29 febbraio 2012

Homo, humanus, humanitas (Di Sacco - Serìo)

Brano tratto dal volume Il mondo latino, vol. 1, Bruno Mondadori 2000, pp. 151-152.
di Di Sacco - Serìo
La parola humanitas fu coniata solo nel I secolo a.C. e venne usata in particolare da Cicerone e da Cesare. Già nell'età arcaica, però, i romani conoscevano un concetto di homo e di humanus più ricco dei corrispondenti termini greci. Infatti nell'ànthropos, l«uomo», i greci ravvisavano una condizione effimera e infelice, a paragone di quella degli dèi beati e immortali.
Cicerone tenderà a identificare l'humanitas con la cultura e l'eloquenza, che rendono l'uomo humanus e politus in antitesi agli esseri indocti et agrestes. Nel I secolo a.C. Plinio il Vecchio sosterrà (Naturalis Historia III, 5, 39) che Roma ha dato l'humanitas all'uomo (humanitatem homini dare). Più approfonditamente, nel II secolo d.C., Aulo Gellio (13, 17) evidenzierà come humanitas sia una parola dal doppio significato: il primo, "benevolenza", corrisponde alla philanthropìa dei greci (solidarietà tra gli uomini, compassione nel dolore); il secondo, proprio del lessico elevato, indica l«educazione letteraria», significa «raffinatezza» e «cultura», quanto cioè di meglio distingue l'uomo dagli altri esseri viventi. Lo stesso Gellio sottolineerà che in questa seconda accezione humanitas si avvicina al concetto greco di paidéia ("educazione").
In ogni caso, per la mentalità romana l'essere uomo acquista un valore in quanto inserito in una comunità civile, la civitas: al di fuori di essa non c'è sostanzialmente posto per l'homo, inteso come essere razionale distinto dalle bestie, né per l'humanitas, vista come condizione antitetica alla feritas.
Sarà il cristianesimo a conferire a tale concetto quel superiore significato spirituale, di cultura, civiltà, moralità, che oggi noi gli riconosciamo. Ma sarebbe ingiusto tacere che la cultura greca, e segnatamente la filosofia ellenistica, aveva in parte già sprigionato l'attenzione per l'ambito individuale dell'uomo singolo: ne abbiamo parlato a proposito di Panezio. Su questa scia le voci più profetiche di Roma sviluppano un interesse autentico per le esigenze dell'individuo, per l'homo in sé, al di là del civis da Terenzio a Cicerone, da Virgilio a Seneca vibra a tratti una voce più profonda e matura, in cui 'il riconoscere e il rispettare l'uomo in ogni uomo» (è la pregnante definizione di humanitas data da Alfonso Traina) costituisce il tramite più immediato tra gli antichi e noi.
Riassumendo: il concetto di humanitas era il frutto di una mediazione culturale, perché sincretisticamente rielaborato dai romani a partire dalla filosofia e dalla letteratura greca; ma grazie all'incontro tra romanità e cristianesimo esso ha potuto esercitare per quasi due millenni un peso decisivo sulla storia dell'educazione e sulla cultura dell'Europa occidentale.

Il "circolo" scipionico e l'humanitas
Giusto questo concetto di humanitas rappresenta il frutto migliore dell'elaborazione del "circolo degli Scipioni". Naturalmente non era facile impiantare i valori dell'humanitas (amabilità, cortesia, urbanità, raffinatezza e, in senso più lato, cultura letteraria ed educazione al bello) sui preesistenti valori di gravitas, dignitas, constantia, auctoritas, elaborati dalla mentalità tradizionale romana. Acutamente Cicerone nel De re publica osserverà quanto fosse difficile realizzare questo connubio tra humanitas e mos maiorum, rilevando tuttavia come tale sintesi fu precisamente l'ideale realizzato dagli uomini del grex scipionico.
Bisogna peraltro domandarsi, come fa Bruno Snell, «se già nella cerchia di Scipione la parola humanitas fosse adoperata in questo senso che è divenuto così importante per i tempi futuri, ma a questa domanda non possiamo trovare risposta. Ci accostiamo forse maggiormente alla verità ritenendo che per i Romani fossero humani i Greci della specie dei personaggi di Menandro e Terenzio [...] e che essi indicassero appunto come humanitas il loro particolare modo di essere: questo concetto si connetteva poi naturalmente con la coscienza aristocratica romana e con l'idea che ci si faceva della cultura greca».
Va infine precisato che gli stessi filelleni romani non riuscivano a superare del tutto, sul piano dei comportamenti politici, la loro atavica presunzione di superiorità verso i greci; se le fonti ci attestano atteggiamenti ispirati a raffinata umanità (per esempio, Lucio Emilio Paolo versò lacrime, dopo la vittoria di Pidna, sulle sorti degli uomini, mentre Scipione l'Emiliano pianse sulle rovine della distrutta Cartagine, recitando Omero), tuttavia essi si resero anche responsabili di atti crudeli e spietati che male si conciliano con l'humanitas nel senso moderno della parola.

La paidéia greca
Per i greci la paidéia non è solo l'educazione ricevuta durante l'infanzia o l'istruzione scolastica; il concetto si allarga a una formazione complessiva della personalità, tale da coinvolgere l'intero arco dell'esistenza, al fine di realizzare una vita «degna di essere vissuta», come scrive Platone nel Simposio (211d). La paidéia greca concerne l'individuo singolo, ma anche la collettività; è pervasa di agonismo, implicando una lotta contro le proprie tendenze malvage, contro i cattivi influssi del destino e della propria epoca.
A partire dall'VIII secolo a.C. il tema educativo è trattato dai poeti epici, lirici e tragici; poi esso diviene centrale nella riflessione dei filosofi. I sofisti proclamano l'insegnabilità della virtù (areté) a chiunque: l'educazione è fornita di un metodo e si volge alla formazione essenzialmente intellettuale della persona. I limiti della paidéia sofistica sono segnalati da Socrate e Platone: occorre chiarire che cosa sia la virtù e, quindi, i fini ultimi dell'educazione.
Nel suo progetto di paidéia, mirato all'educazione di guerrieri e governanti (le masse lavoratrici ne sono escluse, potendo essere al più oggetto di una formazione professionale), Platone aggiunge dunque alla conoscenza l'educazione morale (da attuarsi mediante musica, ginnastica, addestramento militare, dialettica): attraverso la "terapia dell'anima" l'educatore si sforza di creare e mantenere l'equilibrio tra le diverse forze dell'anima. Il vero fine della paidéia diviene così la costruzione dell'uomo libero, libero dalle passioni e padrone di sé, in grado di occuparsi del bene proprio e della città. In questo senso, all'antica virtù aristocratica Platone sostituisce un'aristocrazia della virtù, raffinata appunto dall'educazione. Anche la passione e il desiderio, l'eros, risultano utili nel processo formativo. Platone pensa sia all'amore per la conoscenza, sia al rapporto tra maestro e discepolo, tra adulto e ragazzo, che il Simposio idealizza nella relazione tra Socrate e Alcibiade: Socrate è il vero maestro non perché è colui che sa, ma in quanto capace di una costante autoeducazione all'eros; su queste basi propone sé come modello agli allievi.
Rispetto a Platone, Aristotele tende a distinguere tra educazione intellettuale (via alla scienza, cioè alle diverse discipline, e all'intelligenza dei princìpi) ed educazione delle virtù etiche; paradigma dell'educazione non è dunque più il filosofo, bensì l'uomo saggio (phrònimos). Grammatica, ginnastica, musica e disegno sono, per Aristotele, le basi su cui il cittadino libero (e maschio) può occupare degnamente il proprio tempo libero (skholé), anche – ma non più esclusivamente, come in Platone – in rapporto alla vita della polis.
Postato il 29 febbraio 2012

Le scuole filosofiche dell'ellenismo (Di Sacco - Serìo)

Brano tratto dal volume Il mondo latino, vol. 1, Bruno Mondadori 2000, pp. 146-147
di Di Sacco - Serìo
Tendenze generali
La filosofia ellenistica presenta importanti elementi di novità rispetto a quella dell'età classica, cioè quella di Platone e di Aristotele. Il principale elemento è costituito dalla presenza delle scuole, che rappresentano il vertice dell'educazione intellettuale. Ciascuna scuola è retta da uno scolarca, che designa il proprio successore; oltre alla lettura e al commento dei testi dei fondatori, ha grande importanza il colloquio quotidiano con il maestro, che si atteggia a modello di vita e guida "spirituale". La scuola filosofica è anche un luogo di amicizia e d'identità culturale, con tendenza a isolarsi rispetto alla vita sociale, a differenziarsi dalla massa degli incolti. Smarrito l'orizzonte della polis, il saggio dell'ellenismo è essenzialmente colui che riesce a mantenersi immune dai rivolgimenti sociali e politici; il suo è un orizzonte cosmopolita, che si propone alla comunità universale degli uomini.
Tipica della filosofia ellenistica è poi la coltivazione delle dispute e polemiche intellettuali tra una scuola e l'altra, come pure la loro reciproca contaminazione; spesso la disputa approda a un progressivo "aggiustamento" e avvicinamento delle posizioni, secondo uno stile eclettico a cui si mantiene estranea solo la scuola epicurea.

La problematica morale: filosofia come "arte del vivere"
Benché diverse scuole continuino le ricerche di ordine logico, gnoseologico e fisico già tipiche della filosofia dell'età classica, tuttavia il loro interesse dominante va alle problematiche etiche. Se in precedenza lo scopo del sapere appariva la ricerca e la conquista della verità (la vita contemplativa, il biòs theoretikós, realizza quanto di più elevato vi è nella natura umana), ora prevale un ideale pratico: la filosofia appare un mezzo, non più un fine; il suo compito è quello di suggerire contenuti e condizioni per una vita più felice, specie sul piano individuale. Filosofia dunque come "arte del vivere", se non come "terapia" per medicare, o limitare, dolori e infelicità.

Quattro scuole principali
In Atene, la città che mantiene il primato assoluto della ricerca filosofica, operano quattro scuole principali: l'accademica (o platonica), la peripatetica (o aristotelica), la stoica e l'epicurea. Esaminiamole singolarmente.

L'Accademia platonica
L'Accademia era stata fondata (388 a.C.) e diretta da Platone, nella persuasione che l'insegnamento potesse creare la nuova classe dirigente di cui egli avvertiva urgente bisogno. Nel suo ampio progetto di cultura avevano largo posto le scienze, mentre alla filosofia, intesa come ricerca disinteressata del sapere, era riservato un ruolo di coronamento.
In età ellenistica l'Accademia platonica mostra un progressivo distacco dalle dottrine di Platone. Dal III secolo a.C. prevale un indirizzo scetticheggiante: secondo la filosofia scettica (da sképsis, "ricerca", "dubbio") di Pirrone di Elide (365-275 ca a.C.), la ricerca filosofica non può condurre l'uomo ad accertare la verità. Tale linea viene inaugurata da Arcesilao di Pitane (315-240 a.C.), fondatore della media Accademia, nemico di ogni principio di autorità e patrocinatore della sospensione del giudizio, e proseguita da Carneade di Cirene (219 ca-128 a.C.), fondatore della nuova Accademia.
Tra il Il e il I secolo a.C. s'impongono invece, con Filone di Larissa (160-85 ca a.C.) e con Antioco di Ascalona (127 ca-68 a.C.), tendenze eclettiche. Secondo Antioco, per decidere che una tesi è più "probabile" di un'altra bisogna pur disporre di una certezza preventiva; e tale criterio di verità va rintracciato nel "consenso" di tutti i grandi filosofi sulle principali questioni. Perciò Antioco ricostruisce il patrimonio dottrinale delle scuole filosofiche prevalenti, per individuare la base comune sulla quale esse sembrano concordare; giunge in tal modo a sostenere una fondamentale continuità tra platonismo, aristotelismo e stoicismo.
La massima diffusione dell'accademismo a Roma coincide, nel I secolo a.C., con l'elaborazione di Cicerone, che attorno al 79 a.C. ascolta le lezioni di Antioco di Ascalona.

La scuola peripatetica
II Peripato aristotelico deve il suo nome all'abitudine di Aristotele di passeggiare (perípatos in greco significa appunto "passeggiata") durante le sue conversazioni con gli allievi; dal tempio di Apollo Liceo ad Atene, presso cui era la sede della scuola, essa era conosciuta anche come Liceo. Dopo la morte del maestro, la scuola fu retta da Teofrasto (sino al 288-286 a.C.), quindi da Stratone di Lampsaco (sino al 268 a.C.), Critolao di Faseride e altri, che si dedicarono essenzialmente alla raccolta e al commento dei testi di Aristotele.
Tipica dell'aristotelismo era l'attenzione al mondo sensibile e l'importanza attribuita all'indagine empirica. La linea più propriamente scientifica della filosofia aristotelica venne proseguita e sviluppata dagli studiosi del Museo della città di Alessandria.

Lo stoicismo
La scuola della Stoa deriva il suo nome dalla Stoà poikìle, il "portico dipinto" (dal pittore Polignoto) di Atene. Fu questa la prima sede d'insegnamento di Zenone di Ozio, fondatore (attorno al 300 a.C.) dello stoicismo. Nella storia dello stoicismo si distinguono tre fasi: l'antica Stoa (III-II secolo a.C.), con i successori di Zenone, tra cui Cleante e Crisippo; la media Stoa (II-I secolo a.C.), con Panezio e Posidonio; infine la nuova Stoa (I-III secolo d.C.), che corrisponde alla fioritura dello stoicismo romano, con Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto.
Caratteristica dello stoicismo di Zenone è l'idea di "sistema", che connette in un organismo coerente le tre parti della filosofia: la logica come teoria del discorso e della conoscenza, la fisica come concezione del mondo e l'etica come studio del comportamento umano. Per gli stoici il cosmo è un immane organismo, vitale e pulsante in ogni sua parte, i cui processi sono regolati da un principio unitario, detto lógos o pnéuma; quest'ultimo è però inseparabile dalla realtà: tutte le cose esistenti sono corpo. Ogni evento è inserito in una catena di cause ed effetti; tale legge è il fato o destino. II mondo è perfetto, nel senso che non gli manca nulla: c'è una "provvidenza" divina, che coincide con la razionalità. Essa tutto opera dentro il cosmo e non si identifica affatto nel Dio creatore giudaico-cristiano.
L'uomo (un composto di corpo e di anima non separabile) occupa nel cosmo una posizione privilegiata; la presenza, in lui, del lógos lo apparenta alla divinità. Siccome il caso non esiste e tutto avviene per necessità, la libertà per l'uomo coincide con il riconoscimento e l'accettazione dell'ordine perfetto e razionale del cosmo: questo è il suo dovere morale. Utile e buono è ciò che consente all'uomo di realizzare la sua natura di essere razionale; male è ciò che è di ostacolo. Quando la passione (pathos) prevale sulla ragione (logos), l'uomo si crea false rappresentazioni del bene; le passioni sono malattie dell'anima, da cui la terapia filosofica insegna appunto a guarire. Vertice della vita morale è I'apàtheia, l'«impassibilità», cioè l'assenza assoluta di passioni.
Il saggio stoico non rifiuta i precetti della morale comune e sa impegnarsi nella vita civile, al servizio della collettività; egli rappresenta però un ideale arduo, lontanissimo da quanti vivono nella comune schiavitù delle false opinioni e delle passioni.

L'epicureismo
La scuola degli epicurei era detta "Il Giardino" (Képos), così battezzata da Epicuro, che l'aveva fondata nel 307 a.C. L'epicureismo trovò a Roma un interprete e divulgatore di eccezionale portata in Lucrezio (I secolo a.C.), l'autore del poema De rerum natura.
Per Epicuro la filosofia è una «medicina dell'anima»; essa mira a una condizione di benessere interiore (eudaimonfa, "felicità"), che è possibile raggiungere mantenendosi ferme quattro convinzioni (è il cosiddetto "tetrafarmaco"): «Non sono da temere gli dèi; la morte non è cosa di cui si debba stare in sospetto; il bene è cosa facile da conquistare; facile da tollerarsi è il male». Per liberare l'uomo da ti-mori esagerati, la "terapia" filosofica predica il rifiuto di quelle attività 'intellettuali che non aiutano a trovare la felicità, e il ritorno a una condizione "naturale". Occorre perciò ricondurre tutti i fenomeni al campo dell'esperienza e liberarsi di ogni aspirazione a realtà esterne o superiori all'uomo.
Su tali basi, Epicuro disegna una fisica materialistica, fondata sull'atomo (la parte più semplice della materia, non scomponibile) e dipendente da precedenti dottrine filosofiche (Democrito e Leucippo), ed elabora una teoria della conoscenza fondata sulla sensazione. L'anima è mortale, perché come tutti i corpi è costituita di atomi; le funzioni psichiche (affetti, pensieri) sono determinate dal movimento degli atomi nell'anima. Virtù e felicità coincidono con il piacere (edoné), cioè con l'assenza di dolore: quella epicurea è un'etica edonistica, che chiede di riportarsi alla natura o physis. Per fondare le proprie scelte di vita, va eseguito un calcolo, una valutazione razionale del piacere e del dolore che ne seguiranno. Il saggio epicureo deve tenersi lontano da ogni turbamento e quindi anche dal mondo puramente convenzionale delle leggi, dello stato e della vita politica.
Quanto agli dèi, Epicuro ne afferma l'esistenza, ma sostiene che essi vivono in spazi vuoti, gli intermundia, indifferenti a quanto accade agli uomini: pensare che gli dèi agiscano e averne quindi paura è pura superstizione.

Altre tendenze: cinismo e scetticismo
Non definibili come vere e proprie scuole, bensì come tendenze a esse trasversali, sono poi lo scetticismo e il cinismo.
Lo scetticismo, fondato da Pirrone di Elide tra il IV e il III secolo a.C., si basava sulla relatività dei punti di vista: perciò occorre rifiutare ogni "attaccamento" alle opinioni e vivere senza desideri e inclinazioni particolari.
Il cinismo si configura come un atteggiamento di pensiero e di vita contrario all'istituzionalizzazione del sapere filosofico: perciò i filosofi cinici attuano una forma di divulgazione filosofica popolare, conversando nelle vie e nelle piazze cittadine. Fondato da un discepolo di Socrate, l'ateniese Antistene (436-366 a.C.), il cinismo deriva il nome dal fatto che i suoi rappresentanti, per la vita girovaga e austera, vennero paragonati ai cani (dal greco kyon, "cane"). I cinici predicavano il totale distacco dal piacere terreno, dai beni esteriori e anche dalle convenzioni sociali. Il loro rappresentante più noto fu Diogene di Sìnope (413-324 a.C.), che secondo la tradizione vagabondava portando con sé soltanto una ciotola, un piatto e un bastone; la sua dimora sarebbe stata una botte.
Postato il 29 febbraio 2012

Le tre vie al Vero: così Raffaello sconfigge il tempo

«Parnaso», «Scuola di Atene», «Disputa»: è il ruolo eterno di arte, filosofia e religione
di Giovanni Reale
Negli
Nel 1511 Raffaello terminava i suoi grandiosi capolavori nella Stanza della Segnatura, studio del Pontefice, i quali esprimevano un vero e proprio programma ideale del pensiero della Chiesa rinascimentale. I tre grandi affreschi, che hanno assunto i titoli Il Parnaso, La Scuola di Atene e La Disputa, rappresentano, infatti, quelle che sono state considerate le tre grandi vie che l'uomo percorre nella sua ricerca del Vero e dell'Assoluto: l'arte, la filosofia e la religione.
L'arte ricerca l'Assoluto mediante la poesia (espressa in varie forme), la filosofia mediante la ragione, e la religione mediante la fede. Raffaello rappresenta tali concetti in forme immaginifiche pressoché perfette e come paradigmi che si impongono nella dimensione del classico.
Robert von Zimmermann nel suo trattato di estetica (1865) scriveva: «Shakespeare non è meno classico di Omero; anche Raffaello sta accanto a Fidia». E precisava: «La pura forma estetica del classico non include alcuna determinazione di tempo; il classico sta nel tempo, la classicità sta fuori dal tempo». E in effetti, quegli affreschi di Raffaello rimangono vivi oggi come cinquecento anni fa, e incantano chi li guarda, come incantavano il pontefice Giulio II che li aveva commissionati.

Il Parnaso è l'affresco meno studiato e meno gustato, anche perché è tagliato in basso al centro dalla parte alta di una porta che risulta disturbante. Alcuni rimangono perplessi per l'Apollo che sta al centro, e che si differenzia nettamente dalle raffigurazioni greche classiche. Ma esso rappresenta l'immagine tipicamente rinascimentale del dio, e rispecchia il concetto platonico dell'«ispirazione poetica», come viene presentato nel Fedro : «L'invasamento e la mania che provengono dalle Muse, impossessatesi di un'anima tenera e pura, la destano e la traggono fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie...». Incantevoli sono poi le Muse, raffigurate in molti casi con gli strumenti che le caratterizzano. I quattro gruppi di poeti sono suddivisi in lirici, epici, bucolici e tragici, secondo una formula esemplare; e alcuni di essi sono raffigurati in modo assai efficace, come per esempio Saffo, Omero, Dante e i tre grandi tragici greci Eschilo, Sofocle e Euripide.

Il Parnaso
La Stanza della Segnatura, originariamente destinata a biblioteca privata di papa Giulio II, contiene i più famosi affreschi di Raffaello. Il tema del «Bello» è raffigurato nell’affresco del «Parnaso» (1510-11) con Apollo e le Muse e, tutt’intorno, diciotto poeti. Tra questi: Petrarca, Saffo, Omero, Dante, Virgilio, Boccaccio e Ariosto.

La Scuola di Atene è certamente l'affresco di Raffaello più noto e più studiato a livello internazionale. Friedrich Adolf Trendelenburg scriveva che in esso i personaggi non rappresentano «un passato», bensì «la permanente attualità della storia» del pensiero, e quindi una storia contratta in un eterno presente. Edgar Morin, in Pensare l'Europa , scrive che nel Medioevo la «Scuola di Atene» era morta, la sua porta fu riaperta nel Rinascimento, e la sua perennità fu consacrata proprio in questo affresco nella Stanza della Segnatura in Vaticano. E conclude: «La riattivazione dell'eredità greca, merito originale del Rinascimento, diventa permanente. Da questo momento il pensiero, la poesia e l'arte europea rimangono ancorati a questa fonte».

Nella Stanza della Segnatura il «Vero razionale», o la filosofia, è rappresentato dall’affresco della «Scuola di Atene» (1509-11), con la raffigurazione dei grandi filosofi (al centro Platone e Aristotele)

Raffaello rappresenta il pensiero greco dalle origini alla fine in ottica platonica, con le precise indicazioni dategli da Fedro Inghirami, straordinario conoscitore e amante dell'antichità. Inizia dalla raffigurazione del messaggio degli orfici (alla sinistra per chi guarda) con un sacerdote (raffigurato con il volto dello stesso Inghirami) che sta leggendo, da un libro appoggiato sulla base di una colonna, la grande rivelazione secondo la quale l'anima dell'uomo era un demone divino, che per un peccato commesso era stato rinchiuso nel carcere di un corpo, ma che attraverso una serie di reincarnazioni ritornerà a essere un dio fra gli dèi. La base su cui è appoggiato il libro orfico costituisce un simbolo del pensiero greco, che si svilupperà proprio come una colonna spirituale appoggiata su quella base. A fianco sono rappresentati i pitagorici e i filosofi presocratici che si sono ispirati all'orfismo, e in particolare Empedocle ed Eraclito (con le fattezze di Michelangelo). Nella parte destra è raffigurato lo splendido gruppo dei geometri con Euclide (nelle sembianze di Bramante), con accanto due personaggi simboleggianti la geometria e l'astronomia. Al centro, seduto sulla scalinata, è raffigurato Diogene il Cinico. In alto a sinistra sono rappresentati tre sofisti, Prodico, Protagora e Gorgia. Uno dei socratici vorrebbe scacciarli dal consesso dei filosofi, mentre Gorgia gli sta rispondendo: eppure ci siamo anche noi! Il gruppo dei socratici è splendido. Sono ben riconoscibili, fra i vari personaggi, Alcibiade e Senofonte. Al centro spiccano le due figure più belle: Platone (con il viso di Leonardo da Vinci) e Aristotele, con accanto gruppi di loro discepoli rappresentati in maniera superba. Dopo un gruppo che rappresenta un maestro con discepoli, è raffigurato da solo Plotino, che nel Rinascimento venne rivalutato e ammirato (nel 1492 Ficino pubblicava la traduzione delle Enneadi che ebbe importanza epocale). Viene raffigurato isolato, in quanto sosteneva che il vertice della vita perfetta consisteva in una eliminazione di tutto, e in una fuga verso Dio «da solo a Solo».

L'affresco intitolato La Disputa è ispirato soprattutto al tredicesimo libro delle Confessioni (come ha dimostrato Heinrich Pfeiffer). In effetti Agostino, in quanto platonico, nel Rinascimento era stato rivalutato rispetto a Tommaso. Raffaello lo rappresenta a destra in modo imponente, mentre sta dettando a uno scrivano, mentre San Tommaso è raffigurato alle sue spalle a mezzo busto.
«Disputa», sulla base del testo agostiniano, non significa una discussione, ma una «rivelazione» che viene data all'uomo dall'alto, e non (come molti hanno pensato) sul sacramento dell'Eucaristia, che nel grande affresco rappresenta solo un piccolo particolare, ma sulla realtà in generale, ossia Dio, la Trinità, le vite angeliche, gli evangelisti, i santi e gli uomini che cercano e discutono di Dio, rappresentati su tre livelli: quello sopraceleste, quello celeste e quello terrestre. La Trinità è poi rappresentata come un cuneo verticale, con al vertice Dio Padre, sotto di lui Cristo, cui segue la colomba simbolo dello Spirito Santo, con al di sotto di tutti l'ostia consacrata, simbolo di Cristo incarnato (e quindi della Trinità).

LA DISPUTAIl tema del «Vero soprannaturale» è illustrato nella «Disputa del SS. Sacramento» (o la Teologia, 1509), dipinta su uno dei lati della stanza che, sino alla metà del XVI secolo, non servì da biblioteca, ma da tribunale della Santa Sede, la «Segnatura Gratiae et Iustitiae», presieduto dal pontefice

La composizione di questo affresco è stata probabilmente la più impegnativa per Raffaello, come dimostrano le numerose prove e i bozzetti che ci ha lasciato. Alcuni lo considerano come il vertice artistico di Raffaello. Johann Friedrich Overbeck scriveva: «Giammai forse nella pittura è stato creato alcunché di più sublime di questa gloria della Disputa. Si vede il cielo aperto, e si resta rapiti come Stefano». E qualcuno lo ritiene superiore alla stessa Scuola di Atene.
Questi tre capolavori danno veramente il meglio di Raffaello, e fanno capire quanto sia vero ciò che Friedrich Nietzsche diceva di lui, considerandolo un vulcano e una straordinaria forza creativa naturale senza pari e irripetibile, quando scriveva: «Solo perché non sapete che cosa sia una natura naturans come quella di Raffaello, non vi fa né caldo né freddo apprendere che essa fu, e che non sarà più».
«Corriere della Sera» del 25 febbraio 2012

Il comunismo non fu rivoluzionario, ma una reazione al capitalismo

di Giampietro Berti
Il succo del nuovo libro di Paolo Ercolani, La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche (La scuola di Pitagora, pagg. 498, euro 25; presentazione di Luciano Canfora), può essere espresso in questi termini: va riconosciuta la vittoria netta del liberalismo sul marxismo, ma si tratta di una mezza vittoria (e dunque di una mezza sconfitta del marxismo), in quanto oggi la società capitalistica non è più quel regime disumano teorizzato dal liberalismo ed esistente fino agli inizi del Novecento, e ciò per merito anche dei seguaci di Marx, che hanno costretto il capitalismo a riformarsi in chiave di Welfare State. Inoltre l’affermazione planetaria del mercato è lontana dall’aver realizzato pace, benessere e dignità per tutti: insomma se il comunismo sta malissimo, anche il capitalismo non se la passa bene. In tutti i casi, la sua vittoria è ben lungi dall’essere definitiva. Non siamo affatto alla fine della Storia (come voleva Francis Fukuyama) perché il suo svolgimento è in continuo divenire: si può dunque ancora sperare ...
Abbiamo riassunto in modo schematico un libro di lunga ricerca e di meditata riflessione, assai pregevoli. Tuttavia la morale rimane questa: la vittoria del capitalismo non è definitiva, tanto come non è definitiva la sconfitta del marxismo, che, comunque, ha svolto nella storia una parte benefica. Si tratta di una conclusione che non può essere accettata. Ci spieghiamo. Chi ha affermato con certezza che la Storia avrebbe trovato il suo compimento non è stato il liberalismo, ma il marxismo. Essendo forma secolarizzata dell’escatologia giudaico-cristiana, il marxismo si è fondato sulla convinzione messianica che il comunismo è la verità ultima dell’umanità, la sua effettiva realizzazione storica: il capitalismo sarebbe stato sopraffatto dal comunismo.
È avvenuto invece il contrario: non vi è stata la caduta del capitalismo e l’avvento del comunismo, ma la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo. Si può dire senz’altro che la liberaldemocrazia è ben lungi dall’aver ottenuto un’affermazione definitiva, fino a costituire l’ultima fase della storia dell’umanità, ma ancor più si deve ricordare che la sconfitta del comunismo è irreversibile.
Inoltre è molto discutibile l’idea di Ercolani che l’Occidente moderno sia stato attraversato da due opposte tradizioni di pensiero, quella liberal-individualistica e quella giacobino-socialista, dal momento che esse non hanno avuto lo stesso ruolo. Il capitalismo è il protagonista della storia moderna, il comunismo è la reazione che ha accompagnato questo protagonismo. Bisogna dunque rovesciare questa «universale» credenza e dire che il comunismo non esprime una rivoluzione ma una reazione, essendo un protagonismo di seconda battuta che reagisce a un precedente protagonismo: il capitalismo è rivoluzionario, il comunismo è reazionario. È il capitalismo che ha cambiato il mondo, non il comunismo.
Non possono dunque essere posti sullo stesso piano il liberalismo individualistico e il giacobinismo socialista. Se c’è stata una corrente politico-ideologica che ha contribuito in modo positivo alla dialettica storica dell’Occidente, essa non va rintracciata nel radicalismo comunista (che intendeva abolire il capitalismo, distruggendo il liberalismo), ma nel riformismo socialista (diretto a modificare il capitalismo rimanendo all’interno della logica liberal-democratica).
Le contraddizioni del liberalismo, poste in rilievo da Ercolani, non possono fare il paio con la responsabilità storico-filosofica di Marx, per il quale il socialismo si sarebbe realizzato attraverso la statalizzazione integrale dei mezzi di produzione, l’abolizione del mercato e la pianificazione economica. È certo che Marx non ha teorizzato il Gulag, ma è altrettanto certo che ha teorizzato un sistema politico-sociale che, ovunque è stato applicato, ha prodotto sempre lo stesso risultato: dispotismo e miseria.
«Il Giornale» del 29 febbraio 2012

26 febbraio 2012

Toh, Foscolo interessa più della settimana bianca

Boom di giovani ai Colloqui Fiorentini
di Alessandro D’Avenia
Quando mi hanno invitato a parlare ai ragazzi che in questi giorni partecipano ai Colloqui Fiorentini, ho pensato di portare anche una delle mie classi tra i 1800 studenti di scuola superiore che da tutta Italia affollano il capoluogo toscano per assistere e contribuire a un convegno su un autore letterario. Mi è sempre sembrato paradossale che tanti ragazzi si riuniscano con dei professori in uno spazio creato e ri-creato da un classico della letteratura. Fuggono da scuola e poi ci vogliono tornare. Come mai?
Mi hanno chiesto di parlare dell’Ortis di Foscolo, autore designato per i Colloqui di quest’anno. La cosa mi piaceva meno, perché non ho mai letto per intero quel libro, accontentandomi di farlo - antologicamente - "a pezzi". Ma nulla accade per caso e ho visto una sfida e un’occasione.
Ho deciso così di trasformare la mia comunicazione in un’avventura con i miei ragazzi del quarto anno, leggendo per intero l’Ortis in classe e scoprendo insieme a loro, come in una passeggiata con un amico, su cosa posare lo sguardo e lasciarsi sorprendere. Abbiamo anticipato lo studio di Foscolo di qualche mese e ci siamo buttati dentro la sua prosa e poesia intrisa di una musica che spesso costringe a fermarsi, quando non è troppo appesantita dalla retorica del tempo.
Ho letto «Le ultime lettere di Jacopo Ortis» ad alta voce e ci fermavamo se venivamo sollecitati da qualcosa che ci riguardava. È stata una lunga passeggiata, spesso con tratti in solitaria (il tempo non consentiva la lettura di tutto il libro in classe) ma con indimenticabili bivacchi, fatiche, scoperte. Sino alla cima, dalla quale vedevamo tutto il percorso fatto, il panorama che Foscolo ci regalava e una specie di compimento nelle nostre vite. Charles Péguy la chiamava «una lettura ben fatta»: «Una lettura ben fatta non è nientemeno che il vero, veritiero, e persino soprattutto reale compimento dell’opera, una specie di coronamento, di grazia particolare e sovrana. (...) Vi è un destino meraviglioso, e quasi spaventevole, nel fatto che tante opere di grandi uomini possano ricevere un perfezionamento, un compimento da noi dalla nostra lettura. Che spaventosa responsabilità per noi». Io amo chiamarla una lettura «responsabile», una lettura che risponde al testo letto per intero, in prima persona, con una matita in mano. Forse per questo George Steiner proponeva qualche anno fa, in ironica polemica con le scuole di scrittura creativa, l’inizio di «scuole di lettura creativa», scuole in cui si impara a leggere davvero. Questo in effetti dovrebbero fare le scuole di scrittura e la scuola in generale: insegnare ai ragazzi a leggere bene. Oggi arrivano alle superiori ragazzi che fanno fatica a leggere bene un testo ad altra voce. Quale comprensione di un testo e del mondo possono maturare senza una lettura ben fatta? Intelligenza è legere intus, leggere dentro, ma chi non sa leggere non riuscirà a penetrare la superficie del testo per leggervi dentro e incontrare nello spirito chi ha scritto quella lettera.
Questo accade ai Colloqui fiorentini, nella cornice della Firenze che foscoliamente "beata in un tempio accolte serba l’itale glorie". Così è accaduto in classe. Non posso dimenticare quando Ambrogio ha detto: "Si doveva intitolare Jacopo Mortis". Non posso dimenticare il momento in cui Luca ha interrotto la lettura è ha esclamato: «In fondo la letteratura tutta è un combattimento contro la solitudine», cogliendo il nucleo essenziale del romanzo epistolare foscoliano in cui lo scrivere lettere, aldilà dell’imitazione dei modelli, è la ricerca di un «tu» che raccolga i frammenti di un uomo il cui cuore e la cui mente si sono dati battaglia sino a frantumarlo e a renderlo un enigma a se stesso. Ne nasce così una confessione di stampo agostiniano, in cui però la ricerca di senso rimane senza risposta sino al gesto estremo del suicidio.
Non posso dimenticare le lacrime di Carolina, ferita dal fatto che Foscolo considerasse illusioni del cuore le cose per cui lei cerca di vivere e lottare ogni giorno. Non posso dimenticare le parole di Benedetta che faceva sue quelle di Foscolo quando traduce Pascal «Io non so né perché venni al mondo; né come, né cosa sia il mondo, né cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’un’ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazi dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove».
Quante cose ho scoperto di Foscolo, quante cose ho scoperto di me, quante cose ho scoperto dei miei ragazzi grazie a questa lettura "ben fatta". Che cosa è la letteratura se non un modo per origliare noi stessi quando non sappiamo o non vogliamo ascoltarci, che cosa è se non uno scoprire se i pensieri che abbiamo sono veramente nostri e per imparare a guardare gli altri attraverso le parole che fanno proprie o in cui si riconoscono?
Non potrò dimenticare soprattutto che quando ho detto che sarei andato a Firenze per una comunicazione hanno deciso di venire anche loro, benché i Colloqui cadessero nei giorni delle vacanze di Carnevale e avrebbero dovuto rinunciare alla settimana bianca. Per tornare a scuola.
«Avvenire» del 24 febbraio 2012

Alle scimmie manca la parola. A noi umani manca il silenzio

Il nostro cervello custodisce i misteriosi meccanismi della comunicazione Uno scienziato della mente spiega perché l’uomo è l’unico animale che non tace
di Massimiliano Parente
«Parole, parole, parole» cantava Mina, «soltanto parole tra noi», e però dici niente, perché a Edy, la mia amante pelosa che vado a trovare ogni settimana, manca solo la parola. Questo perché lei è uno scimpanzé e io un uomo, siamo entrambi primati e entrambi discendiamo dalle scimmie ma cinque milioni di anni fa abbiamo preso strade diverse, e adesso un vetro separa i nostri corpi e ci impedisce il contatto fisico. Tanto neppure la liscia Nicole Minetti, l’altro amore mio, mi risponde mai, né su Facebook né su Twitter, e lì in teoria apparteniamo alla stessa specie, quindi tanto vale restare al Bioparco, almeno Edy, attraverso il vetro, mi regala baci a non finire.
È comunque un pretesto per pensare quanto, negli ultimi decenni, si faccia sempre più interessante lo studio della natura del linguaggio che ci distingue dagli altri animali, soprattutto se analizzato da neurologi cognitivi attraverso seri approcci sperimentali e evoluzionisti. Vilayanur Ramachandran, inserito da Newsweek tra i cento personaggi fondamentali al progresso del XXI secolo, è uno di questi, e il suo ultimo saggio, L’uomo che credeva di essere morto, edito da Mondadori (pagg.372, euro 20) prova a sbrogliare proprio il nodo cruciale dell’evoluzione del linguaggio. A cominciare dalla fondamentale funzione dei neuroni specchio, lo «scimmiottare», di cui proprio le scimmie, paradossalmente, risultano carenti rispetto all’uomo.
È proprio la spiccata capacità di imitazione la facoltà principale che ha permesso ai primi ominidi il passo fondamentale per trasmettere la conoscenza con l’esempio, pur passando per un lungo e complesso meccanismo darwiniano.
Certo, tutto passa attraverso la dura lotta delle vita nella materia, non dimentichiamo che basta della ketamina o una lesione alla regione frontoparietale destra per produrre l’illusione di un’esperienza extracorporea, e perfino l’etica e il «libero arbitrio», il bene e il male, senza alcune specifiche strutture dei lobi frontali e del cingolo anteriore andrebbero a farsi friggere. Ciò non toglie che noi umani abbiamo sviluppato una straordinaria forma di coscienza e, caso unico sul pianeta terra, riflettiamo sul nostro essere nell’universo: niente male per essere polvere di stelle, corpi tenuti insieme da atomi vecchi quattordici miliardi di anni. Ma appunto la capacità di pensare, comunicare, scrivere, leggere e esprimersi non è astratta, si può addirittura toccare con mano, basta aprire un cervello. Malato o sano poco importa, anzi meglio malato, perché è proprio studiando le disfunzioni che la scienza riesce a smontare i pezzi della macchina pensante.
Infatti la parte superiore del lobo parietale inferiore (LPI), per esattezza il giro sopramarginale, è appannaggio esclusivo dell’uomo, e basta una lesione in questa zona corticale per perdere la facoltà di parlare. Non solo: le regioni cerebrali dedicate al significato e alla sintassi sono separate. L’area di Wernicke è preposta alla comprensione del linguaggio, ossia alla semantica, mentre l’area di Broca è fondamentale nel linguaggio parlato e la sintassi. Un afasico di Wernicke, con l’area di Broca intatta, produce frasi complesse, ma prive di significato. Se applicassimo la diagnostica neurologica alla politica chissà quante ne verrebbero fuori.
In ogni caso se mi tagliassero le mani non potrei scrivere l’articolo che state leggendo, ma potrei comunque dettarlo, perché come scrive Ramachandran: «il vostro centro della scrittura è nel giro angolare, non nelle mani». Certo, non potrei dettarlo alla mia amata Edy, ma alla fine mi viene anche il dubbio che se fosse andata lei al Festival di Sanremo, o se fosse stata al posto della mia ultima amante umana, ne avrebbe detto di migliori perfino stando zitta.
Insomma, stringi stringi anche un umano antiumanista come me ha i suoi romanticismi, e mi piace pensare che magari gli scimpanzé non parlano perché hanno capito che c’è niente da dire, e se mi è difficile immaginare un gorilla che scrive l’Amleto, non ne ho mai visto uno pregare un uomo invisibile guardando il cielo. Magari non è agli scimpanzé che manca la parola, ma a noi che manca il silenzio.
«Il Giornale» del 25 febbraio 2012

Difendere (senza sconti) la libertà d'espressione

La denuncia di Caselli contro i No Tav
di Pierluigi Battista
Contro i professionisti dell’intolleranza per ripristinare la libertà di parola
Gli squadristi che inseguono Giancarlo Caselli per tappargli la bocca usano il potere della violenza contro il potere della parola. Adusi alla sopraffazione, temono il pensiero e le parole che lo esprimono come il più grande pericolo.
Per loro il Nemico va annientato, figurarsi se può essergli riconosciuto il diritto di parola. Chi impedisce a Caselli di parlare, diffonde il virus dell'intolleranza e della prepotenza. Bisognerebbe definirli per ciò che sono: vigliacchi che si accaniscono in tanti contro uno. Altro che le buone ragioni del popolo No Tav, che dovrebbe cacciare con energia i professionisti della bastonatura dal loro movimento, discutibile ma, se espresso in forme democratiche, più che legittimo.
Ma per essere efficacemente solidali con Caselli, anche ieri sera a Genova vittima dell'intolleranza, bisognerebbe smetterla anche con l'acquiescenza indulgente che ha sin qui accompagnato le gesta di chi va in giro per l'Italia a impedire ai loro bersagli di presentare libri, divulgare idee, discutere liberamente. I prepotenti fanno della loro vittima un simbolo del Male: in questo caso della «repressione» giudiziaria dei violenti che secondo la Procura di Torino hanno trasformato normali manifestazioni di protesta in occasioni di guerriglia e di violenza. Ergo, secondo il vocabolario della loro intolleranza virulenta e irragionevole, a Caselli può essere revocato il diritto costituzionale di manifestare la propria opinione. Il sillogismo è micidiale. Le conseguenze sono una diminuzione della libertà: della libertà di chi non può dire e quella di chi non può ascoltare. È prevalsa invece in questi anni l'idea un po' stolta che chi impedisce di parlare è solo un esuberante che vuole esercitare la «libertà di fischio». Come se fosse un appassionato loggionista indispettito dalla cattiva esecuzione di chi sta sul palcoscenico. Una sciocchezza: i prepotenti non vogliono che si parli, a prescindere, non vogliono che chiunque possa esprimere liberamente le proprie idee. Altro che libertà di fischio.
Chiunque vuol dire chiunque. In Italia, invece, l'indignazione contro gli intolleranti è selettiva, zigzagante, dimezzata: forte e veemente se le vittime sono dei «nostri», flebile e assente se il trattamento squadristico colpisce gli altri. Ma sono anni che gli squadristi, approfittando di questo inguaribile doppiopesismo, riescono a imporre la volontà della violenza e dell'intimidazione. Hanno impedito che il Papa tenesse una lezione al Rettorato di Roma. Hanno scagliato corpi contundenti e fumogeni contro Raffaele Bonanni, il leader della Cisl «reo» di voler dire la sua durante una festa del Partito democratico. Hanno inscenato una «mobilitazione antifascista» all'Università romana per non far parlare un intellettuale di destra come Marcello Veneziani (e recentemente a Milano con Oscar Giannino, nientedimeno). Hanno coperto con i fischi il presidente democratico della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, solo perché voleva difendere il valore del 25 aprile dalle gesta dei lanciatori seriali di bulloni e pietre. Hanno negato la piazza anti-abortista di Giuliano Ferrara in campagna elettorale. Hanno zittito i relatori di un convegno sui (presunti) «diari di Mussolini» presieduto da Marcello Dell'Utri. Hanno costretto una Fiera del libro a blindarsi solo perché parlavano scrittori israeliani come Amos Oz e Abraham Yehoshua.
Ogni volta, pochi ma determinati, con la potenza degli urlatori hanno calpestato un diritto. Si sono sentiti i monopolisti unici del diritto di concedere o negare la parola. Sono arroganti, ma furbi: sanno che basta un manipolo di squadristi ben addestrati per schiacciare i diritti della maggioranza silente. Sanno di avere un grande potere intimidatorio. Dovrebbero sapere invece che l'opinione pubblica disprezza chi non conosce e riconosce i diritti degli altri, chi vuole imporre con la forza una volontà minoritaria ma chiassosa, capace con il fracasso e le urla di impedire a chi vuole parlare di argomentare i propri pensieri, sottoporli al giudizio di un uditorio, come avviene in qualsiasi Paese libero e democratico. Ecco perché la solidarietà con Caselli deve essere totale e incondizionata. Perché attorno al suo caso si misura la capacità di una Nazione di tutelare il diritto fondamentale di parola. Cedere sarebbe catastrofico, perché sulla libertà di parola non si può transigere.
«Corriere della Sera» del 22 febbraio 2012

21 febbraio 2012

Trova le differenze

di Massimo Gramellini
Nell’arco di tre mesi il settimanale più famoso del mondo ha dedicato la copertina a due premier diversissimi, nati incredibilmente nello stesso Paese: il nostro. Rimangono le questioni irrisolte. Chi ha le orecchie più grandi? Chi incarna la destra moderna? A chi si è ispirato Leonardo per il sorriso della Gioconda? Come è possibile che in appena tre mesi - il tempo che Alemanno impiega per mettere le catene - secondo il titolista di «Time» siamo passati dallo status di economia più pericolosa del pianeta a quello di ultima speranza d’Europa? Da chi comprereste una barzelletta usata? (Io da Monti: adoro l’umorismo lugubre). L’italiano medio somiglia a uno dei due o il suo sogno è essere Monti di giorno e Berlusconi la notte? Quando mai metteranno Bersani sulla copertina di «Time»?
«La Stampa» del 10 febbraio 2012

Una polizza per la reputazione

La difficoltà di cancellare i dati sui social suggerisce alcune strategie per difendersi
di Evgeny Morozov
Come creare un sistema di assicurazioni per i danni online
Il grande paradosso di Internet, oggi, è che nonostante le aziende in Internet aspirino a mettere ordine in quel che facciamo online e a come lo facciamo, il Web appare più fuori controllo che mai.
Prendiamo ad esempio Facebook: recentemente si è visto che deteneva ancora foto che gli utenti avevano chiesto di cancellare tre anni fa. Oppure Anonymous, che continua a far circolare informazioni private di cittadini incolpevoli per perseguire obiettivi politici di ordine generale. O ancora Path, un popolare social network per la condivisione di foto, che memorizzava segretamente nei suoi server i numeri dei telefoni cellulari contattati dai suoi utenti. Se Anonymous avesse attaccato i server di Path, le rubriche dei suoi due milioni di utenti sarebbero diventate di dominio pubblico.
Il possibile danno riguarderebbe in questo caso non solo la privacy degli utenti di Path, ma anche la loro reputazione. Chissà quanti numeri imbarazzanti vengono salvati nelle rubriche. Analogamente, quando nel 2010 Google lanciò il suo disastroso servizio Google Buzz, rese pubblici i nomi dei contatti email più frequenti dei suoi utenti - un gesto assai poco adatto a salvaguardare la reputazione della gente.
Cosa fare, allora? Una soluzione potrebbe essere quella di rendere il Web un luogo meno anonimo, in modo che sia possibile rintracciare e punire chi si comporta come Anonymous. Un'altra sarebbe quella di considerare inevitabili questi incidenti e cercare di gestire attivamente la propria reputazione online. Un gran numero di start-up sta già pubblicizzando sistemi capaci di sopprimere le informazioni dannose, o almeno di spostarle da pagina 1 a pagina 10 dei risultati di ricerca. Dato che questo può costare migliaia di dollari, è una opzione riservata soprattutto ai ricchi.
Una terza soluzione, più allettante, è quella di promuovere il cosiddetto «diritto a essere dimenticati» - un diritto così ambiguo, che spesso anche i suoi sostenitori non riescono a dire in cosa consista. Nella sua forma più contenuta, «il diritto a essere dimenticati» è una questione di buon senso: gli utenti dovrebbero avere la possibilità di cancellare qualsiasi informazione carichino su servizi online. Nella sua forma più estesa - permettere agli utenti di eliminare le informazioni su se stessi da qualsiasi sito o da motori di ricerca - «il diritto a essere dimenticati» è troppo drastico e poco realistico.
Anche se applicato, «il diritto a essere dimenticati» non potrà far molto per contrastare il prossimo Google Buzz o Path, per non parlare di Anonymous. Potrebbe limitare la diffusione di informazioni esposte inavvertitamente, ma ridurne la quantità non consolerebbe quegli utenti la cui reputazione è danneggiata anche da una sola pubblicazione. A volte basta a danneggiarci che amici, parenti o partner commerciali diano solo una rapida occhiata a notizie compromettenti. «Il diritto a essere dimenticati» potrebbe eliminare queste informazioni da Internet - ma non dalla nostra mente.
E se si trovasse una soluzione più elegante? Potremmo creare un sistema di assicurazione obbligatoria per i danni online! Che cos'è infatti la diffusione accidentale di informazioni riservate, se non un disastro online - un terribile tsunami informatico creato dall'uomo, che può distruggere la reputazione come un vero tsunami distrugge una casa? Se Facebook non elimina una foto che avevamo chiesto di cancellare tre anni fa, o se Google diffonde accidentalmente la nostra rubrica e, soprattutto, se questo ci ha causato un danno dimostrabile (ad esempio un ex fidanzato pazzo ha cominciato a perseguitarci in conseguenza di ciò), dovremmo poter ricevere un risarcimento in denaro. Starebbe poi a noi decidere se usarla per iniziare una nuova vita o per utilizzare i servizi di una di quelle start-up specializzate nel migliorare la nostra reputazione online (o farla sparire). Le somme in gioco non dovrebbero peraltro essere insignificanti. Dal momento che solo una piccola percentuale di utenti subisce dei danni effettivi dalla diffusione di informazioni, se tutti versassero una piccola quota mensile si raccoglierebbero i fondi necessari ad aiutare chi ha problemi.
Questo sistema ha molti vantaggi. Prima di tutto, non interferirebbe con il funzionamento di Internet. Non c'è bisogno di bandire dalla Rete l'anonimato o di creare una sofisticata infrastruttura censoria per poter applicare «il diritto di essere dimenticati». In secondo luogo, darebbe alle vittime dello tsunami informatico una qualche compensazione. Non ci sarebbero più vaghe promesse del tipo «non accadrà mai più», ma chi è danneggiato riceverebbe una somma di denaro. Infine, renderebbe più democratico l'accesso ai servizi che tutelano la nostra reputazione: veder ripristinata la propria reputazione non sarebbe più solo appannaggio dei ricchi che possono pagare migliaia di dollari per questo beneficio. E soprattutto si manterrebbe lo spirito innovativo di Internet. Le società che operano in Internet non avrebbero bisogno di modificare i loro modelli di business per soddisfare le esigenze più stravaganti che discenderebbero dal «diritto di essere dimenticati». Analogamente, gli utenti ordinari, che rischiano di diventare sempre più paranoici riguardo alla loro reputazione, non avrebbero bisogno di cancellare tutti i loro account o di diventare degli eremiti digitali. Anche se Anonymous rivelasse qualcosa di loro, otterrebbero almeno una compensazione economica.
Questa assicurazione sulla reputazione online non è, ovviamente, una panacea - non deve essere intesa come un sostituto della legge e dell'educazione dell'utente di Internet, strumenti principali di tutela dell'interesse pubblico. Le aziende che trattano i dati degli utenti in modo negligente dovrebbero comunque essere multate e sanzionate penalmente. Ma un sistema assicurativo di questo genere offrirebbe un minimo di compensazione a chi di noi si trovasse schiacciato negli angoli più kafkiani di Internet.
Perché renderla obbligatoria? Chi non usa affatto Internet, non dovrebbe essere esentato? Purtroppo non basta non utilizzare Internet per non esserne danneggiati. Una nostra foto imbarazzante potrebbe circolare su Facebook anche se non sappiamo cosa sia Facebook. Analogamente, quando Anonymous attacca le banche dati online di agenzie governative, tutti diventano vittime potenziali, anche chi non ha alcuna capacità digitale.
Naturalmente, come avviene per ogni proposta nuova, ci sono ancora centinaia di dettagli da mettere a punto - ma non è un problema insormontabile. In effetti, alcune compagnie di assicurazione, tra cui colossi come AIG (American International Group), offrono già delle «assicurazioni sulla reputazione» alle aziende loro clienti. Quel che serve ora è renderle accessibili e utili agli individui, sciogliendo alcuni dei nodi principali. Per esempio, misurare o anche definire «un danno» alla propria reputazione online può essere difficile. Tuttavia, la crescente quantificazione del nostro status sociale sul Web in base a chi sono i nostri amici potrebbe presto renderla più facile. È anche importante non creare rischi come quello di dare agli utenti un incentivo a pubblicare foto imbarazzanti di se stessi sulle piattaforme Internet per poter poi chiedere un risarcimento. Garantire che soggetti ad alto rischio, che hanno account attivi su ogni piattaforma Internet, non siano discriminati o sottoposti a tariffe esose da parte degli assicuratori potrebbe essere un altro problema (che si potrebbe però risolvere se il programma di assicurazione fosse gestito dal governo).
Dal punto di vista dell'innovazione, potrebbe essere interesse della società far provare in fase iniziale il maggior numero di nuovi servizi Internet al maggior numero possibile di utenti. Fornire loro un'assicurazione online più completa possibile sarebbe quindi un utile obiettivo di politica sociale: incrementare il welfare, dopo tutto, è lo scopo delle assicurazioni. Non esplorare quello che i sistemi assicurativi ci possono offrire, adottando slogan vaghi e populisti come «il diritto a essere dimenticati», è un modo sicuro per introdurre una politica malaccorta nella gestione di Internet. Purtroppo non c'è ancora un'assicurazione che ci tuteli da una politica stupida.
( Traduzione di Maria Sepa )
«Corriere della Sera» - Supplemento "La Lettura" del febbraio 2012

«Ho incontrato Petrarca in cucina»

Intrecci di storie, amicizie, passioni: Ezio Raimondi racconta le voci dei suoi libri
di Paolo Di Stefano
Le voci dei libri sono le tante voci contenute nei libri, ma sono anche quelle che arrivano a determinarne la scelta e la lettura, e sono quelle che dai libri, una volta letti e consumati, si dipartono per proseguire lungo percorsi imprevisti. I libri sono intrecci di voci, confluenze, crocevia. Le voci dei libri è il titolo del nuovo libro di Ezio Raimondi (a cura di Paolo Ferratini, Il Mulino), che a sua volta è un intreccio di voci e di incontri. Si sarà notata l'abbondanza di «libri» nelle righe che aprono questo articolo. Non è casuale. Perché il nuovo libro di Raimondi, che con i suoi quasi 88 anni è il decano degli italianisti, è in realtà un metalibro, racconta le letture-chiave di una lunga vita, quelle che prima ancora di rappresentare una svolta culturale sono state un momento importante sul piano esistenziale: voci che provenivano da lontano lasciando nell'intimo una lunghissima eco. Nel momento in cui si prefigura il suo tramonto, questo è un canto di riconoscenza dal tono quasi testamentario all'oggetto libro quale segno tangibile e imprescindibile di profonda umanità. Non c'è pagina che si esaurisca in sé. Ogni pagina letta si riallaccia a una presenza, a un incontro, a un'amicizia. Del resto, si sa, per Raimondi la letteratura, non solo quella poetica e narrativa ma anche quella critica, è il luogo del dialogo per eccellenza: non c'è niente di più democratico. Ogni libro è un incontro dentro e fuori le pagine.
Seduto al tavolo della sala nel suo appartamento di via Santa Barbara, sulla collina innevata di Bologna, Raimondi non nasconde l'emozione di fronte a questa sua esile creatura; emozione che contrasta un po' con la magrezza severa del portamento ma soprattutto con il rigore razionale del suo immenso lascito critico. Il «libridinoso», lo chiamano ancora oggi gli allievi (i più impertinenti ne anagrammavano nome e cognome: «Inizia e dormo»). Eppure in lui non c'è traccia di feticismo bibliofilo, la sua biblioteca è un cumulo di volumi in ordine sparso, anzi in controllato disordine: «Mi sono affidato sempre a misure relative, con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e ritrovarli». Sono cumuli precari che iniziano in corridoio e si espandono in vere e proprie muraglie nello studio, dove neanche la scrivania viene risparmiata dall'ammasso. «Libridinoso? Era una formula maliziosa con cui si voleva indicare una persona che amava parlare di libri, ma in realtà parlando di libri io parlavo di nuove esperienze umane. Studiare un personaggio era tentare di strapparne il mistero che chiamiamo anima». Ma l'incontro con i suoi autori che viene fuori dal racconto di Raimondi è soprattutto una continua occasione umana: «Il mio rapporto con i libri è fatto anche di assenza, di desideri, di momenti sofferti e di dubbi, un rapporto che mi avvicina a una totalità imperfetta, un atto di amicizia. Anche nella letteratura quel che conta è la nozione di amicizia, perché la letteratura tutela l'integrità dell'uomo, come di un amico che accettiamo così com'è».
Il libro prende avvio da un'infanzia povera, da un padre ciabattino che preferirebbe un figlio artigiano e da una madre donna di servizio che insiste perché Ezio continui a studiare. «In realtà - dice Raimondi - io avevo due padri e quello che parlava di più era l'altro, il mio era laconico. Il caso volle che bambino in fasce venni accolto da una coppia di vicini senza figli. Mia madre andava a lavorare e mio padre pure, così io rimanevo con loro tutto il giorno e nacque un affetto di paternità e di maternità. Il Baratta, un operaio specializzato che leggeva il «Corriere» e «La Stampa», divenne per me una specie di padre elettivo che era stato corista a Milano e mi portava a teatro. Mio padre invece era una presenza segreta, vive nella mia memoria in certi gesti di signorilità taciturna, con quel toscano e quel suo vestito a festa della domenica, un abito a puntino azzurro, che contrastava con il grembiule sporco di vernice indossato gli altri giorni: aveva un volto affilato ed era privo della tipica espansività verbale bolognese. L'espansività era un dono del Baratta, che coniugava dialetto e italiano in una miscela molto inventiva».
A proposito di miscela linguistica, c'è un incrocio fatale nella vita di Raimondi: l'amicizia con Giuseppe Guglielmi, lo scrittore, il poeta, il miglior traduttore di Céline. La parte centrale del libro è occupata dall'immagine dell'amico Giuseppe che ogni domenica mattina sale verso via Santa Barbara per leggere con Ezio le traduzioni in corso. Non facili: Céline, Queneau, Baudelaire... Il sodalizio, che durerà per una vita dando frutti straordinari, è anche per Raimondi un'immersione nell'intimità della lingua: «Prima di tradurre Céline schedammo tutto Gadda per capire se poteva servirci il suo lessico, ma scoprimmo che non ne veniva nulla. La pagina di Céline era musicale, fango che si accende di improvvise accensioni celesti: da bambino mi era stato vietato di parlare in dialetto, ma traducendo Céline ripescavo dalla memoria le mescolanze di Baratta e le passavo a Guglielmi».
Bisogna tornare all'infanzia per cogliere le difficoltà di un ragazzo la cui casa è ridotta in macerie dai bombardamenti e che presto perde il padre, morto per malattia nel '45: rimane da solo con sua madre nel locale di una ex caserma, in via Mascarella, un solo locale che è cucina, studio e camera da letto insieme. Il giovane Ezio scrive la tesi in cucina, uno studio su Codro e l'umanesimo bolognese, nelle narici l'odore del soffritto. «Mia madre era una persona spericolata, che aveva combattuto nella Resistenza e incitava mio padre a metter su bottega. Quando finii le elementari, mio padre disse che non c'erano soldi per farmi studiare e fu mia madre ad assumersi l'onere della spesa, qualche volta aiutata dallo stesso Baratta».
Prima di passare dalla cucina alla biblioteca, entra in casa un volume della storia della letteratura del Flora: un regalo che la mamma, suggestionata dal battage pubblicitario mondadoriano, volle consegnare al figlio come un messale. «C'era una commistione tra libro dotto e contesto domestico, artigianale: nell'esperienza del libro c'era il vissuto diretto, l'odore della cucina. Io parlavo a mia madre delle mie ricerche, e Petrarca e Codro diventavano personaggi del nostro mondo: mia madre era quasi in grado di chiedermene lo stato di salute». Eccole là, le voci dei libri. Si potrebbe anche dire i volti dei libri. Per esempio, il sorriso malinconico di una ragazza, Sonia, che un giorno gli dice: «Tu conosci il tedesco...», e gli passa un libro intitolato Sein und Zeit . La scoperta di Heidegger, nella miseria dei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, è una rivelazione per il giovane Ezio, che lo legge a suo modo, in una chiave esistenziale, depurata del côté eroico e nietzschiano, «quasi con inconsapevole baldanza», scrive giustamente Ferratini nella postfazione al volume. Tra caso e destino arrivano altri incontri e con essi altre letture: le prime lezioni con Roberto Longhi sono una folgorazione capace di cambiare una vita e Raimondi ricorda che rinunciò a laurearsi in storia dell'arte per ragioni economiche, ma anche per timore: «Paura pazza dell'ironia di Longhi, attorno a lui c'era un mondo borghese che non mi apparteneva e rispetto al quale non mi sentivo ostile ma diverso: io ero portato alla parola discreta e non gridata. Il grido lo riservavo al gioco del calcio in cui ero soprannominato Qui-Qui, perché chiedevo sempre la palla. Io avevo due facce: quella del primo della classe in una classe di fannulloni e quella del ragazzino che giocava e cascava come tutti».
Altri incontri, altre amicizie, altri libri, altri casi, altri destini: la scoperta del Medioevo europeo attraverso il dono del grande libro di Ernst Robert Curtius proveniente da un altro amico inseparabile, Franco Serra, lo studioso di filosofia tedesca che nel '48 tornando dalla Germania portò con sé quel volume: «Ecco - disse all'amico -, è tuo». Quel libro fu una «premessa ai movimenti del cuore», commenta Raimondi. E poi l'«epifania» del saggio di Lucien Febvre su Rabelais e i problemi della miscredenza, pescato tra i tanti volumi arrivati sulla scrivania dello stesso Serra e divorato febbrilmente. «Questa è la vera storiografia», avrebbe detto Ezio opponendo quella concretezza di spazi e di oggetti e quella dimensione materiale all'idealismo stagnante della cultura italiana. Le passeggiate in bicicletta verso l'Appennino e le conversazioni sotto gli alberi approfondivano l'amicizia con Franco, nipote di Renato Serra, cui Raimondi avrebbe poi dedicato studi fondamentali.
Meno caso e più destino, forse, è un altro dono: quello che nel novembre del '68 a Baltimora Raimondi ricevette dai suoi allievi che lo salutavano prima del rientro in Italia: «Era un involto con il fiocco tricolore, conteneva il Rabelais di Michail Bachtin, credo la prima edizione occidentale, un libro che desideravo o, per meglio dire, aspettavo e che mi avrebbe aperto gli orizzonti sulla polifonia dei mondi ideali: le prospettive del mondo si moltiplicavano, le voci composite coesistevano, la lingua diventava pluralità, vitalità e dialogo». E poi Broch e Nabokov, Fuoco pallido, un romanzo travestito da filologia, una prima edizione Mondadori trovata forse alla Biblioteca circolante Brugnoli: «Lì si potevano reperire Proust, Faulkner, Virginia Woolf, Mann. Copertine povere e i commenti dei precedenti lettori, magari a contrappunto: ricordo che Conversazione in Sicilia era costellato ai margini da una serie di "porco". Anche alla Biblioteca circolante ho incontrato tanti libri non sapendo che sarebbero stati grandi eventi della mia vita».

Maestro

• Ezio Raimondi (1924), filologo e saggista, è professore emerito di Letteratura italiana a Bologna
• Il suo lavoro critico spazia dalla letteratura alla storia dell’arte, dalle origini all’Umanesimo, dal Barocco al ’900. Tra i saggi più importanti, quelli su Dante, su Tasso, su Manzoni, su Gadda e su Montale
• È stato tra i fondatori della rivista «Il Mulino». I suoi libri più recenti trattano la letteratura scientifica, la retorica, l’etica della lettura
«Corriere della Sera» - Supplemento "La Lettura" del 19 febbraio 2012

F. Agnoli, Indagine sul Cristianesimo

Recensione del libri di F. Agnoli,Indagine sul Cristianesimo. Come si costruisce una civiltà, Piemme, Milano 2010, pp. 278, Euro 17,00
di Omar Ebrahime
Se il portato e il valore, storicamente innegabili, delle radici cristiane dell'Europa sono stati più volte e da più parti pubblicamente ripudiati, come scrive il giornalista Francesco Agnoli in una delle sue ultime fatiche, è segno che - nell'attuale contesto contrassegnato sempre più dal relativismo dominante delle idee - a preoccuparsi devono essere non solo i cristiani ma tutti coloro che hanno a cuore il buon senso e il rispetto della memoria storica del nostro Continente. Il saggio, in effetti, nasce proprio a seguito di una serie impressionante di avvenimenti recenti che (dalla politica più alta fino ai prodotti più diversi dei mass-media e della cultura popolare) hanno ripetutamente divulgato un'interpretazione unilateralmente riduttiva, talvolta faziosa, se non denigratoria, della valenza storica del fatto cristiano. Come scrive infatti lo scrittore e giornalista Renato Farina nella prefazione al volume "quello che vi accingete a leggere è una specie di esplorazione di Atlantide. Il continente scomparso è la verità storica del cristianesimo" (pag. 7): il nostro tempo appare davvero attraversato da una diffusa ignoranza di massa, una sorta di nuovo 'senso comune', su interi periodi storici, che porta ad accettare indifferentemente gli slogan propalati a piene mani dalla cultura dominante di impronta laicistica, senza che - non il cattolico medio - ma persino il cittadino-medio senta il bisogno di indignarsi di fronte a una simile manipolazione evidente della realtà. Anzi, il successo indiscusso che arride a romanzi come quelli di Dan Brown o, per altro verso, alle indagini 'a tesi' di un Corrado Augias in Italia dimostra esattamente il contrario. E' quindi giunto il momento di scendere in campo per un'indagine vera, argomentando opportunamente punto per punto che cosa abbia significato la Rivelazione cristiana per l'Occidente in genere e l'Europa in particolare.
Così, nei successivi diciotto capitoli che compongono lo studio analitico vero e proprio, corredato peraltro da ampie e documentate note a piè di pagina, Agnoli affronta pazientemente - dall'imperatore Costantino alle Crociate, dall'Inquisizione alla caccia alle streghe, dalla scoperta dell'America alla contesa, filosofica e religiosa, con l'Illuminismo - tutte le pagine superficialmente 'più oscure' dipinte di volta in volta ad arte dalla storiografia protestante, poi storicista, quindi comunista o laicista, fino ai tempi più recenti con l'obiettivo neanche troppo velato di screditare la Chiesa e il suo Fondatore. Eppure, fermo restando che il Cristianesimo è anzitutto la fede nella vita eterna, gli effetti benefici per la vita terrena sono sotto gli occhi di tutti, se solo si fosse disposti ad osservarli. A beneficiare del Cristianesimo, ad esempio, è stata anzitutto la donna che ha enormemente migliorato la sua condizione sociale. In effetti, "assolutamente secondaria e marginale, relegata nelle sue stanze nel mondo greco; sotto perpetua tutela dell'uomo, padre e marito, quasi un oggetto, nel mondo romano; ostaggio della forza maschile, presso i popoli germanici; passibile di ripudio e giuridicamente inferiore nel mondo ebraico; forma inferiore di reincarnazione nell'induismo tradizionale; sottoposta alla poligamia, umiliante affermazione della sua inferiorità nel mondo islamico e animista; vittima presso diverse culture di vere e proprie mutilazioni fisiche; sottoposta al ripudio del maschio in tutte le culture antiche, la donna diventa col Cristianesimo creatura di Dio, al pari dell'uomo" (pagg. 42-43). E lo diventa, per quanto possa apparire improbabile alla mentalità femminista oggi dilagante, soprattutto in virtù dei sacramenti cristiani e del matrimonio monogamico e indissolubile. L'Autore spiega infatti che le conseguenze storiche della diffusione degli istituti cristiani (come il matrimonio), oggettivamente riscontrabili nel confronto con le società passate, furono molteplici: in primo luogo, basti considerare che quella cristiana "è l'unica religione della storia in cui il rito di iniziazione e quindi di ammissione alla comunità, cioè il battesimo, è uguale per uomini e donne" (pag. 46). Quindi, il fatto storico altrettanto inequivocabile che "condannando l'esposizione dei bambini e l'infanticidio [il Cristianesimo], limita drasticamente una pratica molto diffusa in tutto il mondo, dall'antica Roma [dove era approvata persino da uomini come Seneca e Tacito] alla Cina e all'India di oggi, e avente più spesso come vittime le femmine" (pag. 47). Infine, ma non meno importante, il fatto che il matrimonio per un cristiano (come da legge naturale) sia monogamico e indissolubile "sottintende anzitutto la dignità degli sposi: non è lecito ad un uomo avere più mogli, nel suo gineceo o nel suo harem [...] non è lecito ripudiare la moglie come un oggetto né sostituirla con delle schiave [...] e neppure, ovviamente, il contrario" (pag. 47). Tutta la storia della Chiesa, a ben vedere "tende a salvare proprio questa pari dignità: vietando ovviamente ogni diritto di vita o di morte dell'uomo sulla donna; tutelando il più possibile il libero consenso degli sposi; innalzando l'età del matrimonio della donna (che per i Romani erano sovente i dodici anni); togliendo ai genitori la possibilità di violare la libertà dei figli, e in particolare ai padri di decidere il marito della figlia; combattendo l'abitudine dei matrimoni combinati, soprattutto tra i nobili; contrastando in ogni modo i matrimoni forzati, in cui solitamente era la donna a fungere da vittima" (pag. 48). Come si vede, l'elenco è pressochè sterminato ma se non si fosse ancora convinti si può sempre confrontare la condizione odierna della donna occidentale, frutto di questo lungo processo di seminagione, con quella tuttora riscontrabile in luoghi dove il Cristianesimo non è mai penetrato o è appena presente in piccole comunità di minoranza, come l'Asia e ampie zone dell'Africa. Quali donne hanno più dignità, più libertà, più diritti?
Anche in economie emergenti e forse prossimamente persino leader mondiali come l'India o la Cina, la situazione sociale della donna appare a dir poco disperata. Nel primo caso è noto che le vedove all'interno di una cultura induista (come appunto quella indiana) non sono accettate socialmente. Un'antica usanza vuole anzi che, qualora il marito muoia prima, la moglie debba seguirlo di rimando, togliendosi la vita. E' il cosiddetto sati che ancora permane in quasi tutto il Paese e periodicamente dà luogo a veri e propri suicidi di massa. In Cina, invece, assume contorni sempre più agghiaccianti l'infanticidio femminile di Stato, autorizzato con legge dal Partito unico comunista in ottemperanza alla tristemente nota 'politica del figlio unico': una strage premeditata da far insorgere persino il laicissimo, e liberal, The Economist che è arrivato a coniare a tal proposito il significativo neologismo di 'gendercidio'. La Cina, come noto, è lo stesso Paese in cui tuttora la fede cristiana non ha diritto di cittadinanza, i missionari non possono entrare e gli stessi Vescovi locali spariscono da un giorno all'altro senza che nessuno ne conosca la fine. Ma anche se si dà uno sguardo all'Africa la situazione non cambia, come dimostrano le biografie straordinarie di Santi come Daniele Comboni (1831-1881), patrono del Sudan, a cui il Paese oggi deve letteralmente, in un modo o nell'altro, tutte le scuole e gli ospedali che sono presenti sul territorio. E la storia del Cristianesimo ha riscattato persino le prostitute (la stessa Maria Maddalena, a cui vengono intitolate Chiese e Ordini, non è forse venerata come Santa?) grazie a enti, istituti e scuole specializzate, senza dimenticare che nella grande storia della misericordia cristiana si registrano persino delle indulgenze papali per chi sposava le ex meretrici, condannate ad essere emarginate dalla società.
Oltre alle donne naturalmente vanno ricordati i bambini e l'infanzia in genere, la condizione prediletta dal Signore e indicata espressamente nel Vangelo come via fondamentale per accedere al Regno dei Cieli. Istituzioni come orfanotrofi, brefotrofi e le prime scuole popolari (inaugurate fra l'altro da Santi come San Giuseppe Calasanzio (1558-1648) e San Giovanni-Battista de La Salle (1651-1719)), aperte a tutti e gratuite, saranno solo alcuni esempi concreti dell'applicazione pratica dell'esortazione evangelica. Dopo il Cristianesimo, invece, "una concezione del bambino diversa si affermerà col comunismo e col nazismo, che per primi introdurranno non solo l'aborto ma anche l'infanticio di bambini malati o handicappati" (pag. 68). L'Autore ricorda a questo proposito che proprio "il secolo ateo per eccellenza" (pag. 77), ovvero il Novecento, messi da parte i diritti di Dio, ha conosciuto le più incredibili discriminazioni mai viste a danno dell'uomo: dai lager nazionalsocialisti, ai gulag sovietici, ai laogai cinesi ovunque sono sorti campi di concentramento, come mai prima di allora. Tutto questo, insiste Agnoli, ha qualcosa a che fare con l'espulsione reiterata del Cristianesimo dalla società che ha caratterizzato il XX secolo?
E ancora: la fine della schiavitù (iniziata nel 'cattolicissimo', e troppe volte mass-mediaticamente bistrattato, Alto Medioevo) e dei sacrifici umani (tollerati persino dalla civiltà romana), l'accettazione progressiva dei diritti della coscienza ("l'affermazione che l'uomo in quanto uomo è libero è apparsa anzitutto nella religione di Cristo" ammetterà un avversario implacabile come Georg Hegel), la liberazione da pratiche magiche, spiritistiche o pseudo-divinatorie sono altrettanti frutti storici del Cristianesimo riconosciuti anche da fior di studiosi d'impostazione laica, intellettualmente onesti. Sarà infatti proprio la fiducia nella ragione come dono di Dio e strumento capace di conoscere la verità a liberare l'umanità delle ultime residuali forme di superstizione per aprirla alla nascita della scienza moderna, alla cui origine – e non è un caso – troviamo i nomi di religiosi francescani come Roberto Grossatesta (1175-1253), poi Vescovo di Lincoln, e Ruggero Bacone (1214-1294) che, sulle orme del loro maestro San Francesco d'Assisi (1182-1226), "osservano con ammirazione la natura e la creazione, ma senza mai identificarla con Dio e immaginarla abitata di spiriti o di divinità varie" (pag. 208). Come non è un caso che la prima università del mondo nasca a Bologna, in territorio pontificio, sempre nel Medioevo, alla fine dell'XI secolo e tutte quelle a seguire, compresa "La Sapienza" di Roma (istituita nel 1303 da Bonifacio VIII) e quella "Jagellonica" di Cracovia (1364, grazie a Urbano V) vengano fondate da Papi o da ecclesiastici, direttamente o indirettamente. Infine, giacchè per i cristiani Dio non è solo Logos ma anche Caritas, "ecco che dal Cristianesimo nasce un'istituzione che nessuna altra religione ha mai avuto: l'ospedale" (pag. 210) Sconosciuto per i greci, i romani, le civiltà indù e buddista, l'ospedale è il frutto storico di quelle opere di misericordia corporale necessarie (come peraltro quelle di ordine spirituale) a guadagnarsi il Paradiso. I primi, ancora in epoca medievale, nasceranno sulle grandi strade di comunicazione e sulle vie dei pellegrinaggi (Compostela, Roma, Terrasanta anzitutto) per diffondersi poi, grazie a tanti Ordini religiosi (si pensi al Santo Spirito, ai Trinitari, ai Camilliani con il loro quarto voto di assistenza agli infermi, ai Fatebenefratelli, nome popolare dell'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio) in tutto l'Occidente. E l'Autore fa intuire che molto altro ci sarebbe da dire, se solo si volesse approfondire. Ma, anche così, restando su un piano accessibilmente divulgativo, ogni pagina è tutta da leggere, rileggere e meditare. Alla fine di questa entusiasmante avventura nelle pagine purtroppo oggi più dimenticate dalla storia perchè 'politicamente scorrette' nell'epoca del laicismo dominante, non può non venire in mente l'ineffabile citazione tratta da Fëdor Dostoevskij (1821-1881) posta in esergo al volume: "A voi negatori di Dio, non è mai venuto in mente che tutto sarebbe fango e peccato nel mondo, senza Cristo".
Postato il 21 febbraio 2012

Voegelin, La lotta per la rappresentanza nell'impero romano

di Eric Voegelin
1.

Il capitolo precedente ha messo in luce che i problemi della rappresentanza non si esauriscono nell'articolazione interna di una società nell'esistenza storica. Si è constatato che la società, nel suo complesso, rappresenta una verità trascendente e, quindi, si è dovuto integrare il concetto di rappresentanza in senso esistenziale con il concetto di rappresentanza trascendentale, A questo punto, poi, si è profilata un'ulteriore complicazione, attraverso lo sviluppo della teoria come una verità relativa all'uomo, in competizione con la verità rappresentata dalla società. Ma neppure questa complicazione è l'ultima. I tipi competitivi di verità aumentano storicamente con la comparsa del cristianesimo. Tutti e tre questi tipi lottano per il monopolio della rappresentanza esistenziale nell'impero romano. Questa lotta sarà il tema centrale di questo capitolo; ma, prima di affrontare la trattazione del tema, è necessario chiarirne alcuni aspetti terminologici e teorici generali. Questo procedimento, che consiste nel circoscrivere in antecedenza le questioni generali, ci consente di evitare le ingombranti digressioni e spiegazioni che altrimenti interromperebbero la trattazione del tema politico vero e proprio.

Dal punto di vista della terminologia è necessario distinguere tre tipi di verità. Il primo, la verità rappresentata dagli antichi imperi, lo designeremo con l'espressione "verità cosmologica". Il secondo tipo di verità, che compare con la cultura politica di Atene, lo denomineremo "verità antropologica", con l'avvertenza che l'espressione si riferisce all'intero complesso di problemi relativi alla psiche come sensorio della trascendenza. Il terzo tipo di verità, che compare con il cristianesimo, sarà denominato "verità soteriologica".

La differenziazione terminologica fra il secondo e il terzo tipo è necessaria, in sede teorica, perché il complesso platonico-aristotelico di esperienze fu allargato in un punto decisivo dal cristianesimo. La novità introdotta da quest'ultimo può essere forse meglio intesa se si prende come punto di partenza la concezione aristotelica della philia politike, dell'amore politico.(1) Codesto amore è per Aristotele la sostanza della società politica: esso consiste nella homonoia, nel consenso spirituale fra gli uomini, ed è possibile solo nella misura in cui questi uomini vivono in conformità con il nous, cioè con la parte divina del loro essere. Tutti gli uomini sono partecipi del nous, sia pure con diversi gradi di intensità, e quindi l'amore degli uomini per il loro proprio io noetico fa del nous il vincolo comune che lì salda in unità (2). L'amicizia è possibile solo nella misura in cui gli uomini sono uguali nell'amore verso il loro io noetico; i vincoli fra disuguali, invece, sono per forza deboli. A questo proposito, Aristotele formulò la tesi che l'amicizia è impossibile fra Dio e l'uomo, proprio a causa della loro radicale ineguaglianza.(3)

L'impossibilità della philia fra Dio e uomo si può considerare tipica dell'intero ambito della verità antropologica. Le esperienze che i filosofi, mistici tentarono di compendiare in una teoria dell'uomo avevano in comune la caratteristica di porre l'accento sul momento umano dell'orientamento dell'anima verso la divinità. L'anima si volge a Dio, fisso nella sua immobile trascendenza; essa raggiunge la realtà divina, ma non riceve risposta dal trascendente. L'idea cristiana di un Dio che con la grazia si curva verso l'anima è completamente estranea all'orizzonte di queste esperienze, benché, per essere esatti, leggendo Fiatone si abbia continuamente l'impressione di essere prossimi alla scoperta di questa nuova dimensione.

L'esperienza della reciprocità nel rapporto con Dio, dell'amicitia in senso tomistico, della grazia che soprannaturalizza la natura umana, costituisce la caratteristica specifica della verità cristiana.(4) La rivelazione di questa grazia nella storia, attraverso l'incarnazione del Logos in Cristo, portò a conclusione l'incerto movimento dello spirito nei filosofi mistici. L'autorità critica sopra la vecchia verità della società, che l'anima si era conquistata con la sua apertura e il suo orientamento verso la misura invisibile, viene ora confermata dalla rivelazione della misura stessa. In questo senso, quindi, si può dire che il fatto della rivelazione è il suo stesso contenuto.(5)

Quando si parla in questi termini delle esperienze dei filosofi mistici e del loro compimento nel cristianesimo, si sottintende una concezione della storia che bisogna esplicitare. Si tratta del presupposto secondo cui la sostanza della storia sono le esperienze attraverso le quali l'uomo acquisisce la consapevolezza della propria umanità e, contemporaneamente, dei propri limiti. La filosofia e il cristianesimo hanno conferito all'uomo una statura che gli consente di ricoprire con efficacia nella storia il ruolo di contemplatore razionale e di dominatore pragmatico di una natura che ha perso i suoi terrori demoniaci. Ma con altrettanta efficacia storica vengono posti limiti all'umana grandezza: il cristianesimo infatti ha ridotto la dimensione demoniaca del mondo terreno al pericolo permanente di una caduta dallo spirito - di cui l'uomo è dotato solo per grazia di Dio - nell'autonomia del proprio io, dall'amor Dei nell'amor sui. L'intuizione che l'uomo, nella sua dimensione meramente umana, senza la fides formata, è il nulla demoniaco, è stata portata nel cristianesimo a quel limite estremo di chiarezza che tradizionalmente si chiama rivelazione.

Questo presupposto sulla sostanza della storia ha sulla teoria dell'esistenza umana nella società delle conseguenze che, sotto la pressione di una civiltà secolarizzata, anche filosofi di alta levatura talvolta esitano ad accettare. Abbiamo visto, per esempio, che Karl Jaspers considera l'era dei filosofi mistici - invece dell'era cristiana - come l'epoca più importante del genere umano, trascurando l'estrema chiarezza portata dal cristianesimo sul problema della conditio humana. Anche Henri Bergson ebbe esitazioni in proposito, benché nelle sue ultime conversazioni, pubblicate postume dal Sertillanges, egli sembri accettare le conseguenze della propria filosofia della storia.(6) Questa conseguenza può riassumersi nel principio che una teoria dell'esistenza umana nella società deve operare nel contesto di esperienze che sono state differenti nel corso della storia. C'è una stretta correlazione tra la teoria dell'esistenza umana e la differenziazione storica delle esperienze attraverso le quali quest'esistenza è pervenuta alla consapevolezza di sé.

Al teorico non è consentito trascurare alcuna parte di questa esperienza, per nessuna ragione; ne gli è consentito di collocarsi in una specie di punto di Archimede, al di fuori della sostanza della storia. La teoria è costretta dalla storia a marciare nel senso del processo di differenziazione delle esperienze. Poiché il massimo di differenziazione fu raggiunto attraverso la filosofia greca e il cristianesimo, ciò significa che, in concreto, la teoria è obbligata a muoversi entro l'orizzonte storico dell'esperienza classica e cristiana. Allontanarsi da questo massimo di differenziazione equivale a quel regresso teorico che causa i vari tipi di distorsione che Fiatone ha catalogato come doxa.(7) Tutte le volte che nella storia intellettuale moderna è stata scatenata una rivolta sistematica contro il massimo di differenziazione, si è caduti nel nichilismo anticristiano, nell'idea del superuomo con le sue numerose varianti - dal superuomo progressivo di Condorcet, al superuomo positivistico di Comte, al superuomo materialistico di Marx, al superuomo dionisiaco di Nietzsche. Questo problema delle distorsioni antiteoriche sarà trattato più dettagliatamente nella seconda parte di questo libro, nello studio dei moderni movimenti politici di massa. Ai nostri scopi immediati sono sufficienti i cenni di chiarimento qui forniti a proposito del principio della correlazione fra teoria e massimo di differenziazione delle esperienze, principio al quale si ispirerà la nostra analisi.



2.

Riprendiamo dunque l'analisi seguendo ancora il modo di procedere aristotelico e partendo ancora dall'autointerpretazione della società, con l'avvertenza, tuttavia, che l'autointerpretazione include ora le interpretazioni dei teorici e dei santi.

I vari tipi di verità, i platonici typoi peri theologias, entrati in competizione tra loro, divennero oggetto di classificazione formale. La più antica classificazione di cui ci è rimasta traccia precede l'era cristiana: è contenuta nelle Antichità di Varrone, opera completata intorno al 47 a.C. Una riclassificazione fu intrapresa verso la fine dell'era romana da sant'Agostino nella sua Civitas Dei. La correlazione tra le due opere è suggerita dal fatto stesso che la classificazione di Varrone ci è pervenuta attraverso il resoconto e la critica di sant'Agostino.(8)

Secondo il resoconto agostiniano, Varrone distinse tre tipi (genera) di teologia: la mitica, la fisica e la civile. (9) Quella mitica è la teologia dei poeti, quella fisica dei filosofi, quella civile dei popoli (10) o, secondo un'altra versione, dei principes civitatis (11) La terminologia greca, come pure la formulazione in dettaglio, rivela che Varrone non fu l'inventore della classificazione, ma la trasse invece da una fonte greca, probabilmente stoica.

Sant'Agostino adottò a sua volta i tipi di Varrone con alcune modifiche. In primo luogo, egli tradusse i qualificativi greci di mitica e fisica in quelli latini di favolosa e naturale, rendendo corrente il termine di "teologia naturale" tuttora in uso.(12) In secondo luogo, egli considerò il favoloso come parte della teologia civile per il carattere cultuale della poesia drammatica intorno agli dèi.(13) Il risultato fu che i tre generi di Varrone si ridussero a due, la teologia civile e la teologia naturale, Codesta riduzione non è priva di interesse, perché vi si vede molto chiaramente, attraverso vari intermediari, l'idea di Antistene che "secondo nomos ci sono parecchi dèi, mentre secondo physis ce n'è uno solo". In opposizione a physis, nomos abbraccia la cultura, sia poetica che -politica, in quanto opera dell'uomo; di qui quell'accentuazione dell'origine umana degli dèi pagani che deve aver sedotto sant'Agostino.(14) Infine, poiché il cristianesimo e la sua verità soprannaturale dovevano essere inclusi nei generi della teologia, ne risultò ancora una divisione tripartita di tipi, rispettivamente denominati teologia civile, teologia naturale e teologia soprannaturale.



3.

Le classificazioni sorsero in margine alla lotta per la rappresentanza, recando in sé la carica e la tensione dell'autoconsapevolezza e dell'opposizione. L'analisi di questa carica e di questa tensione è bene iniziarla riflettendo su un aspetto singolare della Civitas Dei, Il libro, dal punto di vista della sua funzione politica, fu un livre de circonstance. La conquista di Roma per mano di Alarico nel 410 d.C. aveva sconvolto la popolazione pagana dell'impero; la caduta di Roma era considerata una punizione degli dèi per l'abbandono del loro culto. La pericolosa ondata di risentimento sembrò richiedere un'organica critica e confutazione della teologia pagana in genere e delle argomentazioni contro il cristianesimo in particolare. La soluzione proposta da Agostino risultò singolare, perché assunse la forma di un attacco critico alle Antichità di Varrone, un libro che era stato scritto circa cinquecent'anni prima allo scopo di riaccendere nei romani la passione per la loro religione di stato. Questa passione non era certo cresciuta di molto dal tempo di Varrone e i non romani non erano certo più zelanti dei romani stessi. All'epoca di sant'Agostino, nella stragrande maggioranza, i pagani dell'impero seguivano i misteri di Eleusi, di Iside, di Attis e di Mitra, piuttosto che le divinità cultuali della Roma repubblicana. Ma, nonostante ciò, sant'Agostino, nella sua opera, accenna appena ai misteri, per sottomettere a critica dettagliata la teologia di stato, nei libri 6-7.

Ma, per capire questo comportamento apparentemente strano è inutile ricorrere alle statistiche dell'affiliazione religiosa: bisogna invece rifarsi alla questione della rappresentanza pubblica della verità trascendente. I fedeli della religione romana erano certamente un gruppo relativamente piccolo, ma il culto romano era rimasto il culto dello stato anche nella seconda metà del secolo quarto. Né Costantino né i suoi successori cristiani avevano ritenuto opportuno rinunciare alla funzione di pontifex maximus di Roma. Certo, sotto i figli di Costantino serie restrizioni furono introdotte in fatto di libertà dei culti pagani ma l'attacco decisivo venne soltanto sotto Teodosio, con il famoso editto del 380, che fece del cristianesimo ortodosso il credo obbligatorio di tutti i sudditi dell'impero, qualificò come stolti tutti i dissidenti e minacciò su di essi la collera eterna di Dio e la punizione dell'imperatore. (15) Prima di questa data, la legislazione imperiale in questioni religiose era stata applicata in maniera sporadica, com'era naturale, dato il carattere prevalentemente pagano dell'ambiente. D'altra parte, a giudicare dal susseguirsi delle norme legislative in argomento, tale applicazione dev'essere stata piuttosto blanda anche dopo il 380, In ogni caso, nella città di Roma, gli editti erano stati tranquillamente trascurati e il culto ufficiale era rimasto pagano. A questo punto, però, si portò l'attacco proprio contro Roma e il suo culto ufficiale. Nel 382 Graziano, imperatore di Occidente, rinunciò al titolo di ponfifex maximus, sollevando cosi il governo dalla responsabilità dei sacrifici a Roma; nello stesso tempo vennero anche abolite le dotazioni per il culto, sicché cessarono i costosi sacrifici e le costose celebrazioni. Inoltre, cosa ancora più importante, venne rimosso l'altare della Victoria dalla sala delle assemblee del Senato. Gli dèi di Roma non avevano più rappresentanza neppure nella capitale dell'impero.(16)

Con molta soddisfazione dei pagani, Graziano fu assassinato nel 383, la città si trovò sotto la minaccia dell'antimperatore Massimo e, a causa dello scarso raccolto, si profilò lo spettro della fame. Evidentemente, gli dei manifestavano in questo modo la loro collera e perciò l'occasione parve propizia per chiedere al giovane Valentiniano II l'abrogazione di quelle misure e, in particolare, il ripristino dell'altare della Victoria. La petizione del partito pagano fu consegnata in Senato all'imperatore nel 384 da Simmaco; ma il raccolto del 384 risultò eccellente e sant'Ambrogio, che perorava la causa cristiana, ne trasse un ottimo argomento.(17)

Nella sua perorazione Simmaco fece una nobile difesa della tradizione romana, fondata sull'antico principio del do ut des: affermò che l'abbandono del culto avrebbe portato al disastro, che in particolare non si doveva vilipendere la Victoria che aveva recato grandi benefici all'impero;(18) sostenne infine, con accento tollerante, che a tutti doveva essere consentito di onorare a proprio modo la divinità comune, (19) Sant'Ambrogio, nella sua replica, poté facilmente sbarazzarsi, come abbiamo accennato, del principio del do ut des (20) e fece rilevare che la nobile tolleranza di Simmaco appariva meno commovente se si poneva mente al fatto che, in pratica, essa comportava l'obbligo per i senatori cristiani di partecipare ai sacrifici alla Victoria.(21) Ma l'argomentazione decisiva era contenuta nella frase in cui era enunciato il principio della rappresentanza: "Mentre tutti gli uomini che sono sudditi del dominio romano servono (militare) voi imperatori e principi della terra, voi stessi servite (militare) Iddio onnipotente e la santa fede".(22) L'enunciazione sembra a prima vista identica a quella mongola dell'Ordine di Dio esaminata nel precedente capitolo, ma in realtà ne è l'inversione. La formulazione di sant'Ambrogio non giustifica la monarchia imperiale richiamandosi al potere monarchico di Dio, benché anche questo problema fosse divenuto acuto nell'impero romano, come vedremo più innanzi. In quella formulazione non si parla di dominio, ma di servizio. I sudditi servono il principe terreno come loro rappresentante esistenziale, e sant'Ambrogio non si fa illusioni sulla fonte del potere imperiale; sono le legioni che fanno la Victoria, egli annota sprezzantemente, non la Victoria che fa l'impero.(23) La società politica nell'esistenza storica comincia a mostrare tracce di temporalismo e a staccarsi dall'ordine spirituale. Al di sopra di questa sfera temporale del servizio reso dai sudditi si erge l'imperatore che serve soltanto Dio. L'appello di sant'Ambrogio non è rivolto all'imperatore in quanto tale, ma al cristiano cui tocchi in sorte di occupare quel soglio. Sant'Ambrogio ammonisce il cristiano che diventi imperatore a non prendere pretesto dall'ignoranza per lasciare che le cose vadano per la loro china; se anche non si mostra, come dovrebbe, effettivamente zelante nella sua fede, deve almeno rifiutare il suo assenso all'idolatria e ai culti pagani.(24)

Un imperatore cristiano sa che deve onorare solo l'altare di Cristo e che "la voce del nostro imperatore dev'essere l'eco di quella di Cristo".(25) Sant'Ambrogio, sia pure in termini un po' velati, non esita a minacciare di scomunica l'imperatore qualora accogliesse la richiesta del Senato.(26) La verità di Cristo non può essere rappresentata dall’imperium mundi, ma soltanto dal servizio di Dio.

Questi sono gli inizi di una concezione teocratica del potere in senso stretto, nella quale "teocratica" non implica l'esercizio del potere da parte del clero ma il riconoscimento della verità di Dio da parte di chi detiene il potere.(27) Questa concezione giunse a completa fioritura nella generazione successiva, con l'immagine agostiniana dell'imperator felix nella Civitas Dei (5,24-26). La felicità dell'imperatore non si può misurare in base ai suoi successi esterni di governo; sant'Agostino, anzi, si fa un dovere di segnalare i successi degli imperatori pagani e le sventure e morti violente di alcuni imperatori cristiani; la vera felicità dell'imperatore si può misurare solo dalla sua condotta cristiana sul trono, I capitoli sull'imperator felix sono il primo "Specchio del Principe"; essi sono la fonte della letteratura medievale ed hanno influenzato in maniera decisiva la teoria e la prassi del potere in Occidente, da quando Carlo Magno ne fece il proprio manuale,

Nella controversia relativa all'altare della Victoria, sant'Ambrogio ebbe la meglio. Negli anni successivi vennero introdotte altre restrizioni. Nel 391 un editto di Teodosio proibì tutte le cerimonie pagane nella città di Roma; (28) un editto dei suoi figli, nel 396, soppresse le residue immunità degli ierofanti e sacerdoti pagani; (29) un editto per tutta l'Italia del 407 soppresse ogni stanziamento per gli epula sacra e i giochi rituali, ordinò la rimozione delle statue dai templi, la distruzione degli altari e la destinazione dei templi ad usum publicum.(30) Quando nel 410 Roma cadde nelle mani degli invasori goti, il culto di Roma era ancora un problema vivo per le vittime colpite dalle recenti leggi antipagane e la caduta della città poté facilmente venire presentata, a fini di propaganda, come una vendetta degli dèi per le offese recate alla religione civile di Roma.




4.

A una domanda abbiamo risposto, ma intanto se ne presenta un'altra. I cristiani, in tutta questa vicenda non si preoccupavano affatto della salvezza delle anime dei pagani: erano impegnati in una lotta politica contro il culto pubblico dell'impero. Certo, l'appello di sant'Ambrogio era rivolto a cristiani che si trovassero sul trono e non ci possono essere dubbi sulla sincerità delle sue intenzioni, sol che si ricordi il suo scontro con Teodosio nel 390 a causa del massacro di Tessalonica. Tuttavia, quando l'imperatore è cristiano, finisce col mettere i pagani nella stessa condizione in cui si trovavano i cristiani sotto gli imperatori pagani. È strano che tanto sant'Ambrogio quanto sant'Agostino, pur essendosi impegnati con ogni loro energia nella lotta per la rappresentanza esistenziale del cristianesimo, abbiano ignorato quasi totalmente questo problema. Sembra quasi che per essi tutto si riducesse a contrapporre la verità del cristianesimo alla non verità del paganesimo. Ciò non significa che essi fossero del tutto ignari del problema esistenziale implicito in questa vertenza; al contrario, la Civitas Dei ha il suo fascino particolare proprio perché sant'Agostino, pur non comprendendo il problema esistenziale del paganesimo, si mostra tuttavia inquieto, perché ha l'impressione di trovarsi di fronte a qualcosa che sfugge alla sua comprensione. Il suo atteggiamento nei confronti della teologia civile di Varrone ha molti punti in comune con quello di un intellettuale illuminista nei confronti del cristianesimo; egli semplicemente non riusciva a capire come una persona intelligente potesse continuare a credere a simili insensatezze. Perciò cercò di aggirare la difficoltà, muovendo dal presupposto che Varrone, filosofo stoico, non credesse affatto nelle divinità romane ma che, sotto la parvenza di un tono rispettoso, cercasse in realtà di esporle al ridicolo.(31) Ma, per capire quanto sfuggiva a sant'Agostino, bisogna rifarsi ai testi di Varrone e del suo amico Cicerone.

Sant'Agostino stesso ci informa con precisione del punto oscuro che lo sconcertava. Varrone, nelle sue Antichità, si era occupato prima delle "cose umane" e solo in un secondo tempo delle "cose divine" di Roma.(32) Prima, la città deve esistere; poi, può procedere all'istituzione dei suoi culti. "Come il pittore è anteriore alla pittura e l'architetto all'edificio, così le città sono anteriori alle istituzioni delle città" (33). L'affermazione varroniana che gli dèi sono istituiti dalla società politica, irritava sant'Agostino, che non riusciva a comprenderla. Al contrario, egli sosteneva, "la vera religione non è istituita dalla città terrena", ma l'ispiratore della vera religione è il vero Dio, che "ha istituito la città celeste".(34) L'atteggiamento di Varrone sembrava poi particolarmente degno di biasimo per il fatto che le cose umane alle quali dava la precedenza non erano neppure universalmente umane, ma specificamente romane.(35) Inoltre, sant'Agostino dubitava della sincerità di Varrone, perché questi ammetteva che, se avesse avuto l'intenzione di trattare in maniera esauriente il problema della natura degli dèi, avrebbe dovuto cominciare l'opera trattando prima delle cose divine,(36) e inoltre sosteneva che in materia di religione ci sono molte cose vere che la gente non dovrebbe conoscere e molte false che la gente non dovrebbe sospettare.(37)

Ciò che sant'Agostino non riusciva a comprendere era la compattezza dell'esperienza romana, l'inseparabile convivenza di dèi e uomini nella concretezza storica della civitas, la simultaneità di istituzione, umana e divina, di un ordine sociale. Per lui, l'ordine dell'esistenza umana era già diviso tra la civitas terrena della storia profana e la civitas coelestis di istituzione divina. D'altra parte, bisogna riconoscere che le formulazioni in apparenza un po' grossolane dell'enciclopedico Varrone non facilitavano certo la comprensione. Cicerone, scrittore molto più preciso, espresse le medesime convinzioni dell'amico Varrone, ma con maggiore compiutezza concettuale, attraverso i protagonisti della sua opera De natura deorum, soprattutto attraverso il princeps civis e pontifex. Nel dibattito intorno all'esistenza degli dèi i punti di vista del filosofo si oppongono a quelli del leader sociale. Molto acutamente Cicerone indica le diverse fonti dell'autorità quando contrappone il princeps philosophiae Socrate (38) al princeps civis Cotta; (39) l’auctoritas philosophi si scontra con l'auctoritas majorum. (40) Il dignitario del culto romano non è incline a dubitare degli dèi immortali e della venerazione ad essi dovuta, checché possano dirne gli altri: in materia di religione egli segue i pontefici che lo hanno preceduto nella carica e non i filosofi greci. Gli auspici di Remolo e i riti di Numa posero le fondamenta dello stato che non sarebbe mai potuto pervenire alla grandezza raggiunta se i riti non avessero conciliato gli immortali in suo favore. (41) Egli accetta gli dèi sull'autorità degli antenati, ma è anche disposto ad ascoltare le opinioni degli altri e, non senza ironia, invita Balbo a fornire le ragioni, rationem, che come filosofo deve senz'altro avere, delle sue credenze religiose, mentre egli, in quanto pontefice, è costretto a credere senza ragione agli antenati.(42)

Le esposizioni di Varrone e di Cicerone sono documenti preziosi per lo studioso. I pensatori romani vivono il loro mito politico, ma nello stesso tempo ne hanno acquisito consapevolezza attraverso il contatto con la filosofia greca. Questo contatto non ha intaccato la solidità dei loro sentimenti: ha solo fornito ad essi i mezzi per una presa di coscienza della loro posizione. La presentazione che di solito si fa di Cicerone finisce col lasciare in ombra il fatto che, nella sua opera, si può trovare ben più di una semplice variante dello stoicismo: qualcosa che nessuna fonte greca può darci, cioè l'arcaica esperienza dell'ordine sociale prima che si dissolvesse nell'esperienza dei filosofi mistici. In realtà, le fonti greche non ci permettono mai di cogliere questo strato arcaico, perché i più antichi documenti letterari, i poemi di Omero e di Esiodo, sono già rielaborazioni, splendidamente libere, di materiale mitico - nel caso di Esiodo anche con una consapevole opposizione fra la verità trovata da lui stesso come individuo e la falsità, lo pseudos, del vecchio mito. Fu forse lo scompiglio provocato dall'invasione dorica a infrangere la compattezza dell'esistenza sociale greca, mentre Roma non subì mai uno choc analogo. Roma, infatti, conservò sempre un carattere di sopravvivenza arcaica nel contesto della civiltà ellenistica del Mediterraneo e, ancor più, con la sua crescente cristianizzazione: si potrebbe paragonare la sua situazione al ruolo attuale del Giappone ili un contesto culturale e civile dominato da idee occidentali.

I romani come Cicerone sì resero ben conto del problema. Per esempio, nel De re publica, Cicerone contrappose esplicitamente lo stile romano di trattare le questioni di ordine politico a quello greco. Nel dibattito sul migliore ordine politico (status civitatis) c'è un altro princeps civis, Scipione, che prende posizione contro Socrate. Scipione si rifiuta di discutere del migliore ordine alla maniera del Socrate platonico; invece di presentare al suo uditorio un ordine "fittizio" egli fa il racconto delle origini di Roma.(43) L'ordine di Roma è superiore a qualsiasi altro ordine: questo dogma è posto categoricamente alla base del dibattito.(44) La discussione può liberamente spaziare su tutti i temi del sapere greco, ma questo sapere ha importanza solo nella misura in cui può essere messo in rapporto di utilità con l'ordine romano. Certo, il massimo onore spetta all'uomo che può integrare il "sapere straniero" nelle sue costumanze avite; ma, se è necessario operare una scelta fra i due modi di vita, la vita civilis dello statista è preferibile alla vita quieta del saggio.(45).

Il pensatore che può parlare della filosofia come di un "sapere straniero" - da rispettare ma da considerare solo come una spezia che perfeziona una superiorità già data per scontata in partenza - mostra chiaramente di non aver capito né la rivoluzione spirituale espressa dalla filosofìa, né la sua pretesa all'universalità nei confronti dell'uomo. Il peculiare atteggiamento di Cicerone di fronte alla filosofia greca - un misto di rispetto e di divertito dispregio - mostra che la verità della teoria poteva sì essere concepita come un allargamento dell'orizzonte intellettuale e morale, ma non poteva avere alcun significato esistenziale per un romano. Roma era la Roma dei suoi dèi in ogni momento e in ogni aspetto della vita quotidiana; partecipare concretamente alla rivoluzione spirituale della filosofia significava riconoscere che la Roma degli avi era finita e che stava nascendo un nuovo ordine che avrebbe assorbito i romani, così come i greci, volenti o nolenti, erano stati assorbiti nelle strutture imperiali di Alessandro, dei Diadochi e finalmente di Roma. Solo che la Roma di Cicerone e di Cesare non era ancora al punto in cui si trovava l'Atene del secolo quarto a.C., che aveva generato Platone e Aristotele. La sostanza romana preservò intatto il proprio vigore per molto tempo ancora, fino al periodo imperiale e, di fatto, si andò esaurendo soltanto con i disordini del secolo terzo d.C, Solo allora Roma si lasciò assorbire nell'impero che essa stessa aveva creato e solo allora la lotta fra i vari tipi di verità (filosofie, culti orientali e cristianesimo) entrò nella fase cruciale, in cui il rappresentante esistenziale, l'imperatore, doveva decidere quale verità trascendentale intendeva rappresentare, dato che il mito di Roma aveva ormai perduto la sua forza ordinatrice. Per Cicerone problemi siffatti non esistevano e quando li incontrò in quello che egli chiamava "sapere straniero", ne annullò l'inesorabile minaccia: all'idea stoica che ogni uomo ha due patrie, la polis nella quale è nato e la cosmopolis, egli abilmente contrappose l'idea che ogni uomo ha due patrie, la contrada nella quale è nato (per Cicerone la sua Arpinum) e Roma (46). La cosmopolis dei filosofi riceveva un'esistenza storica; era l'imperium Romanorum (47).



5.

Il vigore della sua arcaica compattezza consentì a Roma di sopravvivere nella lotta per l'impero. Questa fortunata sopravvivenza, tuttavia, solleva uno dei grandi interrogativi della storia: come mai le istituzioni di Roma repubblicana - che in sé non erano più idonee all'organizzazione di un impero di quanto lo fossero le istituzioni di Atene o di qualsiasi altra polis greca - poterono adattarsi a tal punto alla nuova realtà che un imperatore poté emergere da esse come rappresentante esistenziale dell'orbis terrarum mediterraneo? Il processo di trasformazione è oscuro in molti aspetti e tale rimarrà per sempre, data la scarsità delle tonti. Tuttavia, l'accurata analisi che due generazioni di studiosi hanno svolto sugli scarsi materiali disponibili, ha permesso di ricostruire in maniera coerente quel processo. Se ne può trovare un esempio nell'acuto saggio "Sul principato" di Anton von Premerstein.(48)

Il maggiore sforzo di adattamento al potere imperiale non fu affatto sostenuto dalla costituzione repubblicana. Certo, il numero dei senatori poteva aumentare mediante nomine di provinciali, perché il Senato rappresentasse meglio l'impero (e questa strada era già stata seguita da Cesare); inoltre, si poteva concedere la cittadinanza romana a tutta l'Italia e poi ad altre provincie. Ma uno sviluppo della rappresentanza per via di elezioni su base popolare dalle provincie dell'impero era impossibile a causa di quella rigidezza costituzionale che Roma aveva in comune con le altre poleis. L'adattamento doveva far forza su istituzioni sociali estranee all'ambito costituzionale vero e proprio; l'istituzione più importante che al termine di questo sviluppo portò alla carica imperiale fu quella del princeps civis o princeps civitatis, del leader sociale e politico.

Nella primitiva storia repubblicana col termine di "principe" si designava qualsiasi cittadino autorevole. Alla base dell'istituzione c'era il patronato, un rapporto creato da favori vari - aiuto politico, prestiti, doni personali, ecc. - fra un uomo di importanza sociale e un uomo di rango sociale inferiore bisognoso di tali favori. Concedendo e accettando tali favori si instaurava tra i due uomini un vincolo sacro protetto dagli dèi; colui che accettava, il cliente, diveniva seguace del patrono e il loro rapporto era retto dalla fides, la fedeltà.

Ovviamente, data la natura del rapporto, il patrono doveva essere un uomo ricco e di un certo livello sociale. Una larga clientela era privilegio dei membri della nobiltà patrizio-plebea e i più importanti senatori di rango consolare erano anche i patroni più potenti. Codesti patroni più elevati nei ranghi ufficiali erano i principes civitatis; e uno di essi poteva diventare un leader di indiscussa superiorità se apparteneva ad una delle antiche famiglie patrizie e occupava la carica di princeps senatus e magari anche quella di pontifex maximus. La società romana si presentava così caratterizzata da una complicata trama di rapporti di subordinazione personale - gerarchicamente ordinata (in quanto i clienti potevano a loro volta essere patroni di una numerosa clientela) - e organizzata concorrenzialmente (in quanto i principes rivaleggiavano fra loro per la conquista delle alte cariche e del potere politico in genere).(49) In sostanza, la politica romana nel periodo tardo repubblicano fu caratterizzata dalla lotta per il potere fra ricchi leaders di partiti personali fondati sul rapporto di patronato. Fra codesti leaders erano anche possibili degli accordi, le cosiddette amicitiae; e la rottura di siffatti accordi apriva delle vere e proprie ostilità (inimicitiae), precedute da accuse reciproche (altercatio), che nel periodo delle guerre civili assunsero la forma di opuscoli propagandistici destinati al pubblico, nei quali era minutamente esposta la riprovevole condotta dell'avversario. Siffatte inimicizie si distinguevano dalle guerre vere e proprie, dal bellum justum del popolo romano contro un nemico pubblico. L'ultima guerra di Ottaviano contro Antonio e Cleopatra, per esempio, fu con gran cura giuridicamente impostata come una vera guerra contro Cleopatra e come una inimicitia contro Antonio e la sua clientela romana.(50)

La trasformazione del principato originario in poche grandi organizzazioni di partito fu determinata dall'espansione militare di Roma e dai mutamenti sociali che ne derivarono. Le guerre del secolo terzo, con le conquiste in Grecia, Africa e Spagna, avevano sollevato un complesso problema logistico. I territori d'oltremare non potevano essere conquistati e presidiati da eserciti che si dovevano rinnovare ogni anno in base al criterio della leva annua: risultò impossibile trasportare in patria ogni anno i vecchi contingenti e sostituirli con contingenti nuovi. Era fatale che i soldati in provincia diventassero soldati di professione, con dieci e venti anni di servizio. I veterani reduci costituivano una massa di persone senza casa, di cui bisognava prendersi cura con distribuzione di terre, con iniziative di colonizzazione o col permesso di risiedere entro la città di Roma e di goderne i relativi vantaggi. Per ottenere questi benefici i veterani dovevano contare sui loro comandanti militari che erano principes, col risultato che interi eserciti divennero parte della clientela di un princeps. L'aspetto più significativo dell'evoluzione della Roma tardo repubblicana è che la disciplina di classe della nobiltà resistette per un intero secolo prima che i nuovi potenti leaders dei partiti si volgessero contro il Senato e trasformassero la vita politica di Roma in una loro contesa privata. Inoltre, con l'enorme allargamento delle clientele ad opera di forze armate disponibili per la guerra e per le lotte di piazza, risultò necessario formalizzare questo vecchio rapporto informale: speciali giuramenti legarono il cliente al suo patrono coi vincoli della fides. Su questo punto le fonti sono estremamente scarse, ma è possibile trovar tracce di siffatti giuramenti, in sempre maggior numero e varietà, dopo il 100 a.C. (51) Va infine notato che la struttura del sistema venne determinata anche dal carattere ereditario della clientela. L'ereditarietà della clientela fu un fattore di considerevole importanza nel corso delle guerre civili del primo secolo a.C. Per esempio, agli inizi della sua lotta contro Antonio, Ottaviano ebbe il grande vantaggio di disporre delle colonie dei veterani di Cesare in Campania, divenute sua clientela in quanto erede di Cesare. (52) E la sistemazione delle clientele militari ottenute in eredità costituì anch'essa un pericolo di guerre. I pompeiani, per esempio, dovettero essere combattuti in Spagna, perché Pompeo aveva istituito colonie di suoi soldati nella penisola iberica.(53)

L'instaurazione del principato, quindi, si può considerare come una evoluzione del patronato - che tuttavia, nella sua forma più modesta, continuò a esistere a lungo anche nel periodo imperiale. Quando il patrono era un princeps civis, la clientela diventava strumento di potere politico e includendovi anche i veterani dell'esercito divenne strumento di potere militare in competizione con le forze armate costituzionali. Influenza politica, ricchezza e clientela militare si integrarono e si potenziarono a vicenda, in quanto l'influenza politica assicurava l'autorità militare necessaria, per la conquista di provincie e per il loro lucroso sfruttamento, sfruttamento necessario per distribuire bottino e terre alla clientela, clientela necessaria per conseguire l'influenza politica. Quando i competitori si ridussero a pochi leaders di grandi partiti, si giunse alla rottura della legalità costituzionale, specialmente quando senatori e magistrati si trovarono divisi fra le clientele dei vari competitori. Nella vita di tutti i grandi leaders di partito giunse il momento di decidere se oltrepassare o no il limite fra la legalità e l'illegalità: la più famosa di queste decisioni è il passaggio del Rubicone da parte di Cesare.(54) Ottaviano, politico freddo e calcolatore, preferì condurre la sua ultima guerra contro Antonio come una inimicitia, perché dichiarando Antonio nemico pubblico avrebbe provocato una eguale dichiarazione ai propri danni, dal momento che entrambi i consoli e parte del Senato patteggiavano per Antonio. Se si fossero dichiarati vicendevolmente nemici pubblici, Roma si sarebbe come spaccata in due stati ostili, in guerra fra di loro e questo sconvolgimento della Repubblica fin nei suoi fondamenti costituzionali avrebbe avuto le stesse disastrose conseguenze dell’analoga lotta a morte fra Cesare e Pompeo - con l'assassinio del leader vittorioso Panno successivo al suo trionfo, per mano di repubblicani nostalgici. Il principato, così, evolvette attraverso la riduzione dei grandi principes-patroni ai tre del triumvirato, poi ad Antonio e Ottaviano e infine alla monopolizzazione della posizione da parte del vincitore di Azio.(55)

L'ordine rappresentativo di Roma, dopo Azio, fu un'abile combinazione della vecchia costituzione repubblicana e della nuova rappresentanza esistenziale del popolo dell'impero da parte del princeps. Il rapporto diretto fra il princeps e il popolo fu garantito estendendo il giuramento clientelare al popolo nella sua totalità. Nel 32 a.C., Ottaviano, prima di intraprendere la lotta contro Antonio, pretese tale giuramento dall'Italia e dalle province occidentali (la cosiddetta congiura di Occidente): si trattò di un giuramento di lealtà reso a Ottaviano pro partibus suis, cioè a lui in quanto leader di un partito.(56) Per l'estensione del giuramento alle provincie orientali, dopo Azio, non abbiamo testimonianze dirette.(57) Comunque, il giuramento al princeps nella forma del 32 a.C. divenne una istituzione permanente. Esso fu prestato anche ai successori di Augusto in occasione della loro ascesa al potere (58) e, a partire da Caio Caligola, fu ripetuto annualmente.(59) Sulla base del patronato, l'articolazione di un gruppo costituito dal leader e dai suoi seguaci, si era andata via via allargando fino ad assumere la forma della rappresentanza imperiale.



6.

Il principato che, sulla base originaria del patronato, finì poi col diventare principato imperiale, fu l'istituzione che fece del nuovo capo il rappresentante esistenziale del vasto agglomerato di territori e popoli conquistati. Naturalmente, lo strumento era fragile. La sua efficacia dipendeva dall'esperienza del rapporto patrono-cliente come vincolo sacro nel senso romano. Il nuovo Augusto si rese conto del problema e la sua legislazione per la riforma morale e religiosa dev'essere interpretata, almeno in parte, come un tentativo di rafforzamento dei vincoli sacramentali che si erano andati indebolendo anche tra i Romani già all'epoca delle Antichità di Varrone. Nei confronti della enorme popolazione orientale, l'impresa era disperata, soprattutto perché gli orientali affluivano in numero sempre crescente a Roma e nonostante tutti i divieti manifestavano attaccamento ai loro culti non romani.

L'impresa risultò ancor più disperata, quando gli imperatori stessi non furono più romani, quando alla dinastia Giulia succedettero dalle provincie i Flavii, gli spagnoli, i siri e gli illirici.

Il rimedio alla scarsa sacralità della posizione dell'imperatore fu trovato solo gradualmente, dopo una completa serie di tentativi e d'insuccessi. La divinizzazione dell'imperatore, di tipo ellenistico, risultò insufficiente. Si doveva anche precisare quale potenza divina egli rappresentasse fra le innumerevoli che erano oggetto di culto nell'ambito dell'impeto. Sotto la pressione di questo problema la cultura religiosa del Mediterraneo romano subì quel processo che normalmente si definisce sincretismo o theokrasia, commistione di divinità. Non fu un fenomeno specifico di quel tempo e di quell'ambiente; in sostanza, si trattò dello stesso processo che avevano già conosciuto, in epoche diverse, gli imperi del vicino Oriente, del processo cioè per cui le molteplici divinità oggetto di culti locali, entrando nell'ambito di un'area politicamente unificata venivano reinterpretate quali aspetti di un unico dio, che diventava così il dio dell'impero. Nelle condizioni particolari dell'area romana, caratterizzata dalla compresenza di civiltà diverse, i tentativi di individuazione di quest'unico dio non furono facili. Da una parte, questo dio non poteva essere un'astrazione concettuale, ma doveva avere un rapporto afferrabile con uno o più divinità che già fossero concretamente venerate come divinità maggiori; dall'altra, se il rapporto con una divinità concretamente esistente fosse diventato troppo stretto, la sua superiorità sulle altre divinità particolari sarebbe stata compromessa. Il tentativo di Eliogabalo (218-222) di introdurre a Roma il Baal di Emesa come unico dio fallì. Un Cesare circonciso che sposava una vergine Vestale allo scopo di simboleggiare l'unione tra Baal e Tank ripugnava troppo alla tradizione romana. Egli fu assassinato dai suoi pretoriani. L'illirico Aureliano (270-275) compì un tentativo analogo, ma con più successo, quando proclamò il Sol Invictus, un dio sole dai connotati non troppo precisi, come unico dio dell'impero e se stesso come suo discendente e rappresentante. Con qualche variante introdotta sotto Diocleziano (284-305), questo sistema durò fino al 313 d.C.

Il fatto che il culto dell'impero fosse oggetto di sperimentazione non deve, tuttavia, indurci a pensare che mancasse un fondo di autentica religiosità in tutti gli esperimenti allora tentati. Spiritualmente, l'"unideismo" tardo romano si era talmente avvicinato al cristianesimo da rendere facilissimo, quasi ovvio, il passo della conversione. Ci è stata tramandata la preghiera pronunciata da Licinio prima della sua battaglia contro Massimino Daza nel 313. Un angelo apparve a Licinio nella notte e gli assicurò che avrebbe vinto se lui e il suo esercito avessero pronunciato questa preghiera:



Sommo Dio, noi ti preghiamo,

santo Dio, noi ti preghiamo.

Ogni giustizia noi affidiamo a te,

la nostra felicità noi affidiamo a te,

il nostro regno noi affidiamo a te.

Per te noi viviamo, per te noi siamo vittoriosi e fortunati.

Sommo Dio, santo Dio, ascolta le nostre preghiere.

Noi alziamo le nostre braccia verso di te,

ascoltaci, oh santo, sommo Dio.



La vicenda e la preghiera ci sono state tramandate da Lattanzio,(60) il quale sostiene pure che la vittoria fu dovuta a una conversione simile a quella di Costantino dell'anno precedente. Che Licinio fosse sinceramente cristiano è cosa almeno dubbia, se si riflette alla politica anticristiana da lui seguita negli anni successivi, ma la preghiera, che avrebbe potuto benissimo essere pronunciata dal suo rivale pagano Massimino, parve a Lattanzio una professione di fede cristiana.

Il significato preciso degli eventi che portarono alla sorprendente svolta del 311-313, assicurando libertà al cristianesimo, è ancora oggetto di discussione. Sembra tuttavia che la recente interpretazione del teologo olandese Hendrik Berkhof sia riuscita a chiarire la misteriosa vicenda, almeno per quanto lo consentono le fonti.(61) La sopravvivenza dei cristiani sotto le violente persecuzioni sembra abbia convinto i reggenti Galerio, Licinio e Costantino che il Dio cristiano era abbastanza potente da proteggere i suoi fedeli nelle avversità: che esso, quindi, era una realtà da trattare con cautela.

L'editto di Galerio del 311 spiegava che, per effetto delle persecuzioni, i cristiani ne’ adempivano ai loro obblighi cultuali verso gli dèi ufficiali, ne’ veneravano nella dovuta forma il proprio Dio.(62) Sembra che questa constatazione abbia determinato l'improvviso mutamento di politica. Il potente Dio dei cristiani, se non era venerato dai suoi fedeli, poteva vendicarsi e aggravare le difficoltà dei governanti che ne impedivano la venerazione. Era il saldo e buon principio romano del do ut des.(63) A compenso della nuova libertà loro concessa, l'editto imponeva ai cristiani di pregare per l'imperatore, per il bene pubblico e per il loro proprio bene.(64) Non si trattò, dunque, di una conversione al cristianesimo, ma piuttosto di un'inclusione del Dio cristiano nel sistema imperiale delle divinità.(65) L'editto di Licinio, del 313, affermava che la precedente politica anticristiana era stata modificata "affinchè tutto ciò che di divinitas esiste nel mondo celeste sia propizio a noi e a tutti coloro che sono da noi governati".(66) Il curioso termine di divinitas non era inconciliabile col politeismo ufficiale e con il riconoscimento del Summus Deus della religione dell'impero e, nello stesso tempo, presentava accenti abbastanza monoteistici da soddisfare i cristiani. La nebulosità di significato del termine era probabilmente intenzionale; sembra di potervi riconoscere l'abile mano di Costantino che più tardi, nel dibattito cristologico, insisterà sull'espressione, assolutamente priva di significato, di homoousios.



7.

Ma i problemi della teologia imperiale non potevano essere risolti per mezzo di un compromesso linguistico. La persecuzione contro i cristiani aveva un suo valido fondamento: nel cristianesimo era presente una carica rivoluzionaria che lo rendeva incompatibile col paganesimo. La nuova alleanza era destinata ad accrescere l'incidenza sociale di questa carica rivoluzionaria. Il cristianesimo era estremamente pericoloso per la sua radicale e intransigente dedivinizzazione del mondo. Il problema era stato formulato, forse più chiaramente che da ogni altro, da Celso, il più competente critico pagano del cristianesimo, nel suo Discorso veritiero del 180 circa d.C. I cristiani, egli lamentava, rifiutano il politeismo perché "non si possono servire due padroni".(67) Questo per Celso era un "linguaggio da sedizione (stasis)".(68) Quella regola, egli dichiarava, vale fra gli uomini, ma non si sminuisce per nulla Dio quando si rende omaggio alla sua divinità nelle molteplici manifestazioni del suo regno. Al contrario, noi onoriamo l'Altissimo quando rendiamo onore a molti di coloro che appartengono a lui, (69) mentre, isolando dagli altri un solo dio e rendendo omaggio a lui solo, noi introduciamo lo spirito di parte nel regno divino.(70) Questo atteggiamento può essere assunto soltanto da uomini che si dissociano dall'umana società e trasferiscono su Dio le loro passioni faziose. (71) I cristiani, dunque, sono faziosi in religione e in metafisica, e la loro sedizione è diretta contro la divinità che anima armoniosamente il mondo intero in tutti i suoi comparti. E poiché i vari comparti della terra furono fin dall'origine assegnati a vari spiriti reggenti e potentati sovrintendenti,(72) la sedizione religiosa è anche una rivolta politica. Chi vuole distruggere il culto nazionale vuole distruggere la cultura nazionale.(73) E poiché i culti sono tutti inseriti nell'impero, l'attacco sferrato contro i culti da parte di monoteisti radicali è un attacco contro l'edificio stesso dell’imperium Romanum. Certo, anche secondo Celso, sarebbe desiderabile che gli asiatici, gli europei, i libici, gli elleni e i barbari concordassero in un unico nomos, ma, aggiunge sprezzantemente, "chiunque lo ritiene possibile dimostra di non capire niente".(74) Nella sua opera Contra Celsum, Origene replicò che la cosa non solo era possibile, ma si sarebbe certamente realizzata (75). Celso sembra, in realtà, essersi reso conto delle implicazioni del cristianesimo ancor più chiaramente di quanto Cicerone si fosse reso conto delle implicazioni della filosofia greca. Egli comprese il problema esistenziale del politeismo e capì che la dedivinizzazione cristiana del mondo significava la fine di un ciclo di civiltà ed era destinata a trasformare radicalmente le culture etniche dell'epoca.



8.

La convinzione che il cristianesimo potesse venire utilizzato a sostegno della teologia politica dell'impero, da solo o in combinazione con la concezione di un Summus Deus, doveva ben presto incontrare una smentita sul piano concreto.

Tuttavia, quella convinzione poté affermarsi perché trovò appoggio in una certa tendenza cristiana a interpretare l'unico Dio del cristianesimo nel senso di un monoteismo metafisico.(76) Intraprendere siffatto esperimento poteva essere una comprensibile tentazione, sulla scia delle religioni orientali che si erano trovate inglobate nell'ambiente ellenistico e avevano cominciato a esprimersi col linguaggio della speculazione greca.

In realtà, lo sviluppo cristiano in questa direzione non fu originale, ma segui l'esempio di Filone Giudeo, il quale aveva già a propria disposizione le speculazioni peripatetiche del primo secolo avanti Cristo. Nella sua Metafisica, Aristotele aveva formulato il principio: "Il mondo non vuole essere governato male; il governo di molti non è buono, uno solo dev'essere il Signore". Nella letteratura peripatetica immediatamente anteriore a Filone, di cui l'esempio più significativo a noi pervenuto è lo pseudo-aristotelico De mundo, questo principio aveva trovato elaborazione nelle grandi costruzioni parallele della monarchia imperiale e della monarchia divina del mondo.(78) Il divino sovrano monarchico del cosmo governa il mondo per mezzo di rappresentanti a lui subordinati, come il gran re persiano governa il suo impero per mezzo dei satrapi dislocati nelle provincie.(79) Filone adattò questa costruzione al monoteismo giudaico per avere uno strumento di propaganda politica che rendesse attraente il giudaismo come culto di un solo dio nell'impero.(80) Seguendo, a quanto pare, una fonte peripatetica, egli fece del Dio giudaico una specie di "re dei re" di tipo persiano, relegando tutti gli altri dèi al rango di subalterni.(81) Egli ebbe cura di mantenere gli ebrei nella posizione di popolo eletto, ma li liberò accortamente dalla loro impasse metafisica facendo dell'omaggio a Geova l'omaggio al Dio che regge il cosmo nel senso peripatetico.(82)

Egli si richiamò anche al Timeo di Platone per fare di Geova il Dio che istituisce l'ordine (taxis) del mondo in senso costituzionale.(83) Gli ebrei, rendendo omaggio a questo Dio, rappresentano il genere umano. E, citando il passo della Metafisica di Aristotele con il suo verso omerico, Pilone insiste nel dire che quel verso deve essere considerato valido sia per il governo cosmico che per il governo politico.(84)

La speculazione filoniana fu accettata dai pensatori cristiani (85). L'adattamento alla situazione dei cristiani nell'impero raggiunse il suo pieno sviluppo con Eusebio di Cesarea, al tempo di Costantino.(86) Eusebio, come molti pensatori cristiani prima e dopo di lui, fu colpito dalla coincidenza della venuta di Cristo con la pacificazione dell'impero ad opera di Augusto. La sua complessa opera storica è determinata in parte dal suo interesse per il provvidenziale soggiogamento romano di nazioni in passato indipendenti. Quando Augusto pose fine all'esistenza autonoma delle varie entità politiche dell'area mediterranea, gli apostoli del cristianesimo poterono muoversi indisturbati per tutto il territorio dell'impero e predicarvi il Vangelo: essi non avrebbero certo potuto svolgere la loro missione se la collera dei "fanatici della polis" non fosse stata tenuta a freno dalla paura della potenza romana.(87)

Per Eusebio la pax romana non ebbe solo un'importanza pratica per la diffusione del cristianesimo, ma parve anzi strettamente connessa con i misteri del regno di Dio. Nell'epoca preromana, egli affermava, le popolazioni non vivevano in una vera comunità, ma erano impegnate in continue guerre fra loro. Augusto liquidò questa poliarchia pluralistica e con la sua monarchia portò la pace sulla terra, dando così adempimento alle predizioni bibliche di Mieti. 4,4 e di Sal. 71,7. Insomma, le profezie escatologiche sulla pace del Signore furono politicizzate da Eusebio che le riferì a una pax romana che coincise storicamente con la manifestazione del Logos.(88) Infine, Eusebio reputava che l'opera iniziata da Augusto dovesse essere portata a compimento da Costantino, nella sua monarchia imperiale ha imitato la monarchia divina.

Nel suo Discorso dei Tricennalia egli loda Costantino, perché l'unico basileus in terra rappresenta l'unico Dio, l'unico re dei cieli, l'unico Nomos e Logos. (89) Abbiamo qui un ritorno alla rappresentanza imperiale della verità cosmica.

Siffatta armonia, naturalmente, non poteva durare: essa era destinata a finire appena dei cristiani un po' più sensibili avessero affrontato il problema. La questione giunse a una svolta decisiva con la controversia cristologica. Gelso se l'era presa con i cristiani perché non prendevano sul serio il proprio monoteismo ed avevano un secondo Dio, che era Cristo.(90) Era questa la questione cruciale del dibattito cristologico sollevato dall'eresia di Ario. Si dovettero trovare i simboli interpretativi dell'unico Dio come trino ed uno e, con la piena affermazione del trinitarismo, costruzioni del tipo di quella di Eusebio non poterono più sopravvivere. Ovviamente, gli imperatori e i teologi di corte propendevano per la concezione ariana: il dibattito trinitario, difatti, minacciava seriamente l'ideologia monoteistica sulla quale si fondava la concezione dell'imperatore come rappresentante dell'unico Dio.

Quando la resistenza di Atanasio e degli occidentali fece trionfare il simbolismo trinitario, caddero le speculazioni sul parallelismo tra la monarchia del cielo e della terra. Si continuò a parlare di una monarchia divina, ma l'espressione acquistò un nuovo significato. Gregorio Nazianzeno, per esempio, affermava che i cristiani credevano nella monarchia divina ma - si affrettava a precisare - essi non credono nella monarchia di una sola persona nella divinità, perché tale divinità sarebbe fonte di discordia; i cristiani credono nella trinità, e questa trinità di Dio non ha alcunché di analogo nel creato.

L'unica persona del monarca imperiale non può rappresentare la divinità trina e una.(91) L'impossibilità, alla quale ormai si era pervenuti, di utilizzare in politica l'idea di un Dio trinitario è messa in evidenza da un episodio che risale al regno di Costantino IV Pogonato (668-685): l'esercito pretese che egli desse ai suoi due fratelli la carica di coimperatori per avere in terra una rappresentanza della trinità divina.(92) Sembra una battuta umoristica ed era forse inevitabile che nel corso degli eventi la seconda e la terza persona della trinità imperiale venissero drammaticamente liquidate.

L'altra brillante idea di Eusebio, quella cioè di riconoscere nella pax romana l'adempimento di profezie escatologiche (un'idea che ricorda da vicino la propensione ciceroniana a veder realizzato da Roma l'ordine perfetto dei filosofi), finì anch'essa sotto le pressioni di un'epoca agitata. Tuttavia, il commento di sant'Agostino alla profezia di Sal. 45,10 può servire come chiara attestazione della posizione ortodossa contraria. Il testo biblico afferma: "Egli fa cessare le guerre fino al limite estremo della terra". Sant'Agostino commenta: "Noi non vediamo ancora adempiuto tutto ciò; abbiamo ancora guerre. Fra le nazioni ci sono guerre per il predominio. E ci sono anche guerre fra le sètte, fra ebrei, pagani, cristiani ed eretici, e queste guerre sono persino in aumento; da una parte ci si batte per la verità, dall'altra per la menzogna. Non si è affatto avverata la cessazione delle guerre fino al limite estremo della terra; ma forse, almeno speriamo, lo sarà in futuro".(93)

Così finisce la teologia politica nel cristianesimo ortodosso. Il destino spirituale dell'uomo nel senso cristiano non può essere rappresentato sulla terra dall'organizzazione di potere di una società politica; esso può essere rappresentato solo dalla Chiesa. La sfera del potere è sottoposta a una dedivinizzazione radicale: è diventata temporale. La duplice rappresentanza dell'uomo nella società, attraverso la Chiesa e l'impero, durò per tutto il Medioevo. I problemi moderni della rappresentanza sono connessi con il processo di ridivinizzazione della società. I tre capitoli successivi saranno dedicati all'esame di questi problemi.



NOTE

1 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, ll67b3-4.

2 Ibid., 1166a1 ss.; 1167a22 ss.; 1177a12-18; 1177b27-1178a8.

3 Ibid.. 1158b29-1159a13.

4 SAN TOMMASO, Contra Gentiles, 3,91.

5 Questa concezione della rivelazione e della sua funzione in una filosofia della storia è molto più compiutamente sviluppata in H. RICHARD NIEBUHR, The Meaning of Revelation, New York 1946, spec. alle pp. 93, 109 ss.

6 A.D. SERTILLANGES, Avec Henri Bergson, Parigi 1941,

7 La dipendenza di ogni progresso della teorizzazione dal processo di differenziazione delle esperienze della trascendenza è diventata un grosso problema nella storia delle idee. La superiorità teorica come fattore della vittoria del cristianesimo sul paganesimo nell'impero romano è, per esempio, fortemente sottolineata in CHARLES N. COCHRANE, Cristianity and Classical Culture: A study of Thought and Action from Augustus to Angustine, New York 1944, spec. nei cc. 11 e 12. La superiorità tecnica della metafisica cristiana sulla greca è analizzata con molto acume in ÉTIENNE GILSON, L'Esprit de la philosophie medievale (trad. it.: Morcelliana, Brescia 1947), specialmente nei cc. 3-5. La continuità di sviluppo dall'esplicazione teorica greca alla cristiana delle esperienze della trascendenza, d'altra parte, è stata messa in evidenza da WERNER JAEGER, Theology of the Early Greek Philosophers, Oxford 1947. In questo dibattito contemporaneo è riemerso alla luce il grosso problema della praeparatio evangelica, sollevato da Clemente di Alessandria quando si richiamava alla sacra Scrittura e alla filosofia greca come ai due vecchi Testamenti del cristianesimo (Stromates, 6). Su questo problema, si veda pure SERGE BOULGAKOF, Le Paraclet, Parigi 1946, pp. 10 ss.

8 Una ricostruzione parziale dell'opera di Varrone sulla base del resoconto agostiniano si trova in R. AGAHD, De Varronis rerum divinarum libris I, XIV, XV, XVI, Lipsia 1896.

9 SANT'AGOSTINO, Civitas Dei, ed. Dombart, 6, 5.

10 Ibid.

11 Ibid.. 4,27.

12 Ibid., 6,5. Sull'uso agostiniano del termine "teologia naturale", cfr. Jaeger cit., pp. 2 ss.

13 Ibid., 6,6.

14 Si veda, su questa questione, Jaeger cit., p. 3, nn. 8-10. La classificazione di Antistene, insieme con le relative citazioni in Minucio Felice, Lattanzio e Clemente di Alessandria, si trovano in EDUARD ZELLER, Die Philosophie der Griechen, II/1, 5a ed., Lipsia 1922, 329, n. 1.

15 Codex Theodosianus, 16.1,2.

16 Sulla vicenda dell'altare della Victoria, fr. HENDRIK BERKHOF, Kirche und. Kaiser: Eine Vntersuchung der Entstehung der byzantinischen und der theokratischen Slaatsauffassung im vierten Jahrhundert, trad. di Gottfried W. Locher, Zollikon-Zurigo 1947, pp. 174 ss.; GASTON BOISSIER, La fin du paganisme, vol. II, 2a ed., Parigi 1894.

17 SANT'AMBROGIO, Epistolae, 17 e 18. La Relatio Symmachi urbis praefecti è pubblicata in appendice alla Lettera 17 di Ambrogio (Migne, PL 16).

18 Relatio Symmachi, 3-4.

19 Ibid., 6 e 10.

20 SANT'AMBROGIO, Epistolae, 18,4 ss.

21 Ibid., 17,9.

22 Ibid., 1.

23 Ibid., 18.30.

24 Ibid., 17,2.

25 Ibid., 18,10.

26 Ibid., 17,14-

27 Sulla lotta per la teocrazia in questo senso cfr. Berkhof cit., c. VIII: Um die Theokratie.

28 Codex Theodosianus, 16,10,10.

29 Ibid., 10,14.

30 Ibid., 19.

31 SANT'AGOSTINO, Civitas Dei, 6,2.

32 Ibid., 3.

33 Ibid,, 4.

34 Ibid.

35 Ibid.

36 Ibid., 4,31: 6,4.

37 Ibid.. 4,31.

38 CICERONE, De natura deorum 2, 167.

39 Ibid.. 168

40 Ibid., 3,5.

41 Ibid.

42 Ibid., 6. 156

43 CICERONE, De re publica, 2,3.

44 Ibid., 1.70; 2,2.

45 Ibid., 3,5-6.

46 CICERONE, De legibus, 2.5.

47 Una tendenza verso questa identificazione si riscontra, prima di Cicerone, soprattutto in Polibio (cfr. HARRY A. WOLFSON, Philo, Cambridge, Mass. 1947, II, 419 ss.).

48 ANTO VON PREMERSTEIN, Vom Werden und Wesen des Prinzipats, ed. Hans Volkmann ("Abhandlungen der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-hist. Abt., Neue Folge", Hett 15, Monaco 1937).

49 Ibid., pp. 15-16

50 Ibid. p.37

51 Ibid., pp. 26 ss.

52 Ibid., p. 24.

53 Ibid., pp. 16 ss.

54 Ibid., pp. 24 ss.

55 Ibid., pp. 37.

56 Ibid., pp. 42 ss.

57 Ibid., p. 52.

58 Ibid.. pp. 56 ss.

59 Ibid,, pp. 60 ss.

60 De mortibus persecutorum, 46.

61 Op.cit., pp. 47 ss.

62 Lattanzio cit., 34: "cum... videremus nec diis eosdsm culturn ac religionem debitam exhibere, nec Chrìstianorum Delira observare".

63 Berkhof cit., p. 48.

64 Lattanzio cit., 34 in fine.

65 Un'interpretazione simile si può trovare in JOSEPH VOGT, Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, Monaco 1949, pp. 154 ss.

66 Ibid., 48. Come Berkhof cit., p. 51, seguo la lezione "quidquid est divinitatis in sede coelesti".

67 ORIGENE, Contra Celsum. 7,68.

68 Ibid., 8,2.

69 Ibid.

70 Ibid., 11

71 Ibid., 2

72 Ibid. 5, 25

73 Ibid. 26

74 Ibid. 8,72

75 Ibid.

76 Sul monoteismo metafisico e sulla sua funzione nella teologia politica dell'impero romano cfr. ERIK PETERSON, Der Monotheismus als politisches Problem: Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum, Lipsia 1935. Nella mia analisi seguo molto da vicino quella del Peterson.

77 ARISTOTELE, Metafisica, 1076a.

78 Il De mundo risale al primo secolo avanti Cristo. Se poi risalga esattamente al periodo in cui visse Filone è cosa che non ha importanza ai nostri fini, dato che ci interessano soltanto i suoi contenuti tipici.

79 De mundo, 6.

80 Sulle finalità politiche di Pilone cfr. Peterson cit., p. 27; ERWIN K. GOOD-ENOUGH, The Politics of Philo Judaeus, New Haven 1938 e, dello stesso autore, An Introduction to Philo Judaeus, New Haven 1940, e. in.

81 FILONE, De specialibus legibus, 1,13,18,31; De decalogo, 61.

82 Peterson cit., pp. 23 ss. In De Abrahamo, 98 si parla degli ebrei come della nazione a più cara a Dio "e si attribuiscono ad essi i doni del sacerdozio e della profezia sa vantaggio dell'intero genere umano"; in De spec. leg., 167 gli ebrei che pregano sono considerati rappresentativi dell'intero genere umano; in De spec. leg., 97 il sommo sacerdote degli ebrei prega e rende grazie non solo per il genere umano ma per l'intero creato.

83 FILONE, De fuga et inventione, 10. Sul trapasso dal significato platonico di taxis al significato di ordine costituzionale, cfr. Peterson cit., pp. 28-29.

84 FILONE, De confusione liguarum, 170.

85 Sulla recezione della speculazione filoniana sulla monarchia divina nella letteratura apologetica cristiana, cfr. Peterson cit,, pp. 34-42.

86 Su Eusebio, cfr. Peterson cit., pp. 71-76 e Berkhof cit., pp. 100-101.

87 EUSEBIO, Demonstratio evangelica, 3,7,30-35.

88 Ibid., 7,2,22; 8,3,13-15; Peterson cit., pp. 75-77.

89 EUSEBIO, Laus Constantini, 1-10; Peterson cit., p. 78; Berkhof cit., p. 102.

90 ORIGENE, Contra Celsum, 8,12-16.

91 Peterson cit., pp. 96 ss.

92 KAKL KRUMBACHER, Geschichte der byzantinischen Litteratur, 2a ed.. Monaco 1897, p. 954; E.W. BROOKS, The Successors of Heraclius fo 717, CMH, II, 13, p. 405; Berkhof cit., p. 144. Il solo altro esempio di un'applicazione della Trinità al governo imperiale, per quanto ne so, sono i Versus Paschales di Ausonio, del 368 d.C. o di poco posteriori. In questo poema pasquale la Trinità appare rappresentata in terra da Valentiniano I e dai suoi coimperatori Valente e Graziano (Ausonio, "Loeb Classical Library", I, 34 ss.).

93 SANT'AGOSTINO, Enarratio in Psalmos, 45,13.
Postato il 21 febbraio 2012