17 maggio 2011

Specialisti nell’annullare le riforme (altro che meriti e qualità)

Istruzione e test di valutazione

di Maurizio Ferrera



In Italia la strada delle riforme è costellata di trappole. Una di queste funziona così. Si prende atto di un problema, si osservano le esperienze di Paesi più avanzati, si avvia un percorso di cambiamento. Le categorie colpite si mobilitano, spesso mascherandosi dietro slogan ideologici. A questo punto scatta la trappola. Nel dibattito culturale si levano voci scettiche o critiche nei confronti delle riforme. Il tipico argomento è: i nuovi strumenti non funzioneranno, anche all’estero stanno facendo marcia indietro, rimettiamo in discussione gli obiettivi. Alla fine, le riforme si bloccano, vince lo status quo. Questo meccanismo ammazzariforme rischia oggi di attivarsi nel campo dell’istruzione. A farne le spese potrebbero essere i timidi passi che si stanno compiendo nelle scuole con i test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) e nelle università con la misurazione della produttività scientifica dei docenti. La storia è nota. Da anni le scuole italiane ottengono pessimi punteggi nelle indagini Pisa-Ocse (il Programma per la valutazione internazionale dell’allievo voluto dall’Organizzazione per la cooperazione economica europea) mentre le università si collocano nella fascia bassa delle graduatorie internazionali. Le eccellenze, che pur esistono, sono disperse, non visibili né valorizzate. I test Invalsi e la valutazione della ricerca rappresentano un meritorio tentativo di migliorare la situazione. Le resistenze dei docenti a farsi «misurare» erano prevedibili e in passato si sono manifestate anche all’estero. Da mettere in conto era pure il disorientamento degli studenti di fronte a inedite modalità di verifica. Il boicottaggio delle prove Invalsi, organizzato in varie scuole dai sindacati autonomi, getta però ombre preoccupanti sulla riuscita dell’operazione. Accanto ai triti slogan antimeritocratici dei Cobas, nelle dichiarazioni di presidi e insegnanti sono emerse antiche diffidenze verso il confronto comparativo e il principio di responsabilità individuale. Poche settimane fa è stata istituita l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca (Anvur). Che diranno i rettori e che faranno i sindacati quando una parte (speriamo cospicua) del finanziamento pubblico sarà collegato alle misurazioni Anvur, basate su criteri trasparenti e uguali per tutti gli atenei? Nel dibattito pubblico s’intravedono già i segnali della trappola più insidiosa: la delegittimazione culturale della riforma, anche da parte di autorevoli intellettuali. Si è cominciato a dire che i test sono un pericoloso strumento nozionistico che mortifica l’autonomia dei docenti e distorce gli obiettivi della didattica. Le misure bibliometriche vengono a loro volta attaccate in quanto per loro natura incapaci di cogliere l’«autentico» valore dei prodotti di ricerca. Sappiamo bene che non esistono metri aurei per valutare e che nei Paesi all’avanguardia è in corso un dibattito su come raffinare e calibrare gli strumenti sinora utilizzati. Ma l’Italia è in retroguardia, il nostro problema non è stabilire se sia meglio Cambridge o Oxford, ma fissare qualche paletto in una situazione di caos indifferenziato che penalizza soprattutto gli studenti. Se non introduciamo rapidamente dei segnalatori di qualità, per quanto grezzi e imperfetti, resteremo intrappolati in questo caos. E abbandoneremo a se stessi (magari costringendoli alla fuga verso l’estero) quei «capaci e meritevoli» di cui parla la nostra Costituzione, giustamente fiduciosa nella possibilità di riconoscerli e valorizzarli.




«Corriere della Sera» del 16 maggio 2011

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