02 maggio 2011

La recherche ungarettiana: dal Porto sepolto all’Allegria

Tratto dal volume Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Paravia, volume III, tomo 2/b, pp. 774 ss.

di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria


Nel riordinare le sue poesie, dando loro un titolo complessivo, Ungaretti volle sottolinearne il carattere autobiografico, proponendole come una sorta di nuova e versificata recherche (il riferimento al titolo del capolavoro proustiano non è casuale, se si pensa che Ungaretti fu forse il primo scrittore a parlare dell’opera di Proust in Italia, nel 1919). Egli stesso, del resto, aveva affermato: «Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in un’opera d’arte se in primo luogo tale opera d’arte non sia una confessione». Ma la componente autobiografica riscontrabile nella poesia ungarettiana è assai diversa da quella di un Saba. Il rapporto fra letteratura e vita è piuttosto quello che verrà codificato a proposito dell’Ermetismo, attribuendo all’arte il significato di un’esperienza assoluta e totale, unica e irripetibile.
Se le poesie pubblicate su «Lacerba», nel 1915, hanno ancora cadenze discorsive e cronachistiche, le liriche del Porto sepolto, uscite alla fine dell’anno successivo, assumono un andamento completamente diverso, che brucia ogni residuo puramente descrittivo o realistico. È questa la fase decisiva della ricerca poetica ungarettiana, esemplificata dai testi che confluiranno poi nell’Allegria (1931).

Ricollegandosi alla lezione del Simbolismo, Ungaretti porta alle estreme conseguenze il procedimento dell’analogia, ricollegandosi in questo anche alle indicazioni di Marinetti (del quale respinge tuttavia ogni presupposto di dinamismo meccanicistico). Ecco quanto scriveva in proposito: «Se il carattere dell’800 era quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di fumo - il poeta d’oggi cercherà dunque di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all’innocenza, quale lontananza da varcare; ma in un baleno». Ungaretti usa qui alcuni termini essenziali per intendere la natura del suo linguaggio poetico: se la «memoria» è il fardello dei ricordi personali e storici che l’uomo porta con sé, e che lo collegano alla dimensione contingente della vita, l’«innocenza» rappresenta la ricerca di una purezza edenica (cfr. Girovago, vv. 24-25), la riconquista dell’identità perduta, che metta l’uomo a contatto con la dimensione originaria dell’essere. Ma la «lontananza da varcare» (ritorna il motivo del viaggio) deve essere bruciata «in un baleno», proprio per liberarsi di ogni impurità, portando il contingente nella sfera dell’assoluto. La poesia assume anche, di conseguenza, un valore metafisico e religioso, come afferma ancora Ungaretti: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è una bestemmia. Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l’invisibile nel visibile».
Sul piano tecnico (che coincide, in ultima analisi, con quello metafisico) l’operazione consiste nella distruzione del verso tradizionale, che, con la sua sintassi ancora naturalistica (in quanto, con evidente ripresa di una terminologia positivistica, stabilisce «legami a furia di rotaie e di ponti» ecc.), è distratto dal vero obiettivo della ricerca poetica. L’innovazione ungarettiana venne certo favorita dalla rivoluzione futurista delle parole in libertà, di cui è tuttavia rifiutato il movimento caotico, ancora immerso nel cuore della materia, con il suo analogismo onomatopeico e naturalistico. La strada da percorrere era quella additata da Mallarmé, nella suprema e più ardua delle sue prove poetiche, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso. È la direzione che attribuisce alla poesia un significato magico ed esoterico, collocandola nell’oscura zona di confine che sta a ridosso dell’inconoscibile e dell’inesprimibile. Resta fondamentale, in questo senso, il significato della «parola», che assume il valore di una improvvisa e folgorante "illuminazione"; essa si identifica con l’«attimo» in cui, attraverso l’immediatezza del rapporto analogico, la poesia sfiora la totalità e la pienezza dell’essere. La parola viene fatta risuonare nella sua autonomia e nella sua purezza (o, se si vuole, nella sua «innocenza»), inserita, in versi brevi o addirittura isolata fino a farla coincidere con la misura del verso, quasi per collocarla nel vuoto e nel silenzio, oltre ogni rapporto contingente con la realtà.
In questo senso va inteso l’autobiografismo su cui lo stesso Ungaretti ha posto l’accento, riscoprendo anche la dimensione della sua preistoria poetica: dall’infanzia e dalla giovinezza trascorse ad Alessandria, con le impressioni di un paesaggio affidato poi alle testimonianze della memoria, fino all’incontro con l’Italia, la «terra promessa» dei suoi genitori. Da questi riscontri sono tratti i temi e i motivi dell’esordio poetico: il deserto, il miraggio, le cantilene arabe, come ricordo degli anni egiziani; il mare, il porto, il viaggio, legati alla vicenda dell’emigrante. Il discorso si approfondisce nel motivo dell’esilio (cfr. In memoria) e dell’estraneità, proprio di Girovago. Un temporaneo - seppure decisivo - momento di approdo è costituito dall’esperienza del fronte, che offre a Ungaretti gli spunti per alcune delle sue liriche più crude e sofferte, spoglie di ogni retorica. Ma la guerra gli consente anche di stabilire un contatto con la propria gente (si veda una lirica come Popolo, che è comunque estranea a ogni atteggiamento populistico) e di raggiungere la coscienza di una rinnovata identità, che ricongiunge al presente le esperienze vissute nel passato (cfr. I fiumi). La guerra, infine, costringe a vivere nel precario confine fra la vita e la morte (cfr. Soldati), dove ogni cosa può rovesciarsi nel suo opposto e scomparire per sempre all’improvviso; essa traduce così in immagini concrete, in cui ci si può imbattere in ogni momento, quella "poetica dell’attimo" che costituisce il fondamento della prima ricerca di Ungaretti.
Non a caso la sua ispirazione si definisce proprio in questo periodo, saldando le ragioni dell’autobiografismo esistenziale con la conquista (avvenuta molto rapidamente) della nuova tecnica espressiva, capace di rendere l’assolutezza di una aspirazione metafisica. In questo senso il poeta recupera anche, nell’edizione definitiva dell’Allegria, alcuni testi precedenti (datati Milano 1914-1915), dove già si delineava l’oscillazione dialettica tra essere e nulla, realtà e mistero, presenza e assenza, gesto e immobilità (si legga la lirica che introduce anche l’edizione definitiva delle poesie e che si intitola Eterno: «Tra un fiore colto e l’altro donato / l’inesprimibile nulla»). Particolarmente indicativi risultano, allora, i titoli delle prime due raccolte pubblicate, nel 1916 e nel 1919. Il porto sepolto allude a «ciò che segreto rimane in noi, indecifrabile», ed ha una fonte precisa nel racconto favoloso di due amici francesi: «Mi parlavano d’un porto, d’un porto sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima d’Alessandro, che già prima d’Alessandro era una città. Non se ne sa nulla. Quella mia città si consuma e s’annienta d’attimo in attimo. Come faremo a sapere delle sue origini se non persiste più nulla nemmeno di quanto è successo un attimo fa? Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tra-mandatoci d’ogni era d’Alessandria». Il «porto sepolto» equivale così al segreto della poesia, nascosto nel fondo di un «abisso» nel quale deve immergersi il poeta. Per quanto riguarda Allegria di naufragi, lo stesso Ungaretti, in una nota, ha spiegato il carattere ossimorico del sintagma, parlando dell’«esultanza d’un attimo», di un’«allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare». Una sorta di più pregnante spiegazione poetica è data dalla lirica del 1917 dal titolo omonimo: «E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare». Non a caso il motivo del «naufragio» (che richiama subito quello dell’«abisso») era stato sviluppato da Mallarmé nell’ultima parte di Un colpo di dadi; esso si collega inoltre al motivo del «viaggio», come simbolo di una presenza della «morte» sempre latente (come dirà Ungaretti in un verso di Lindoro di deserto: «Sino alla morte in balia del viaggio»). Il significato religioso di questa ricerca poetica è suggellato dalla lirica Preghiera, un’invocazione che, richiamandosi al lontano esempio del Petrarca, conclude L’allegria: «Quando mi desterò / dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera // Quando il mio peso mi sarà leggero // Il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido».


Postato il 2 maggio 2011

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