27 novembre 2011

L’arte magica di convincere

Un saggio di Bice Mortara Garavelli riapre il dibattito intorno all'efficacia della parola
di Cesare Segre
La rivincita della retorica sulla logica, nel nome delle emozioni
La retorica è stata spesso oggetto di irrisione o avversione. Anche i dizionari registrano questo fatto. Il dizionario Sabatini-Coletti, tra le interpretazioni dell’aggettivo retorico, mette anche «caratterizzato da magniloquenza, da ricercatezza, ma privo di validi contenuti, povero di sostanza»; oppure «ampolloso, enfatico, artificioso». Ma poi, la retorica è parente stretta dell’eloquenza, che il dizionario spiega così: «L’arte di esporre gli argomenti in maniera appropriata, elegante e persuasiva», dopo aver precisato che l’eloquenza greca o latina è «l’insieme delle norme retoriche seguite dagli oratori greci e latini, ecc.». E non si vede perché la retorica sia così maltrattata in confronto con l’eloquenza che ne è il prodotto. Siamo comunque già autorizzati a sospettare che quando Verlaine esorta a «prendere l’eloquenza e torcerle il collo», dia voce all’insofferenza della poesia del suo tempo verso la retorica (si noti intanto che «torcere il collo» per «eliminare» è una metafora, tipica figura retorica). Bice Mortara Garavelli, oltre che linguista, è una grande studiosa di retorica. Tra i suoi molti lavori sull’argomento, citeremo almeno il Manuale di retorica (Bompiani, 1997) e Il parlar figurato. Manualetto di figure retoriche (Laterza, 2010). Ora un nuovo volumetto laterziano (Prima lezione di retorica, pp. 118, 12) ritorna sul tema in prospettiva storica. Lo sviluppo della retorica s’intreccia con quello della filosofia greca. La retorica, nella sistemazione di Aristotele, viene messa in alternativa con la logica: la logica cerca il vero, la retorica il verisimile. Ma già Platone, nel Fedro , aveva separato la «vera» e la «falsa» retorica: la prima soltanto conduce l’ascoltatore alla verità. La Mortara Garavelli sottolinea più volte che la retorica, così come fu codificata in una serie di testi latini (dalla Rhetorica ad Herennium sino alla Institutio di Quintiliano), era utilizzata soprattutto in ambito giudiziario e politico: riusciva perciò naturale che facesse appello all’emozione dell’ascoltatore, puntando alla persuasione più che alla dimostrazione (campo della dialettica e della logica, sue rivali). La Mortara Garavelli d’altra parte ci ricorda un cosa che dovrebbe essere ovvia, e cioè che la retorica, cioè l’uso di potenzialità psicologiche del linguaggio, ha una diffusione universale e precede le codificazioni storiche, continuando anche al di là di queste. E infatti esiste senza dubbio una retorica-non-retorica, che gli scrittori, e non più i soli uomini di legge e politici cui si rivolgevano in origine i trattatisti, inventano ed elaborano. Per questo nel terzo capitolo, dedicato ai procedimenti codificati della retorica, la Mortara Garavelli dà esempi anche di scrittori contemporanei e persino di non-scrittori, mostrando che la retorica continua a essere inventata dai parlanti. Aveva visto benissimo Nietzsche, citato in esergo: «Ciò che si qualifica come retorico in quanto mezzo di un’arte cosciente era già in atto come mezzo di un’arte inconscia nella lingua e nella sua formazione: la retorica altro non è se non un perfezionamento degli artifici già presenti nella lingua». Divertente, tra l’altro, notare che qui Nietzsche assume il ruolo di rappresentante dell’equilibrio e del buon senso. Oggi sarebbe impensabile un attacco alla retorica, se non altro perché abbiamo imparato a distinguere tra una retorica creativa e una retorica esornativa o classificatoria (molti degli autori citati dalla Mortara si stupirebbero apprendendo che hanno fatto uso di anadiplosi o di epanalessi o di epìfore). Ma soprattutto bisogna aggiungere che nuove prospettive teoriche hanno riportato la retorica nelle adiacenze della filosofia, nelle quali era già stata sistemata dai Greci, e ancor più nelle adiacenze della linguistica. Quanto alla filosofia, è stato Perelman, alla metà del Novecento, a dimostrare che anche l’argomentazione filosofica è costretta spesso a rinunciare al ragionamento di stampo logico per ricorrere a strategie comunicative, a stratagemmi verbali, che mirano piuttosto a convincere che a dimostrare. Non solo, ma in tutte le scienze umane, dal diritto all’etica, non si può argomentare su basi razionali come nella matematica o nella logica. Al contrario, si può dimostrare, ricorrendo necessariamente anche alla persuasione, perciò a strategie di carattere retorico. La persuasione, d’altra parte, è aperta anche all’irrazionale e alle emozioni che prevalgono nelle relazioni umane, e non possono essere messi tra parentesi. Insomma, un capovolgimento di quel dominio della razionalità (della logica) cui la cultura occidentale ci ha abituati. Altrettanto importanti le connessioni della retorica con la linguistica moderna, sempre più attratta dalle articolazioni del discorso, oltre i limiti di proposizioni e frasi. La retorica infatti s’impegna a ottimizzare l’andamento del discorso. Un caso notevole è quello dell’anastrofe e dell’epìfora: iniziando o terminando enunciati successivi di un discorso con le stesse parole, si crea una struttura complessa e armonica di frasi connesse, ma anche di pensieri ben concatenati. I retori parlano di dispositio , «ordinamento e disposizione degli argomenti». Si prenda come esempio il canto di Giustiniano (Paradiso, VI). Il discorso svolto nei versi da 37 a 75 è tutto sorretto da una serie di anafore: «Tu sai ch’el fece... E sai ch’el fe’... Sai quel ch’el fe’... Esso atterrò... sott’esso... E quel che fe’... Quel che fe’... Di quel che fe’... Con costui... con costui». Dante sta parlando dell’aquila imperiale e del disegno escatologico che avrebbe assegnato all’Impero romano il compito di accogliere e sviluppare il cristianesimo; le anafore evidenziano la coerenza delle fasi di questo compito. Potremmo ringraziare l’autrice di questa Prima lezione senza fare della retorica?

Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora cotesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci? (...). Né il presidio notturno sul Palatino né le ronde per la città né il panico del popolo né l’opposizione unanime dei cittadini onesti né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti?
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Il giorno di San Crispino non passerà mai, senza che noi si venga menzionati. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti nobili ora a letto in patria si sentiranno dannati per non essersi trovati oggi qui.
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Questa è la risposta che darò al presidente Roosevelt: fidatevi di noi. Dateci la vostra benedizione, e con l’aiuto della Provvidenza alla fine andrà bene. Non intendiamo fallire o tentennare; non intendiamo indebolirci o stancarci. Né l’improvviso urto della battaglia, né le lunghe prove della vigilanza e del comando ci fiaccheranno. Dateci gli strumenti, e noi finiremo il lavoro.
«Corriere della Sera» del 3 novembre 2011

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