26 luglio 2011

Quelle comunità così moderne e così vulnerabili

di Pierluigi Battista
La tragedia norvegese sta facendo esplodere, anche, una grottesca e mediocre guerra delle attribuzioni contrapposte. Alla smania frettolosa, compiaciuta e spaventosamente disinformata con cui i cantori dello scontro di civiltà hanno subito gridato al terrore di marca islamista si replica con altrettanta sicumera sulla pista della cospirazione nazista: con obbligatoria venatura di fondamentalismo bianco-razzial-cristiano, perfetta antitesi di un'immaginaria pista musulmana. Prima ancora di accertare i fatti, scoppia la febbre dell'identificazione del Nemico, della ricerca di spiegazioni rassicuranti, di semplificazioni che diano ordine a ciò che appare privo di senso, una logica all'orgia di sangue e di morte che ha sconvolto in poche ore una nazione passabilmente tranquilla come la Norvegia. Ma l'inferno norvegese rischia di diventare il paradiso di ogni dietrologia e di ogni più dozzinale complottismo. Il Nemico identificato con aprioristica certezza regala una trama alla follia pura e all'insensatezza. È un meccanismo di autodifesa, è la segnalazione di un pericolo che, con un volto ben riconoscibile, si può arginare. Chiude la società in una fortezza rassicurante: indica e isola i colpevoli, e contemporaneamente spinge chi è assediato alla massima coesione. Identificare all'Islam, senza il beneficio del dubbio, la colpa della strage favorisce infatti la messa sotto accusa della società delle frontiere aperte. Richiama all'ordine una società accusata di aver abbassato la guardia. Militarizza gli animi e le menti contro il pericolo musulmano sempre in agguato. Gridare invece al complotto neonazista alimenta la guerra contro il nuovo mostro interno che inquieta l'Europa. Alimenta un meccanismo ideologico di segno contrario, ma formalmente identico: dirotta l'allarme sociale su un bersaglio preciso, su un'organizzazione segreta che nella parte più buia e ottusa della nostra società cospirerebbe contro la democrazia con una diabolica strategia stragista. E non occorre nemmeno menzionare gli studi con cui etnologi e antropologi hanno studiato il meccanismo del «capro espiatorio» per capire come il bisogno di un Nemico chiaro e identificabile serva alle società per elaborare il lutto e distribuire la colpa. Nella guerra delle interpretazioni, a venir scartata subito finisce così per essere l'ipotesi più perturbante e sconvolgente, e cioè che il delirio dei singoli, la follia delle menti bruciate dalle ossessioni da un morbo paranoico resti pur sempre la chiave per comprendere un gesto catastrofico, segno di una psicopatologia che si ammanta di una veste mistico-ideologica apparentemente coerente. Le indagini appureranno la dinamica della strage, l'identità dell'assassino, i comportamenti di chi avrebbe dovuto tutelare la vita di giovani orrendamente massacrati in un'isola dove erano riuniti per un convegno politico. Se l'autore della strage ha avuto dei complici, ciò naturalmente corroborerebbe l'ipotesi di un criminale disegno stragista. Ma se invece, come parrebbe, il killer avesse fatto tutto da solo, meditando e compiendo un' ecatombe senza appoggi e complicità, sia i dietrologi antislamici, sia quelli che già nel web fantasticano di un'internazionale nera pronta a mettere a ferro e fuoco l'Europa, avrebbero perduto un'occasione preziosa per tacere. In poche ore e con informazioni ancora sommarie hanno già messo i fatti al servizio dei loro pregiudizi e un terribile massacro a disposizione dei loro schemi ideologici, delle loro paure e soprattutto del loro modo di alimentarla e dilatarla, la paura collettiva. Senza considerare però che la paura più vera è quella dell'inspiegabile, della nostra vulnerabilità nei confronti del gesto di un folle. Nemmeno nobilitato dalla grandezza di un complotto.


«Corriere della sera» del 24 luglio 2011

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