«effe greco».
Lo stesso valore si ritrova nei monumenti romani giuntici quasi intatti dall’antichità: il Pantheon, l’arco di Costantino, persino opere di utilità civile, come i grandi acquedotti.
Naturalmente bisogna guardarsi, e con divertita ironia, dai molti mitomani, visionari, maniaci, sempre insaziabili nel cercare proporzioni matematiche con significati esoterici ovunque, ma soprattutto nelle piramidi egizie.
È Umberto Eco, mi pare, che constata come di matti ce ne siano di infinite specie; ma – aggiunge - il matto «vero», quello irrecuperabile, lo si riconosce dal fatto che, poco dopo averti avvicinato, comincia a parlarti del mistero dei Templari e di quello delle piramidi.
Difficile dargli torto. Ed è da meditare anche quanto dice, lo stesso Eco, sul chiosco sotto casa dove vendono i biglietti della lotteria: se ne prendi tutte le misure e le moltiplichi o dividi o sottrai o addizioni per altre, puoi ottenere tutti i significati «simbolici» che desideri trovare. Ma, seppure con la doverosa prudenza del caso, non possiamo non constatare un fatto oggettivo e documentato in modo inoppugnabile: quelle montagne di pietra nel deserto, che avevano già migliaia di anni alla nascita di Gesù, sono tutte costruite sul «numero d’oro» e sulla serie di Fibonacci che gli è legata.
Del resto, già Pitagora aveva scoperto che l’armonia matematica è dentro le cose: il rapporto «aureo» e le successioni «alla Fibonacci» sono indispensabili perché una musica sia «bella», dunque armoniosa. Chi se ne discosta fa della cacofonia.
Per ogni cultura, almeno sino a tempi recenti, tutte le arti, esprimendo bellezza, godono di un «soffio divino»: ma forse la musica è, fra tutte, quella che più direttamente testimonia del mistero di Dio. Credo non sia un caso se certa musica contemporanea - proponendosi esplicitamente la disarmonia, la sgradevolezza: e ciò per la prima volta, bada, nella storia umana - sia sospettata di una sorta di «propaganda diabolica». Di certo - volontariamente o istintivamente che sia - è il frutto di una cultura senza Dio o in rivolta contro di Lui. E dunque, in rivolta contro l’armonia, la cui figlia è la bellezza. Profondo e accorato l’ammonimento del monaco Cassiodoro, nel VI secolo: «Se commetteremo ingiustizia (è il peccato che turba l’armonia del mondo) Dio ci toglierà la musica». Forse, è proprio a questo che stiamo arrivando.
In modi sotterranei, comunque, quella sapienza «alla Fidia» è sopravvissuta alla fine del mondo antico ed è trasmigrata nell’arte medievale e poi rinascimentale. Dalle cattedrali romaniche e gotiche, ai disegni di Leonardo, sino ai violini di Antonio Stradivari (il cui segreto è nelle proporzioni dei singoli pezzi, come si è scoperto solo di recente), 1’1,618 è onnipresente.
Per ottenere nelle loro opere la bellezza, gli artisti antichi non inventavano, copiavano: non facevano che rifarsi al mondo fisico, animale, vegetale, minerale. Avevano intuito, cioè, che quel rapporto stava dietro al Creato.
Certo, l’avevano intuito e, naturalmente, anche misurato, tanto da applicarlo nelle loro opere. Ma non potevano, ovviamente, avere la consapevolezza permessa a noi dal progresso della tecnologia, in particolare dall’informatica. Noi, oggi, non solo «intuiamo», ma siamo in grado di stabilire con esattezza che quel rapporto, che fa sì che una parte sia in proporzione armoniosa col tutto, lo si incontra nella fisica, nella zoologia, nella botanica, nella chimica, nella mineralogia... Non c’è scienza sperimentale in cui, chi lo cerchi, non sperimenti che la «sezione aurea» (e la «serie di Fibonacci» che vi è strettamente quanto enigmaticamente legata) sembra essere una delle basi su cui è costruito il cosmo.
Dove c’è armonia e rapporto, c’è un pensiero, un progetto. Ancora più difficile, dunque, ipotizzare il «Caso» - seppure con la Maiuscola - dietro una simile proporzione matematica. E ancor più facile, per il credente, vedere qui un’ennesima conferma delle parole della Scrittura. La quale nell’ultimo libro- in senso cronologico - dell’Antico Testamento, quasi prodromo della rivelazione cristiana, constata, lodando la «Sapienza di Dio» che «ama tutte le cose esistenti e nulla disprezza di quanto ha creato»: «Tu hai tutto disposto con misura, calcolo, peso» (Sap 11, 20).
In effetti: è proprio quella scienza che più «misura», più «calcola», più «pesa», che, ben lungi dall’espellere Dio dal mondo, ne svela, ad occhi che sappiano leggere e interpretare, la «Sapienza».
Restiamo al caso particolare - e suggestivo - del nostro 0,618 (o 1,618...), restiamo alla successione Fibonacci. Non so quanti sappiano che da questo enigma, che ha nutrito la riflessione di tanti spirituali e ha guidato tanti artisti, hanno tratto vantaggi persino le assai poco mistiche industrie moderne di abbigliamento già confezionato. Riscoprendo che, nel corpo umano ideale, l’altezza è divisa dalla vita (dall’ombelico, nel caso perfetto) in «proporzione divina», e che gli arti sono in «serie Fibonacci» (ma anche le altre parti del corpo, comprese quelle del viso), quegli industriali hanno potuto stabilire una serie di taglie che - con pochi aggiustamenti - coprano le esigenze di ogni uomo e ogni donna ...
Del resto, il corpo umano (ricordati il celebre disegno di Leonardo, ispirato a ciò che già gli antichi ben sapevano) con braccia e gambe divaricate è contenuto in un pentagono regolare; il cui centro coincide, tra l’altro, con i genitali, cioè con gli organi per mezzo dei quali l’uomo e la donna partecipano del dono divino di dare la vita. Congiungendo i vertici di questo pentagono, si ottiene il «pentagono stellato», la «stella a cinque punte», come la chiamano: sacra già per gli ebrei («pentacolo di Salomone») ma pure per le altre religioni antiche, comprese quelle asiatiche, simboleggia per la massoneria il «Grande Architetto dell’Universo». Ebbene, in questo «pentagono stellato» -come già scoprì la scuola di Pitagora - i punti di intersezione delle diagonali dividono le diagonali stesse in due segmenti che sono tra loro in perfetto rapporto aureo: 1 a 0,618.
È singolare che la natura abbia voluto dare delle specie di saggi viventi di quella figura geometrica: le «stelle di mare», in effetti, non sono che «pentagoni stellati». E così le foglie dell’edera, del pioppo e di altre specie vegetali. Dunque, quasi simboli evidenti, visibili, di quel «numero d’oro» che altrove - in zoologia come in botanica - è rivelato solo dal calcolo.
Per non farla più lunga di quanto sia lecito, ricordiamo solo, di corsa, che il misterioso «rapporto» si riscontra in mammiferi, in pesci, in uccelli, in insetti; che la conchiglia, ad esempio, è una mirabile spirale logaritmica tutta costruita sull’1,618 e sull’1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34... (e via all’infinito) di Fibonacci. È solo perché segue queste proporzioni che la conchiglia di molluschi come il nautilo può crescere mantenendo la stessa forma e assicurando dunque un rifugio sempre adeguato all’essere vivente che vi è dentro.
C’è chi si è spinto a dire (non so se esagerando: in fondo, per la nostra ricerca di «orme» non ci occorre tanto...) che «ovunque la natura crei forme che comportano espansioni o contrazioni, sembra tenere presente come termine di riferimento costante 1’1,618».
Davvero astuto e bravo questo «Caso»!
Già. E bravi anche il «caso e la necessità» che avrebbero fornito ai ragni l’«impulso istintuale» per costruire tele secondo le proporzioni costanti di cui ci occupiamo. Ricordiamo, comunque, che secondo il «numero aureo» crescono tronchi, rami, foglie delle piante. Le scaglie della pigna d’abete, per dire, sono poste a distanze crescenti, il cui rapporto è il consueto o. Per restare alla botanica, un comunissimo e ben poco pregiato fiore di girasole è un mistero geometrico del quale i computer ci stanno rivelando sempre nuove meraviglie. In effetti, le migliaia di semi gialli dentro la corolla sono disposti secondo una spirale logaritmica affine a quella delle conchiglie: dunque, governate dal nostro consueto «numero d’oro».
Ma, adesso, basta. Ancora una volta cerchiamo di non dimenticare che non siamo qui per un trattato, meno che mai sul numerus aureus, o divina proportio o effe greco che dir si voglia ... Ricordarci qualcosa al proposito ci serviva solo per individuare una delle tante possibili «firme» del Dio che ha scelto la penombra, una probabile «sigla» del Creatore che ama la discrezione e, insieme, la bellezza. E per confermare (ma ce n’è davvero bisogno?) che, se nessun ordine può nascere dal caos, meno che mai può nascere basandosi su un simile rapporto armonico, costante, misurabile.
Basta così, dunque. Semmai - per allargare il discorso a un fatto generale - la sola cosa che potremmo aggiungere è una foglia di rosa. Dove - ça va sans dire ... - lunghezza e larghezza si adeguano alla proporzione «d’oro».
Perché aggiungere, fra tanti possibili, proprio l’esempio della rosa? Per il valore simbolico che ha in tante religioni e non solo in quella cristiana? Assieme al loto, è il fiore sacro per eccellenza: vuoi forse dire che, qui, il «marchio» del Creatore doveva essere, in qualche modo, particolarmente evidente?
Non per questo; o, se vuoi, non solo per questo. Motivo principale è un altro: vedevo, tempo fa, uno studio compiuto appunto su alcune decine di migliaia di foglie di rosa di ogni varietà. Ne risultava che il rapporto tra larghezza e lunghezza solo in pochi casi corrispondeva perfettamente alla «magica» cifra. Il valore oscillava tra un minimo di 1,616 e un massimo di 1,621. La proporzione «aurea» era dunque confermata ma, il maggior numero delle volte, con uno scarto, seppure entro limiti ridotti. E così sembra essere ovunque, in natura: ad esempio, moltissime «cose» hanno un aspetto circolare, ma pare che nessun oggetto naturale sia un cerchio perfetto. La Terra è rotonda, e al contempo non lo è, essendo schiacciata ai Poli... Anche se le imperfezioni sfuggono al nostro sguardo, gli strumenti di misura le rivelano, pur se talvolta sono minime.
È una realtà che i secoli «cristiani» riconobbero, assieme al suo significato profondo. Pensa a quei meravigliosi «libri di pietra» che sono le cattedrali, del cui manto tutta l’Europa si ricoprì in meno di tre secoli. In esse, i costruttori progettarono un microcosmo che fosse specchio del macrocosmo; la chiesa-madre - la sede della «cattedra» del vescovo e il teatro di quel dramma quotidiano che è la rinnovazione del sacrificio di Cristo - vista come immagine totale dell’universo, come icona della creazione. Ebbene: proprio ad esempio del Creatore, architetti e maestri d’opera non solo, lo ricordavamo, misero sculture in luoghi non visibili da tutti, ma introdussero anche, intenzionalmente, qualche imperfezione nella perfezione tecnica, che pur sapevano benissimo raggiungere.
Prendi uno dei vertici della civiltà medievale, il duomo di Ferrara, la «chiesa pitagorica», com’è stata chiamata, proprio perché tutta costruita sul simbolismo dei rapporti matematici. Naturalmente il «numero d’oro», la «proporzione divina» vi è onnipresente, sin dall’ingresso, dal vano del portale maggiore, la cui altezza è di 12,47 «piedi ferraresi» (l’unità di misura locale) e la larghezza di 7,70. Tra le due misure, il rapporto non è di 1,618. E, invece, di 1,619: uno scarto minimo e chiaramente intenzionale.
Come nelle foglie della rosa.
Sì, come nel creato. Come sa ogni turista - per dare un altro esempio tra i molti, sempre restando a Ferrara - la facciata di quella cattedrale è divisa in tre parti eguali, simbolo della Trinità. Ogni parte dovrebbe avere la larghezza di 33,33 «piedi»: altro numero simbolico. «Dovrebbe», dico, perché l’architetto ha introdotto anche qui un leggero scarto: 33,23 «piedi». La casa di Dio è «organismo vivo» anche nella perfezione temperata - come in natura - dall’approssimazione controllata.
Credo che, partendo da constatazioni come questa, si possano azzardare alcune ipotesi ulteriori sul «progetto di lavoro» di un Creatore come quello in cui crediamo. Un Dio che è sì «ingegnere», che è sì «architetto». Ma che non è, non vuoi essere, soltanto questo. Sembra che la libertà che ha salvaguardato per le sue creature voglia riservarsela anche per se stesso. Proprio perché ha fatto le regole del gioco, vuol permettersi di derogarvi, seppure entro certi limiti.
Giusto perché è l’autore e il padrone di quelle regole, non vuole esserne prigioniero. Nel suo software, a differenza degli specialisti umani, si è concesso il lusso di introdurre qualche scostamento, se non imprecisione, pur mai incompatibile con il Progetto globale. E un «ingegnere» ma al contempo un «artista»: la «macchina» dell’universo è mirabile per precisione, ma anche per fantasia.
È come un immenso concerto (dopo la similitudine «elettronica», proviamo quella «musicale»), durante il quale il direttore dell’orchestra si permette qualche variazione, pur rispettando lo spartito prefissato. E tanto più quel direttore si può permettere delle variazioni, se la musica che esegue l’ha scritta egli stesso.
Forse, con un gioco di parole, un «Creatore» sì, ma «creativo».
Comunque, un Artista che rifugge dalla produzione in serie, standardizzata. Dunque, l’armonia delle foglie di rose – come di ogni altro aspetto della natura – è salvaguardata, così come è assicurata l’efficacia nel compito assegnato loro per la vita della pianta; ma ciascuna è diversa dall’altra. Niente, nel mondo, esce da una Macchina capace solo di fare dei «pezzi» standardizzati, uno eguale all’altro.
Il «numero aureo» è uno dei Suoi segreti? è uno dei Suoi «marchi di fabbrica»? Sono propenso a crederlo, pur non assolutizzandolo e pur non facendo dipendere la fede – è ovvio! – da argomenti come questo. Ma non mi stupisce, anzi mi conferma in ciò che già so, lo scoprire che quel «marchio» è posto su prodotti «artigianali», «fatti a mano», tutti simili e tutti al contempo differenti.
Non è, il nostro, un Dio di «massa», ma di creature – animate o inanimate che siano – pensate una ad una. Nel mondo non c’è neppure un sasso simile a un altro. E un botanico munito di strumenti – ma persino noi stessi, se guardassimo con attenzione – è in grado di distinguere da ogni altro un filo d’erba di un prato. Dicono gli entomologi che nei formicai o nei termitai giganti, con spesso milioni di esemplari, ciascuno è in grado di distinguere l’altro, di riconoscerlo a colpo sicuro tra quelle masse che a noi sembrano indistinte per definizione. Neanche quegli esseri, dunque, sono fatti in serie!
Con pochissimi «elementi di base» (due occhi, un naso, una bocca, due orecchi...) non uno solo dei forse trecento miliardi di volti umani della intera storia umana è simile a un altro: ciascuno è inconfondibile. Dunque, unico; pur essendo al contempo eguale a tutti.
Mi sembrano constatazioni che derivano logicamente dall’essenza divina: un Dio che è amore non poteva creare diversamente. Non si ama l’indistinto, l’anonimo, lo «standardizzato». Comunque, è questo «programma personalizzato», è questa fantasia, pur dentro leggi e costanti rigorose, che assicura al mondo la sua straordinaria varietà, la sua assenza di monotonia.
Sì, ma attenzione: può darsi che il costo di questo «positivo» sia quel «negativo» (così, almeno, appare a noi, nella nostra prospettiva limitata) costituito da scartamenti dalla norma che riguardano l’uomo stesso. Una statistica rattristante ci ricorda, ad esempio, che, ogni cento bambini, in media quattro o cinque nascono con malformazioni, più o meno gravi. E non c’è specie vivente che non abbia le sue deformità.
È questo il prezzo obbligato di un mondo regolato da leggi che non sono però prigioni, che sono suscettibili di variazioni all’interno di pur precise coordinate?
Sta in questa strategia di un mondo ordinato e sottoposto a costanti regolari che permettono, tra l’altro, la descrizione e la previsione scientifica, ma di un mondo al contempo «non fatto in serie», sta forse qui una delle possibili risposte anche a quell’enigma del male e del dolore che il Dio di Gesù non ha né spiegato né eliminato ma assunto – tutto intero – su di Sé?
Come la libertà morale data all’uomo permette il peccato, così la libertà «materiale» data al Creato lascia spazio pure all’imperfezione? Molto, almeno, del male del mondo – nell’anima, certo, ma pure nelle cose – altro non è che il risvolto oscuro della realtà luminosa di un progetto divino di libertà?
Sono, al solito, balbettii, questi nostri, nel rispetto di quel mistero di cui forse intuiamo i contorni, ma senza riuscire a penetrarvi finché siamo nel chiaroscuro della vita e «vediamo come in uno specchio».
Balbettii, d’accordo; ma sufficienti per scandalizzare molti, soprattutto nella attuale intellighenzia clericale, timorosa di ogni sospetto di «contaminazione» tra scienza e fede, tra riflessione religiosa e risultati della ricerca sperimentale.
Nessuna «contaminazione», sia chiaro. E non per timore di essere etichettati come «apologeti» (cosa che non ci offende, ma ci onora) quanto per prudenza: apologeti sì, ma «avveduti». I risultati della scienza sono sempre provvisori, potenzialmente instabili, soggetti a «falsificazione», per dirla con Karl Popper. Prenderli come base per la conferma di verità eterne può essere rischioso.
Pensa, ad esempio, alla teoria del «grande botto», quel big-bang dal quale 15 miliardi di anni fa avrebbe avuto origine l’universo intero. Non sembra una delle più suggestive conferme dell’inizio stesso della Bibbia? «In principio, Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso... Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu...». Affascinante, certo; ma se l’entusiasmo ci portasse a legare la nostra fede a questa ipotesi, come a ogni altra della scienza, metteremmo in pericolo la fede stessa: la smentita della teoria (sempre possibile, come mostra l’esperienza) avrebbe riflessi anche sulle ragioni del nostro credere.
Questo precisato, non vogliamo rinunciare alla libertà della riflessione sulla fede, anche partendo da dati oggettivi, messi a disposizione dalla ricerca, pur guardandoci dall’assolutizzarli. Il mondo è il sillabario di Dio: sta a noi cercare di leggerlo. Sempre, s’intende, nella consapevolezza che c’è spesso, in simili riflessioni, anche un margine di soggettività. Possono essere motivo di conferma per alcuni e non per altri. Tanto per ricitare Pascal: «Ci si convince meglio con le ragioni che ciascuno trova da sé, piuttosto che con quelle trovate da altri...».
La presenza della «sezione aurea» - nascosta, ma abbastanza percepibile da essere «scoperta» già dalle culture antiche - è per me uno degli indizi (uno fra i tanti, bada) che, uniti a moltissimi altri, possono costituire lo stock, il magazzino delle sragioni per credere».
In fondo, è pure questo un modo per sperimentare ciò cui abbiamo già accennato: si può credere non malgrado la scienza moderna, ma anche grazie ad essa. Con le «impronte digitali» che va scoprendo, pur senza proporselo (una scienza «apologeta» di qualunque causa che non fosse la sua, di ricerca oggettiva sulla realtà, non sarebbe più tale) offre spunti fascinosi alla nostra meditazione.
Proprio in questa linea – e a mio rischio e pericolo, s’intende – da tempo vado riflettendo, fra molte altre cose, sulle possibili connessioni tra quelle prime parole dell’Antico Testamento che ho appena citato («In principio, Dio creò il cielo e la terra»), e una delle ultime del Nuovo. E l’affermazione sconvolgente, e assolutamente inaudita nella storia delle religioni, della Prima lettera di Giovanni: «Dio è amore».
A questa «essenza» del Dio cristiano abbiamo già accennato – lo ricordi di certo – parlando di quell’altro unicum che è il «dogma trinitario». Ma m’interessa, ora, un’altra pista di ricerca: risibile per alcuni, certo; ma, spero, coerente per un cristiano che non prenda la Parola di Dio come un vaniloquio e veda dunque l’universo intero come un «sistema di segni».
Vi è, cioè, nel creato, inteso anche in senso «fisico», una qualche possibile traccia che sia opera di un Creatore la cui essenza è l’Amore, così come (lo abbiamo visto) c’è chi pensa vi siano «rimandi», per quanto enigmatici e doverosamente «ambigui», al Suo mistero trinitario?
Un bel rischio, non c’è che dire. Ma, d’altro canto, tutta la fede è rischio. E la ragione c’è stata data per esercitarla in ogni direzione, pur sempre nella consapevolezza dei suoi limiti.
Dobbiamo insistere - perché è vero - sul fatto che è il credente il vero «libero pensatore». Noi non escludiamo nulla, a differenza del non-credente, costretto a ignorare e a rimuovere tutto ciò che minaccia la piccola radura che ha disboscato.
Vediamo, allora. «Dio è amore»; ma è la stessa Scrittura che ci assicura che, di quel Dio, siamo fatti «a immagine e somiglianza». Sperimentiamo che amare significa «essere attratti», sentirsi indotti a «gravitare» su di un altro. Non è forse una separazione, seppur temporanea, il momento più doloroso per gli innamorati?
Ebbene: proprio la fisica moderna ci ha mostrato che tutto l’universo - dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo - è tenuto insieme da una forza misteriosa della quale la scienza sa da tempo misurare l’intensità (la famosa «legge di Newton») ma della quale non sa ancora spiegare l’origine e la natura. E la forza detta di «attrazione e di gravitazione universale», per la quale tutti i corpi fisici si attraggono tra loro.
Se non sbaglio, è il classico esperimento che tutti abbiamo visto, a scuola, nel laboratorio per la lezione di fisica: una palla di ferro sospesa al braccio di una bilancia a torsione, l’insegnante che avvicina un altro corpo in ferro, la palla della bilancia che tende a ruotare verso quest’ultimo... Assai semplice a descriversi, ma, in effetti, assai misterioso quanto all’origine.
Anche se non riusciamo a spiegare che cosa sia, questa onnipresente «forza di gravitazione», resta il fatto che l’universo si sfascerebbe - di colpo - se tutto non fosse attirato da tutto; se tutto non «gravitasse» attorno a qualcos’altro. Dagli elettroni che girano attorno al nucleo dell’atomo, dagli atomi che si attraggono tra loro riunendosi in molecole, sino ai pianeti che - avvinti dal Sole - vi ruotano attorno. Il Sole, poi, che ruota attorno al centro della galassia e le galassie che gravitano attorno a uno sconosciuto - ma pur sicuramente esistente - centro dell’universo.
Da qui, la domanda che spesso mi faccio, che affascina me, ma che non pretendo certamente di imporre ad altri: questa forza inesorabile di attrazione, per cui nulla esiste isolato, ma solo in rapporto a qualcos’altro, non sarà per caso l’equivalente - nella materia fisica - di quell’amore che l’uomo sperimenta, come forza altrettanto inesorabile di attrazione, di gravitazione? Essere innamorati, amare, non è forse «un girare attorno all’altro»? Ed entrambe queste forze, fisica e morale, che tengono insieme tanto l’universo quanto la società (anche questa si sfascerebbe se davvero sparisse ogni «attrazione» o almeno «gravitazione» tra esseri umani), entrambe queste forze - dico - non saranno forse la traccia, discreta come nel Suo stile, del Creatore la cui essenza c’è stata rivelata come Amore?
Sarà bene affrettarsi a chiudere, prima che i «teologicamente corretti», quelli per i quali la teologia è una «disciplina accademica» come ogni altra, ci portino via con la camicia di forza. Azzardarsi, sia pure come riflessione personale, a risalire dalla fisica alla metafisica ...
Hai ragione. Ma lasciami finire (aggravo, da incosciente forse un po’ masochista, la mia posizione già compromessa) esprimendo la mia riconoscenza a un linguista americano, Joseph Harold Greenberg, della Stanford University, il celebre istituto di Palo Alto, California. Non ho mai visto quel professore e prevedibilmente non lo vedrò mai. Di lui (di cui so, naturalmente, che è tra i maggiori storici mondiali del linguaggio) ho letto solo il libro certamente più famoso. E un’opera recente, della fine degli anni Ottanta.
Ma sì, sono grato a questo esimio e benemerito professor Greenberg.
Stai cercando di montare una specie di suspense. Vedrò di non deluderti: perché tanta gratitudine per questo specialista californiano?
Ecco qua, allora. Tra le ipotesi che, sino a qualche decennio fa, provocavano sorrisi di compatimento (e poi, se insistevi, reazioni brusche) fra gli «specialisti», v’era quella di un solo linguaggio, all’origine dell’umanità. Questo avrebbe postulato logicamente un’altra ipotesi, quella di una sola origine della vita sulla Terra. Se qualcuno avesse sostenuto anche solo una possibilità del genere, sarebbe stato emarginato tra beffe e lazzi, come ridicolo credente in decrepite superstizioni religiose; come un buffo (forse anche pericoloso) «fondamentalista biblico». Uno che, dietro i racconti del primo libro della Scrittura, il Genesi, si ostinava incredibilmente a sospettare qualcosa come l’eco di una verità giuntaci attraverso una Rivelazione.
A scanso di equivoci, ci conviene ribadire quanto già abbiamo detto e che dovrebbe essere ovvio: a differenza di certi protestanti, per noi la Bibbia non è il Corano, che non sopporta interpretazioni, pena una condanna a morte ... I libri biblici hanno un intento pedagogico, teologico, sapienziale, non sono un trattato scientifico. Vogliono innanzitutto rivelarci il significato dell’esistenza umana, la sua origine da un solo Creatore, dunque la sua vocazione divina. Conosciamo la dottrina dei «generi letterari», non andiamo di certo alla ricerca affannata di «concordanze» tra la Bibbia e la scienza. Che pensare, altrimenti, di casi come la lista del libro del Levitico sugli animali puri e impuri, che tra questi ultimi mette la lepre, dandola come un «ruminante» mentre è un roditore? Quella lista ha un significato ben diverso da quello di un corso di zoologia: la famosa «inerranza biblica» tutela il messaggio, non il rivestimento umano. Anche parlando di ipotesi evoluzionistiche, lo ricordi, abbiamo più volte precisato che - qualora ne fosse provata la verità - non per questo andremmo in crisi o reagiremmo, purché non si volesse escludere la presenza, dietro le quinte, del «Grande Programmatore».
Con tutto questo, proprio la fede ci fa persone libere che non rifiutano né accettano acriticamente nulla. Dunque, senti che succede: l’altro giorno mi arriva questo libro di Luigi Luca Cavalli-Sforza, che non è esattamente un visionario o un mitomane, ma è un docente di genetica lui pure - come Greenberg - alla Stanford University, dopo una carriera passata attraverso atenei di certo non irrilevanti, come Cambridge e Pavia. Da anni, è responsabile dello Human Genoma Project, un programma internazionale che si propone di catalogare il DNA di tutte le etnìe di tutti i Continenti. Apro il libro di questo famoso - e laicissimo - scienziato, e vi leggo queste righe, basate proprio su quella ricerca mondiale di «geografia genetica»: «Molti biologi oggi pensano che vi sia stata una sola origine della vita sulla Terra, perché esiste un unico tipo di amminoacidi sintetizzati dalle cellule viventi, mentre ve ne potrebbero essere due, di struttura chimica opposta».
Non chiedermi che ti spieghi: ovviamente, non ne sarei capace. Ci basti sapere (parola di genetista giudicato fra i più illustri e aggiornati dai suoi colleghi stessi), che non escludere la possibilità di «una sola origine della vita sulla Terra» non solo non è più motivo sufficiente per essere sbattuti fuori, e con infamia, dalla comunità scientifica «seria»; ma che, anzi, può costituire un marchio di modernità, d’avanguardia.
A ennesima conferma, tra l’altro, di quanto l’esperienza consiglia: gli «esperti» e le loro «certezze» e «dogmi», prenderli, se si vuole, sul serio, mai sul tragico. Aspettare e pazientare: prima o poi il vento cambia; e, di solito, si scopre che vero «moderno» era colui che non si era staccato dal buon senso. Il quale, assai spesso, coincide con la tradizione. Anche religiosa, perché no? Abbiamo ben ricordato come non siano lontani i tempi in cui l’ateismo era il «futuro» e la fede il «passato irrimediabilmente superato» ...
Qualcosa del genere non sta succedendo con l’esegesi biblica? Dopo aver triturato i vangeli con i loro metodi «storico-critici» (dagli intimidatori nomi tedeschi), dopo averli ridotti a un puzzle sospetto di frammenti radunati da ogni parte, dopo aver deriso l’ingenuità di chi cercasse il «Gesù della storia» dietro il «Cristo della fede»; dopo tutto questo, i biblisti, da qualche tempo, non si sono fatti più prudenti? Non c’è, addirittura chi si azzarda a dire - per ora, solo a mezza voce - che, dopo due secoli di indagine «scientifica», si scopre che il modo più attendibile e «avanzato» di leggere i vangeli è quello più semplice, quello del credente che (a differenza degli «esperti») ha sempre ritenuto essenziale per la fede che ciò che è scritto in quei quattro libriccini corrisponda a ciò che è avvenuto?
«Quando una teoria è in contrasto col buonsenso, non affrettarti a dare torto al tuo buonsenso», dice uno dei sani principi della «metodologia contadina». Potremmo aggiungerne un altro, di principio: «Se vuoi restare presto vedovo, sposa una moda». Ma di questo parleremo a suo tempo, quando (a Dio piacendo) affronteremo il discorso su «Gesù», mostrando come pure lì il metodo più fruttuoso sia quello dell’et-et.
Adesso, veniamo all’ipotesi del solo linguaggio, che presuppone un solo gruppo umano all’origine di tutto.
È qui che entra in scena J.H. Greenberg, il linguista californiano. Il quale - e di recente, come ti dicevo - è riuscito a individuare quell’araba fenice (fino a poco fa ricercata soltanto da pochi ostinati, emarginati come «patetici dilettanti») che è almeno una radice etimologica comune a tutte le famiglie linguistiche del mondo. Quella radice pare sia TIK: da questo breve suono, che indichiamo con tre soli caratteri latini, attraverso processi e modificazioni che solo un linguista consumato può ricostruire e capire (e non è, ovviamente, né il mio né, credo, il tuo caso) sarebbe derivata una parola che sembra rivelare il legame tra tutti gli uomini, riconducendoli a un’origine comune.
Anzi, da qualche tempo Greenberg non è più solo. C’è per esempio un altro illustre linguista americano, Merrit Ruhlen, che in The Mother Tongue dimostra anch’egli come gli oltre cinquemila linguaggi parlati oggi sulla Terra derivino tutti dalla «lingua madre» indicata dal titolo. Ti leggo la conclusione: «La monogenesi delle lingue esistenti è ormai così evidente, che il problema del futuro non sarà stabilire che tutte le lingue del mondo sono imparentate, ma capire perché c’è voluto tanto tempo per accorgersene». Esagera, questo pur autorevole professor Ruhlen? Anche qui, in suo soccorso accorre un genetista illustre almeno quanto Cavalli-Sforza, André Langaney, direttore del Musée de l’Homme di Parigi, una delle maggiori istituzioni antropologiche. Nella convinta prefazione al libro di Ruhlen, lo specialista francese scrive: «Oggi non c’è più alcun dubbio sull’origine comune dei cinque miliardi di umani attuali da una popolazione unica della preistoria. Dunque, una "lingua madre" appare come una realtà assai coerente con questa certezza».
Naturalmente, è giusto che reagiscano aspramente quei professori che non possono rinnegare le loro poderose e ponderose bibliografie. E umano, è normale; ma, quali che siano le consuete resistenze accademiche, pare proprio che la via del futuro sia quella tracciata da questi nuovi studiosi che, sino a qualche tempo fa, sarebbero stati internati fra gli alienati.
Comunque, i linguisti che, sempre più numerosi, danno ragione al «patriarca» Greenberg dicono di avere individuato una trentina di «radici mondiali», ma ammettono che quel Tue ha una sorta di primato, è il beniamino fra i reperti venutici addirittura da una prima coppia (pare africana, a scorno dell’orgoglio di noi europei ...).
Adesso non esagerare con i tentativi di suspense: fuori il significato di quella parola modulata in tutte le lingue, partendo da quest’unica radice primitiva.
TIK può indicare sia un dito, sia il numero uno: doppio significato che non stupisce, visto che l’uno è indicabile con un dito alzato. Anzi, la cifra con cui lo scriviamo - 1 - pare abbia all’origine proprio la stilizzazione del dito. Questo è, in latino, dig-itus. «Mostrare puntando il dito» suona, nella stessa lingua, in-dic-are; in greco, deìk-nymi. Dietro quei «dig», «dic», «deìk» (per stare solo alle due lingue dell’antichità classica), ci sarebbe questa «madre di tutte le parole» individuata nella radice TIK.
Per andare - come al solito, per noi, temerari irresponsabili - dal dato fornito dalla ricerca scientifica alla riflessione religiosa, ammetterai che, pure qui, c’è uno spunto che affascina. Il Dio Uno, l’Unico per eccellenza avrebbe forse lasciato tra tutti gli uomini, come eredità comune (mascherata, alterata, ma non impenetrabile alla ricerca, secondo il consueto gioco al nascondino) la parola per indicarlo: UNO?
E, quanto al «dito», chi ha un poco di familiarità con la Scrittura non può non pensare a un testo che non è solo tra i più belli, ma anche tra i più significativi per chi, come noi, ha cercato di farfugliare almeno qualcosa attorno al mistero del Dio creatore. E il salmo 8, naturalmente.
Varrà la pena di rileggerselo:
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cos’è l’uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, dì gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi
…
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.
E con questo, basta: per ora. Adnuente Deo, s’intende (mica dimentichiamo Giacomo 4, 13 ss.!...), avremo modo di percorrere quelle due altre «tappe» che sappiamo.
Certo, questa nostra suddivisione è arbitraria: come abbiamo visto di continuo, non si può parlare del Dio Padre se non parlando del Figlio; e anche di quello Spirito che sorregge e ispira quella «marcia del Cristo nella storia» che, per noi, è la Chiesa. Volevamo prendere a guida il Credo. E questo comincia con un «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente ...». Padre: dunque è il «nostro» Dio; e quello soltanto: abbiamo cercato di ricordarlo. Dunque, sappiamo bene che la fede è un blocco dove «tutto si tiene».
Ma tant’è. Sono i nostri limiti che ci consigliano una sosta. Arrivederci, dunque, a qualche altro incontro.
Postato il 10 febbraio 2012
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