05 febbraio 2012

L’amore impossibile del Canzoniere

Approfondimento tratto dal manuale per il liceo La scrittura e l’immaginazione
di Romano Luperini
Il Canzoniere si apre con una visione retrospettiva, a conversione avvenuta, dell’intera vicenda d’amore, posta sotto il duplice segno del peccato, il «mio primo giovenile errore», e del tormento interiore.
L’amore per Laura è un amore impossibile. Laura è sposata e virtuosa e rifiuta il corteggiamento di Francesco. Questi sono i motivi espliciti, ma su questo ostacolo oggettivo si proietta l’ombra di un’impossibilità interna ai poeta stesso, più complessa e insondabile. Conflitto tra desiderio e morale, tra passione e ragione, tra tensione verso I’autorealizzazione e impotenza a raggiungerla. Non a caso già i contemporanei di Petrarca misero in discussione l’esistenza storica di Laura, oppure si inventò la leggenda per cui, prospettatasi a Petrarca la possibilità di sposare Laura, egli non avrebbe acconsentito perché «el fructo che prendea de amore a scrivere dappoi che la cosa amata conseguito avesse tutto se perderìa» (cfr. L. Baldacci, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1957).
L’esperienza d’amore è subito caratterizzata come esperienza infelice, oscillazione dolorosa dei «sospiri», delle «vane speranze e ‘l van dolore».
Non è questa una condizione nuova. Si ricordi la visione drammatica di Cavalcanti. Nuovo è l’accento di forte personalizzazione che viene data all’interiorità dell’io. Cavalcanti tende alla spersonalizzazione, all’oggettivazione teatrale del conflitto della propria anima in entità allegoriche e astratte e quindi a un messaggio universalmente valido. La donna, in Petrarca, è ancora occasione per parlare d’altro, mezzo di conoscenza di sé e del mondo. Il mito di Laura permette ora l’esplorazione di un tormento esistenziale individualizzato che va aldilà delle pene d’amore, ma dell’amore inventa e assume il linguaggio.
Anche Petrarca si rifà ai modi tipici della tradizione cortese e stilnovistica nella rappresentazione della donna, nella descrizione degli effetti della sua presenza, vissuta come esperienza esaltante: «I’ benedico il loco e ‘l tempo et l’ora / che sì alto miraron gli occhi miei» (cfr. anche «Quando fra l’altre donne adora adora»), «Non era l’andar suo cosa mortale, / ma d’angelica forma» (cfr. anche «Erano i capei d’ora a l’aura sparsi»). Ma Laura non perde mai il carattere di donna terrena, il cui fascino fisico turba i sensi e suscita il desiderio del poeta. L’immagine della donna-angelo torna a essere, come era nella poesia trobadorica, semplice metafora della bellezza della donna, priva di ogni riferimento religioso.
La condizione prevalente del Canzoniere non è l’incontro, l’apparizione, ma la lontananza, l’assenza di Laura. L’inaccessibilità della donna non è tuttavia simbolo del carattere trascendente dell’amore. Essa è invece fonte di angoscia, sensazione dì vuoto che minaccia l’integrità del soggetto: «Come possan queste membra / dallo spirito lor viver lontane?» (cfr. XV, «Io mi rivolgo indietro a ciascun passo»). Altrove è la scorza, il corpo separato dallo spirito, che «coverto d’amorose piume / torna volando al suo dolce soggiorno» (cfr. CLXXX, «Po, ben puoi tu portartene la scorza»). A sottrarre Laura al poeta non è solo la virtù, ma sono anche i «micidiali specchi» che, con intuizione del tutto moderna, alludono ai narcisismo di Laura, chiusa e negata allo scambio d’amore perché interamente appagata dalla propria bellezza (cfr. «L’oro et le perle e i fior’ vermigli e i bianchi»). La bellezza non ha più solo un significato univoco e positivo: la donna è portatrice di una realtà complessa, ambigua e inquietante.
La mancanza di Laura e l’impossibilità da parte del poeta ad entrare in relazione con la donna amata caratterizzano la condizione centrale del Canzoniere. Di qui la spinta a trasformare l’amata in un fantasma interiore che assume un valore simbolico e può essere piegato a molteplici significati. Laura è donna-angelo, è desiderio di corrispondenza amorosa, è amore per la gloria e la poesia - al mito di Dafne e alla metamorfosi in lauro si accenna spesso - , è nostalgia per la patria (l’aura), per il locus amoenus e la felicità paradisiaca, è desiderio di natura (cfr. gli esordi primaverili). Laura è soprattutto occasione all’espressione di un malessere interiore che assume l’aspetto della romantica malattia d’amore.
Lo scontro tra desiderio e sua irrealizzabilità crea un ingorgo emotivo, che apre la via all’esperienza della solitudine, dell’incomunicabilità e della malinconia. Alla base c’è un «inexpletum quiddam», un desiderio che non riesce a trovare un oggetto di appagamento, che getta l’anima nell’inquietudine e nell’inerzia. Petrarca analizza questo stato, con straordinaria lucidità, in un celebre passo del Secretum: «delle altre passioni soffro tanto frequenti quanto brevi e momentanei gli assalti; questo male invece mi prende talvolta così tenacemente, da tormentarmi nelle sue strette giorno e notte; e allora le mia giornata non ha più per me luce né vita, ma è come notte d’inferno e acerbissime morte. E tanto di lagrime e di dolori mi pasco con non so quale atra voluttà, che a malincuore (e questo si può ben dire il supremo colmo delle miserie!) me ne stacco». Questa condizione esistenziale era nota al Medioevo ed era chiamata accidia, di cui veniva data una spiegazione religiosa nello scarso amore verso Dio. Ma l’autoanalisi di Petrarca sfugge allo schema medievale dall’accidia e presenta, soprattutto nel Canzoniere, suggestioni nuove, riconducibili, come è stato fatto, alla spiegazione freudiana della moderna malinconia. Freud lega la "malinconia" al "lutto", alla perdita dell’oggetto amato, per cui l’«ombra dell’oggetto perduto ricade sull’io» (cfr. Stefano Agosti, Gli occhi e le chiome, Feltrinelli, Milano 1993). Ne può essere un esempio la canzone «Di pensier in pensier, di monte in monte», dove l’assenza dell’amata, dell’oggetto del desiderio, non trova sostituzione e compenso in nessun altro oggetto: «I’ l’ho più volte (or chi fia che mi ‘I creda?) / ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde / veduto viva, et nel tronchon d’un faggio /e ‘n bianca nube, sì fatta che Leda / avria ben detto che sua figlia perde, / come stella che ‘1 sol copre col raggio; […] Poi quando il vero sgombra / quel dolce errori pur lì medesmo assido / me freddo, pietra morta in pietra viva, […]».
L’amore dunque non è più solo salvezza, ma è anche minaccia e sofferenza che forse nemmeno la morte può sciogliere (cfr. L, «Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina»). Esso induce a un’esperienza profondamente contraddittoria dell’io, a un tormentato rapporto con se stessi. Queste sofferta coesistenza di contrari, senza possibilità di soluzione, trova un’espressione esemplare, anche sul piano formale, nel sonetto CXXXIV, «Pace non trovo, et non ò da far guerra».
Il dolore derivante dall’impotenza a stabilire nella realtà un rapporto con la donna amata cerca un risarcimento nella memoria. Attraverso il ricordo, da una parte la visione di Laura diventa più realistica, perché segnata dal trascorrere del tempo e dalle tappe di una concreta vicenda biografica, dall’altra si accentua il processo di interiorizzazione degli effetti di amore. La novità di testi come «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi» e «Chiare, fresche et dolci acque» sta nell’introduzione di una prospettiva spaziale e temporale. Si dissolve l’immagine statica e fuori del tempo della donna-angelo. Laura è rievocata nel tempo, avvertito come invecchiamento biologico che incide sulla sua bellezza, mentre il rilievo tutto soggettivo dato alla passione del poeta si riflette sulla persona stessa della donna: «e ‘l viso di pietosi color farsi, / non so se vero o falso, mi parea». La donna è immersa anche nella natura, che rende più mossa e vitale l’immagine femminile. I «capei d’oro a ‘aura sparsi / che ‘n mille dolci nodi gli avolgea» anticipano l’apoteosi di Laura nel paesaggio fiorito di «Chiare, fresche et dolci acque», nonché le figurazioni quattrocentesche delle donne di Botticelli. La corrispondenza tra la natura, il corpo e la bellezza di Laura e lo stato d’animo del poeta è resa possibile dalla prospettiva unificante del ricordo «dolce nella memoria». Resta tuttavia vigile, ineludibile, il contrasto con la realtà, la percezione del presente come dolorosa assenza: «S’egli è pur mio destino, / e ‘l cielo in ciò s’adopra, / ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda [...]».
Con la morte di Laura l’amore non si estingue, ma subisce una trasfigurazione: imprevedibilmente si accentua la presenza della donna. Sottratta alla verifica della realtà, l’immagine della donna si trasforma in un fantasma mentale, che più docilmente rispecchia i desideri del poeta. Diventa allora centrale l’esperienza del sogno, luogo di recupero di un’armonia con la donna prima negata. L’incontro, il contatto con Laura, impossibili in terra, si compiono in cielo dopo la morte. Solo dopo che è scomparso fisicamente l’oggetto d’amore, il desiderio può avvicinarsi al suo appagamento. Laura è sempre presente nella mente del poeta e risponde pietosa al suo richiamo: «lei [...] veggio, et odo, et intendo ch’anchor viva / di sì lontano a’ sospiri miei risponde» (cfr. «Se lamentar augelli, o verdi fronde»). Essa lo conforta: «Per man mi prese, et disse: - In questa spera / sarai anchor meco, se ‘l desir non erra»; «te solo aspetto, et quel che tanto amasti / e là giuso è rimase, ii mio bel velo» (cfr. CCCII, «Levommi il mio penser in parte ov’era»); lo accarezza partecipe e materna: «I’ piango; et ella il volto / co le sue man’ m’asciuga, et poi sospira / dolcemente, et s’adira / con parole che i sassi romper ponno: / et dopo questo si parte ella, e’l sonno» (cfr. «Quando il soave mio fido conforto»).
Laura perde ora la complessità di una passione vissuta in modo conflittuale, come perenne «dolce amaro», come perdizione di sé, e acquista un significato decisamente positivo. L’esperienza della morte e della caducità dei beni terreni fa capire al poeta come proprio la castità di Laura, il rifiuto opposto alla sua passione terrena, gli abbiano lasciata aperta la via della salvezza. L’intera vicenda è dunque rivisitata in questa luce e recuperata nella prospettiva, non priva di nodi drammatici (cfr. la canzone prima citata), del pentimento e della conversione a Dio. Solo la sacralizzazione della vicenda d’amore permette una riconciliazione con la donna in chiave religiosa. Il rinnegamento della passione e della tematica amorosa nel Canzoniere non approda, come in Boccaccio, al rifiuto misogino della donna. La canzone alla Vergine, se è un’invocazione al perdono che sancisce un giudizio negativo sul proprio passato, è insieme la proposta di un modello di femminilità diversa, materna, amichevole e protettiva, preparata dal lungo processo di trasfigurazione subìto dall’immagine di Laura dopo la sua morte.
Solo dopo la scomparsa di Laura, e sul piano mistico-religioso, è possibile l’abbandono amoroso tra le braccia della madre, la donna che non si può avere sulla terra. Può essere anche questa un’immagine di Laura. Così un poeta moderno, Umberto Saba, spiega la donna inafferrabile, imprendibile, sempre presente e sempre assente, che caratterizza la labirintica ricerca di un esito irraggiungibile che è al centro del Canzoniere.
Postato il 5 febbraio 2012

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