16 novembre 2011

Dietro la sindrome del complotto si nasconde il deficit di credibilità

di Massimo Nava
Hanno suscitato irritazione la maldestra offerta di Sarkozy di «sistemare» le cose in Italia e i suoi sorrisetti in coppia con la Merkel a Cannes, considerati sia mancanza di rispetto sia eccesso d' ingerenza. Però in questi giorni, una sorta di diktat europeo viene stigmatizzato anche a proposito del nascente governo Monti, come se il problema non fosse la nostra credibilità nel rimettere in carreggiata le risorse del sistema Paese, ma l'ironia degli altri e/o presunte mire neocoloniali. All'estrema sinistra e nella destra leghista e liberale, si ascoltano curiose convergenze su argomenti come forzatura presidenzialista, poteri dei tecnocrati, «golpe» delle banche europee e «congiura» della finanza internazionale. Crozza ne ha già fatto la caricatura. Altri, senza l'ironia del comico, richiamano il rispetto delle regole e il primato del Parlamento, dimenticando lo scempio che se ne è fatto negli ultimi anni. Per fortuna, il professor Monti va a messa, altrimenti avremmo sentito parlare anche di complotto ebraico. Giusto respingere il sarcasmo al mittente e interrogarsi sul nostro posto in Europa, ma qualche riflessione andrebbe fatta su immagine e credibilità di un Paese e su che cosa significhi ingerenza. Magari chiedendosi perché la Francia continui ad ottenere tripla A e considerazione internazionale, nonostante condizioni di salute non molto più floride di quelle italiane, «nonostante» appunto Sarkozy, con le sue gaffe e sondaggi in caduta libera. Magari chiedendosi perché dopo lo scandalo Strauss-Kahn, la Francia sia riuscita a piazzare un altro francese (la Lagarde) al Fondo Monetario, nonostante la già ampia presenza di francesi in posti chiave dell'economia mondiale. Magari chiedendosi perché lo stesso Strauss-Kahn abbia sentito la necessità di dimettersi subito e sia oggi un relitto politico. Magari ricordando che, al tempo della guerra in Iraq, la Francia venne disprezzata dagli americani come il Paese di mangiatori di rane, salvo riguadagnare considerazione per aver detto di no a Bush. Magari ricordando che la fine di Gheddafi non è soltanto il risultato delle velleità militari di Sarkozy, ma dell'impegno di un Paese che ha saputo mettere in campo una coalizione internazionale in buona parte recalcitrante. Tornando alle vicende europee, può dispiacere l'influenza dell'asse franco-tedesco, ma dovremmo domandarci che cosa sarebbe l'Europa senza il livello di concertazione raggiunto da Berlino e Parigi. Non è retorica, ricordare, fra l'altro, il più lungo periodo di pace e progresso nel continente. Certamente, l'asse franco-tedesco è anche un elemento di squilibrio e risulta troppo spesso un matrimonio d'interesse, che consente alla Francia di giocare in prima linea pur non avendo le carte in regola e alla Germania di non giocare da sola, evitando così di rievocare pericolosi fantasmi. Ma se ne rendono conto gli stessi francesi e tedeschi (il ministro Schäube, domenica scorsa, su le Monde) che auspicano maggiore coesione delle regole (innanzitutto fiscali) oltre a quella della moneta. Sarebbe auspicabile una maggiore convergenza politica, ma questa è impossibile senza una diversa architettura istituzionale, di cui un'Italia più considerata e rilanciata potrebbe essere grande protagonista. Non ha però molto senso confondere l'arroganza di Sarkozy o le durezze della Merkel con la politica europea della coppia Berlino-Parigi. È quasi sempre il sistema-Paese che esalta il valore dei leader e ne attenua i difetti. È autoconsolatorio ritenere che la nostra credibilità in Europa sia dipesa soltanto dalle gaffe di Berlusconi, così come è illusorio ritenere che basti la credibilità di Monti a restaurare quella del Paese. Il professore della Bocconi non è un demiurgo, ma un insegnante di sostegno, con la speranza che la classe (non solo politica) impari la lezione e alla fine dell'anno (legislativo) passi gli esami.
«Corriere della Sera» del 15 novembre 2011

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