27 agosto 2011

La finanza medievale inventò il Welfare

di Edoardo Castagna
Quando c’è una crisi tutti vengono da noi medievalisti, a chiederci strumenti per capire quello che sta succedendo, per farsi dare qualche suggerimento dalla storia. Era successo negli anni Settanta, succede di nuovo adesso». E infatti Gabriella Piccinni, storica dell’Università di Siena, al prossimo Meeting sarà chiamata a parlare del «Medioevo e la nascita del mercato» con Paolo Nanni e Giorgio Vittadini (martedì 23 alle ore 15 in Sala Neri).
E voi siete in grado di rispondere?
«Ci si prova: non possiamo certo ignorare che stiamo parlando di storia in un momento in cui chiediamo a tutto e quindi anche alla storia, un aiuto per capire e sopravvivere. Io in questo momento sono angosciata dal fatto che noi, come società contemporanea, ci troviamo di fronte all’acutissima consapevolezza del dolore, individuale e sociale, che l’arretramento economico comporta. Perché un conto è essere poveri, un altro è essere impoveriti: nel primo caso un sogno si può sempre realizzare, mentre nel secondo si spegne. Riflettere di mercato nel Medioevo, o in qualunque altra era, non ci esime dall’esprimere la nostra sensibilità. Che ci spinge a ritornare sugli ultimi secoli del Medioevo, quello dell’Italia delle città».
Che cosa ci mostra quell’epoca?
«Che senza una qualche forma di protezione sociale una società non regge alle sue crisi».
È quello che accadde dopo la crisi del Trecento, quella della Peste nera?
«L’Italia degli ultimi secoli del Medioevo aveva una grande spinta verso la crescita, con enormi movimenti speculativi come oggi; però aveva anche le sue crisi di coscienza su questo punto. Nell’Italia di allora, che era l’avanguardia d’Europa, i ricchi a un certo punto s’interrogavano. Il banchiere (o “cambiatore”, o “usuraio, o “bargello”... sappiamo che la distinzione tra credito e usura esiste soltanto nella legge che la definisce) a un certo punto si chiedeva: io ho preso più di quanto non dovessi, come faccio a risarcire? In un primo momento rimandavano il pareggio a dopo la morte, lasciando i loro beni a un qualche ente pio per salvarsi l’anima. Poi però iniziarono a farlo anche in vita, dando origine alla grande istituzione caritatevole delle città italiane tardo-medievali: l’ospedale. Certo, di ospedali ce n’erano anche prima, sorti soprattutto grazie ai vescovi; tuttavia, fu sul finire del Medioevo che divennero dei veri e propri istituti di “stato sociale”. Erano delle forme di restituzione economica, oggi si direbbe di redistribuzione del reddito».
Lo stato sociale figlio delle “crisi di coscienza” degli usurai?
«Non era soltanto una riflessione religiosa. Ogni società ha un proprio modello del mondo; in ogni luogo e in ogni epoca c’è sempre una certa concezione della proprietà, della ricchezza e del lavoro. Queste categorie politico-economiche sono anche categorie morali e di visione del mondo, e nella storia lavoro e ricchezza sono stati valutati in molti modi diversi. Alla fine del Medioevo ci fu questa grande riflessione collettiva, e s’inventarono una soluzione, gli ospedali, per rispondere al bisogno. Non solo a quello economico: accoglievano infatti anche le persone anziane rimaste sole, le vedove, gli orfani... Era la costruzione di una cultura urbana che si poneva il problema della protezione sociale delle fasce più deboli: un grande colpo di reni collettivo».
Sembra difficile coniugarlo con l’immagine dei finanzieri d’oggigiorno ...
«Le cose non si escludono affatto, anzi. Prendiamo una figura come quella del pratese Francesco Datini, al quale Paolo Nanni ha dedicato recentemente un saggio che ne reinterpreta su nuove basi il ricchissimo lascito epistolare (Ragionare tra mercanti, Pacini). Grande commerciante della fine del Medioevo, sapeva come si faceva a investire, a costruire, a generare ricchezza; sapeva che il denaro non doveva mai stare fermo. Eppure, al tempo stesso, le sue lettere sono colme di riflessioni sull’amicizia, sulla famiglia, sulla precarietà dell’esistenza, sulla vita spirituale. Ecco: io trovo che la nostra spietata economia abbia un che di disperato. Questa coercizione a crescere e a decrescere, senza tener conto di tutti gli esseri umani che ci sono dietro alla crescita e alla decrescita...».
«Avvenire» del 18 agosto 2011

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