10 maggio 2011

Femministe di sinistra sedotte dallo scientismo

I progressisti e i temi bioetici dai contraccettivi ai figli in provetta. Si tende a legittimare manipolazioni biologiche

di Paolo Mieli

Il vuoto ideologico colmato dalla fiducia nella tecnica. Il tragico caso Reimer: nato maschio, mutilato per errore fu allevato come una femmina ma si ribellò e poi finì per suicidarsi

Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta il Partito comunista italiano (dal 1991 Partito democratico della sinistra) ha modificato radicalmente il proprio modo di guardare alle questioni morali connesse con la vita umana. Un giovane storico, Andrea Possieri, già autore di un eccellente lavoro sugli ultimi anni del Partito comunista, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), pubblicato dal Mulino, ha ora studiato come è avvenuto, passo dopo passo, questo Cambiamento di senso comune sui temi bioetici (così il titolo del suo saggio che esce nel libro, curato da Lucetta Scaraffia, Bioetica come storia. Come cambia il modo di affrontare le questioni bioetiche nel tempo, per le edizioni Lindau). Il racconto prende le mosse da una lettera pubblicata su «Noi Donne» il 3 dicembre del 1972. All'epoca la rivista - espressione dell'Unione donne italiane, un'organizzazione collaterale al Pci - era diretta da Giuliana Dal Pozzo e la pagina delle lettere serviva a dar conto alle lettrici (ma anche ai lettori) di un universo, quello femminile, in grande trasformazione. «Credo che la vera liberazione, la vera uguaglianza, può arrivare soltanto con la scienza e con la tecnica», scriveva Marianna T. su «Noi Donne». Per poi così proseguire: «Che cosa è che differenzia radicalmente l'uomo dalla donna e concede a lui di lavorare come vuole? Il fatto che lui non deve fare figli, non ha disturbi mensili, non ha da crollare sotto il peso della gravidanza o da allattare i bambini e così via. Ebbene si passi questa incombenza alle macchine, ovvero alle incubatrici. Prima o poi dovrà pur essere possibile mettere in un'incubatrice un uovo femminile e un seme maschile, e tornare nove mesi dopo a ritirare il bambino; se ne parla ancora per scherzo, ma non credo sia più difficile che andare sulla luna. A questo punto non ci sarebbero più che delle differenze insignificanti, fra l'uomo e la donna. Mi rendo conto che questa rivoluzione biologica sarebbe sconvolgente, per i suoi effetti psicologici; ma d'altra parte non mi sembra affatto necessario che, per il semplice gusto di restare "donna" nel senso tradizionale della parola, si abbia da soffrire anche fisicamente». Desta interesse, scrive Possieri, il fatto che una rivista come «Noi Donne», «certo non assimilabile al movimento femminista - che all'opposto, in quegli anni, polemizzava duramente con le scelte e le posizioni politiche dell'Udi - né tantomeno alle teorie filosofiche del femminismo radicale di marca anglosassone, accogliesse nelle sue pagine un richiamo a visioni politico-culturali del tutto estranee alla storia del movimento delle donne di estrazione marxista». In realtà qualcosa aveva già cominciato a muoversi tra il 1967 - all'epoca della commercializzazione (ma solo a scopo terapeutico) della pillola anticoncezionale di Pincus - e il 1968, anno del movimento studentesco nonché dell'enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, che condannava ogni forma di controllo delle nascite. «Noi Donne» - fino a quel momento incentrata sulle tradizionali rivendicazioni emancipazioniste - cominciò ad occuparsi dei temi relativi alla cosiddetta «maternità consapevole»: fecondazione in provetta, coppie di fatto. Fu in quel momento che un deputato socialista, Gianni Usvardi, iniziò una battaglia per cancellare il divieto di far propaganda a favore del controllo delle nascite. Affiancato in ciò dall'Associazione italiana per l'educazione demografica (nata a Milano nel 1953) presieduta da Luigi De Marchi. E soprattutto dal Partito radicale di Marco Pannella, al quale De Marchi aveva aderito. Nel marzo del 1971 la Corte costituzionale stabilì l'incostituzionalità dell'articolo 553 del codice penale, che vietava la propaganda e l'uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, prevedendo fino a un anno di reclusione per chi si fosse reso responsabile di tale reato. Quella sentenza determinò una svolta. Ma ancora più importante fu il risalto che il periodico dell'Udi, nel gennaio del 1973, riservò all'attività del medico di Baltimora John Money, il quale per primo aveva formulato il concetto di identità di genere. Di che si trattava?


Simone de Beauvoir nel suo famoso libro Il secondo sesso (Il Saggiatore) aveva scritto: «Donna non si nasce, lo si diventa». Money volle dimostrare scientificamente quell'assunto e ne nacque un libro dal titolo Uomo, donna, ragazzo, ragazza, edito in Italia da Feltrinelli. La dimostrazione si basava sul caso dei due gemelli Reimer, omozigoti nati in una cittadina canadese nel 1965. Che tipo di dimostrazione? Nel tentativo di circoncidere uno dei due piccoli, il medico aveva compiuto un errore e aveva provocato un danno irreparabile al pene del bambino. I genitori disperati si erano rivolti al dottor Money (che avevano visto in un programma tv nel corso del quale il medico aveva reclamizzato la propria capacità di trasformare l'uomo in donna) e gli avevano chiesto aiuto. Money era intervenuto sul neonato, gli aveva asportato i testicoli e gli aveva costruito chirurgicamente un organo genitale femminile. Gli venne anche assegnato un nome da bambina, Brenda. Da questo momento in poi Brenda, avendo un gemello con lo stesso patrimonio genetico, sarà la prova vivente che non sono i geni, bensì l'educazione e qualcosa di indotto - capelli lunghi, bambole, gonne, nastrini, vestiti di pizzo - a fare la donna (o l'uomo). «Noi Donne» scopre il «caso Money» e, per la penna di Giulietta Ascoli, dedica articoli su articoli alla questione, che acquista una valenza rivoluzionaria. Sulle pagine della rivista viene attribuita al dottor Money la prestigiosa qualifica di «uomo emancipato». La pubblicazione in Italia del libro di Money (che verrà tre anni dopo) consacrerà la tesi che l'essere maschio o femmina non è deciso dalla natura bensì dalla società. A questo punto si rende necessaria una breve digressione. Chi sia interessato a sapere come andò a finire quella storia, deve assolutamente leggere uno straordinario libretto di Giulia Galeotti (anche lei, tra l'altro, ha scritto, per Bioetica come storia, un interessante saggio; è sulla concezione dei disabili a partire dall'Ottocento: a un progressivo riconoscimento dei loro diritti è corrisposta la tentazione di disfarsi della loro costosa presenza attraverso tecniche di controllo prenatale). Il libro della Galeotti che si occupa del «caso Money» si chiama Gender Genere.


Chi vuole negare la differenza maschio-femmina? L'alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica ed è stato pubblicato poco tempo fa dalle edizioni VivereIn. Racconta di come il ragazzo di nome Brenda, dopo un po', si sia istintivamente rifiutato di seguire la terapia ormonale del dottor Money, che avrebbe dovuto trasformarlo «definitivamente» in donna. Di come crescendo abbia preso sempre più i tratti del maschio e del fatto che, quando il padre gli rivelò la sua storia, abbia subito un autentico shock. Brenda decise a quel punto di amputarsi il seno e di assumere un nome maschile, David. Tentò una prima volta, senza successo, il suicidio. Si sottopose poi a un intervento per la ricostruzione del pene. Iniziò a uscire con le ragazze. Sposò Mary, già madre di tre figli. Ma David non riuscì a trovare un equilibrio. A questo punto raccontò la propria storia al giornalista John Colapinto per un libro che avrà successo negli Stati Uniti, ma non sarà tradotto in Italia. Finché, all'età di 38 anni, David-Brenda si uccise. Una storia spaventosa. Ma all'epoca in cui se ne occupa «Noi Donne» quello di Money sembra un esperimento perfettamente riuscito e la vicenda di David-Brenda viene presentata come un caso esemplare. Vengono poi (1978) la legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza; la prima bimba concepita in provetta (Louise Brown, luglio 1978); il boom dell'ecografia (in uso al policlinico Gemelli di Roma già dal 1971). Per l'aborto, sulla rivista dell'Udi si dà grande risalto al metodo di aspirazione Karman, che viene presentato come «fisicamente poco traumatizzante», un intervento che richiede «un'attrezzatura abbastanza semplice» e «una spesa relativamente esigua»: una tecnica «sperimentata positivamente da molte donne», di per sé «in grado di eliminare angosce e paure». Un articolo racconta così l'arrivo in uno spazio Aied di un «giovane ostetrico» londinese esperto di Karman: «L'annuncio della sua presenza, il sapere che avrebbe operato ininterrottamente dalle otto del mattino alle nove di sera, ha richiamato all'ospedale una grande quantità di donne che speravano, dopo tante tribolazioni e pellegrinaggi inutili, di ottenere l'aborto». «Noi Donne» dà risalto alle ricerche dello psicanalista argentino Arnaldo Rascovsky, che «dimostrano» l'esistenza dell'apparato psichico del feto solo a partire dal quarto mese di vita. Ricerche che, provando «indirettamente» che prima del quarto mese non esiste una vita psichica del nascituro, confermano «la validità etica e giuridica della legislazione vigente» in materia di aborto. «Quello che soprattutto ci deve interessare», scrive la rivista comunista, «è questo: la scienza ci ha aiutato a sapere con certezza che entro il terzo mese l'aborto non è un fatto così traumatico come alcuni vorrebbero indurre a pensare». E siamo al referendum sull'aborto (17 maggio 1981). Per questa fase va menzionata un'altra rivista «più teorica» che fa capo direttamente alla sezione femminile del Pci: «Donne e Politica», nata nel 1969 su iniziativa di Adriana Seroni che la dirige fino al 1981. Secondo Possieri, «Donne e Politica» assomigliava soprattutto nel primo periodo della sua diffusione, dal 1969 al 1977, «più a un bollettino di stampo cominternista che a una moderna rivista politica; rigorosamente in bianco e nero, con un'impaginazione a colonne, senza nessuna presenza iconografica e con alcuni interventi concepiti come dei saggi con tanto di note esplicative, non si prestava, certamente, a una larga diffusione di massa (solamente a partire dal dicembre 1977 venne inserito, per la prima volta, del "materiale illustrativo" e furono tolte le note a fondo pagina)». Dura era la contrapposizione di questa rivista al movimento femminista e il tema dell'emancipazione femminile era strettamente collegato al rapporto tra le donne e il mondo del lavoro. Nell'agosto del 1980, quando ormai si capisce che il referendum sull'aborto non può più essere evitato, «Donne e Politica» pubblica un dossier sul tema in questione, preceduto da un duro editoriale della Seroni contro «radicali e clericali», contro Marco Pannella e Carlo Casini, accusati di aver voluto il referendum con «argomentazioni assai diverse» ma con un obiettivo comune: «la distruzione o il profondo snaturamento della legge sull'aborto». «Noi Donne», invece, si distingue per la capacità di portare in primo piano i temi bioetici. Di qui in poi il periodico dell'Udi è per circa un quindicennio «un grande incubatore di idee di valori, di esperienze umane e di progetti politici che ha avviato», sottolinea Possieri, «un processo di inculturazione politico-simbolica di issues e parole d'ordine, esterne alla tradizione del movimento operaio, che lentamente iniziano a innestarsi sul nucleo storico della cosiddetta identità comunista».


Al referendum del 1981, come era già accaduto nel 1974 per il divorzio, il fronte laico vince. «Noi Donne» esulta. Solo nell'aprile del 1982 allorché presso l'Accademia delle Scienze di Parigi il professor Etienne-Emile Baulieu, allievo di Pincus, presenta la pillola Ru486 che «sostituendosi al progesterone» impedisce che l'ovulo fecondato si impianti «nell'utero», solo in quel momento il periodico dell'Udi solleva dubbi. Dubbi di ordine etico, perché «con questi preparati l'aborto sarebbe interamente gestito dalla donna, senza ospedalizzazione, senza traumi fisici, senza interferenze mediche, senza giudizi di chicchessia», quindi si sarebbe potuto correre il rischio di tornare all'aborto «privato» e di «perdere quanto dolorosamente e faticosamente» le donne avevano conquistato attraverso la legge sull'interruzione di gravidanza.


Ma la rivista continua a svolgere un ruolo decisivo, una sorta di «avanguardia» politico-culturale «nella ricezione e nella diffusione dei temi bioetici rispetto ai tradizionali luoghi di elaborazione culturale dei due grandi partiti della sinistra». Questo ruolo di avanguardia è caratterizzato da tre nomi: in primo luogo Annamaria Guadagni, poi Mariella Gramaglia e infine Franca Fossati, che dirigono «Noi Donne» a partire, rispettivamente, dal 1981, dal 1985 e infine dal 1991. «Donne e Politica» si mette sulla scia di «Noi Donne», dapprima sotto la direzione di Lalla Trupia, che nel 1981 prende il posto della Seroni. Poi con Livia Turco che succede alla Trupia, diviene responsabile della sezione femminile del Pci (lo sarà anche nel Pds) e, dopo un vivace confronto con il Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fa approvare dal Partito comunista il documento dal titolo «Dalle donne la forza delle donne. Carta itinerante» che accetta il pensiero della «differenza sessuale» elaborato dal gruppo milanese della Libreria delle donne. E qui riprende la discussione sulla pillola Ru486, sulla quale erano stati avanzati i dubbi di cui si è detto. Verso la fine degli anni Ottanta, quelle obiezioni iniziali vengono considerate non più attuali. E si allargano le frontiere entro la quali la nuova etica fa proseliti.


«Noi Donne» intervista la sottosegretaria alla sanità, la socialista Elena Marinucci, che dichiara di aver sollecitato la casa farmaceutica Roussel-Uclaf «a rendere disponibile in Italia la pillola per abortire». Nel 1987 l'Udi promuove un sondaggio tra le proprie militanti nel quale il 27 per cento risponde di essere favorevole alle nuove tecniche di fecondazione assistita. Un'analoga indagine, l'anno successivo, vede salire questa propensione al 60 per cento. «In definitiva», scrive Possieri, «quello che si delineò tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta fu l'incontro sul terreno comune dei temi bioetici tra almeno tre differenti tradizioni politiche: innanzitutto, la cultura femminista e quella emancipazionista che avevano trovato una nuova sintesi politico-simbolica nella Carta delle donne; in secondo luogo, la cultura politica di marca liberal-socialista che propose un nuovo patto sociale per una ridefinizione dell'etica pubblica ed elaborò un concetto di bioetica laica che includeva al suo interno molte battaglie tipiche del femminismo; e, infine, la cultura politica d'estrazione gramsciana che, dopo aver visto nascere la discussione di questi temi bioetici all'esterno del Pci, finì per essere il luogo politico che ne avrebbe ereditato le idee e i progetti, soprattutto dopo lo shock sistemico del 1989-1993».


Con il marxismo in crisi, «alla bioetica veniva affidata, dalla nostra "era delle incertezze", non solo la missione di strutturare una logica di razionalità laica che risolvesse le questioni specifiche della disciplina, ma anche il compito di proiettare le aspettative più in là, chiedendo a questa stessa razionalità laica di fungere da paradigma interpretativo per affrontare dilemmi etici di ogni tipo». Gli interventi su «MicroMega» e su «Notizie di Politeia» di Remo Bodei e Maurizio Mori, assieme alle tesi di Umberto Veronesi (esposte nel libro Colloqui con un medico, a cura di Giovanni Maria Pace, pubblicato da Longanesi), diedero corpo dottrinale a nuove forme di pensiero laico. Nuove? Queste forme di pensiero in realtà riportavano alla luce «la forma primigenia e aggiornata del marxismo ottocentesco, ovvero lo scientismo»; si assisteva così alla nascita di una costruzione politico-culturale che, è opinione di Possieri, «prevedeva non solo la creazione di un'opinione pubblica favorevole a ogni innovazione tecnico-scientifica, ma anche uno slittamento delle opinioni morali, che si muovevano verso una sempre maggiore apertura al relativismo». È lo slittamento morale di cui ha efficacemente trattato Jacques Ellul ne Il sistema tecnico (Jaca Book). Cioè - come scrivono nella prefazione a Bioetica come storia Sergio Belardinelli, Edoardo Bressan e Lucetta Scaraffia - «la tendenza tipica delle società tecnologiche ad accettare sempre in modo acritico le innovazioni tecniche, anche se, alla nascita, sono oggetto di condanna generale». Dopo un certo lasso di tempo, in genere cinque o dieci anni, «la novità sembra divenuta inevitabile e la spinta a essere moderni fa il resto inducendoci ad accettarla, anche se le riserve non sono sciolte». A provocare questo mutamento «è il confronto con gli altri Paesi, dove spesso le novità sono accettate in anticipo; e se altrove hanno dato cattiva prova, nella loro attuazione, non se ne tiene conto». È la tendenza a fare della scienza un'ideologia, forse l'unica sopravvissuta, e quindi ad affidare alle tecnica il compito di creare nuovi valori, una nuova etica del comportamento. «Una proposizione morale», scrive Ellul, «verrà considerata valida per un dato periodo solo se sarà conforme al sistema tecnico, se concorderà con esso». Anche se molto spesso, dopo anni, si scopre che i sospetti della prim'ora erano più che fondati e le obiezioni iniziali resistono al tempo che è trascorso. La resistenza iniziale, sostengono i tre prefatori a Bioetica come storia, molto spesso si basava su buone ragioni, a dispetto della circostanza che poi, rapidamente, queste ragioni sono state accantonate. Ricordarle a cose fatte, quando probabilmente l'innovazione è stata accettata ed è diventata «normale», è sempre utile, perché offre una base critica per osservare le trasformazioni che la tecnica ci impone, e un pensiero critico nei confronti delle innovazioni tecnoscientifiche è molto difficile da elaborare».


La tecnica, fa notare Ellul, proprio quando sembra che risolva problemi, ne crea ogni volta di nuovi, «e ci vuole sempre più tecnica per risolverli». Tutto ciò nella storia dell'ex Pci è servito a dare nuova linfa alla pianta primigenia che si era essiccata. «Il progressismo etico, l'entusiasmo per le tecnoscienze, ogni tecnologia che sembri confermare e rafforzare la libertà femminile», scrivono Belardinelli, Bressan e Scaraffia, «si sono infatti rivelati utili per riempire il vuoto ideologico con cui si è trovata improvvisamente a fare i conti la sinistra, e sono stati quindi accolti con favore dalle stesse persone che fino a poco tempo prima li guardavano con diffidenza». E non è detto, sostengono sia pure in modo non esplicito autore del saggio e prefatori del libro, che con questo «riempimento del vuoto» la sinistra ci abbia guadagnato.



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Bibliografia


Il saggio di Andrea Possieri sui mutamenti di orientamento della sinistra rispetto a temi come l'aborto, la contraccezione e la procreazione assistita è incluso nel volume Bioetica come storia. Come cambia il modo di affrontare le questioni bioetiche nel tempo (Lindau, pagine 247, Euro 23), che esce in libreria dopodomani, 5 maggio. Il volume, curato da Lucetta Scaraffia, contiene anche scritti di Emanuele Colombo, Giulia Galeotti, Lorenza Gattamorta, Francesco Tanzilli. A Giulia Galeotti si deve anche il saggio Gender Genere, edito lo scorso anno dall'editore VivereIn. Da segnalare anche il libro di Jacques Ellul Il sistema tecnico, uscito in Francia nel lontano 1977 e tradotto in Italia nel 2009 da Jaca Book.





1971 Una sentenza della Corte costituzionale, emessa nel marzo 1971, cancella l'articolo 553 del codice penale, che vietava la propaganda e l'utilizzo di ogni mezzo contraccettivo



1981 Viene sottoposta a referendum la legge 194 del 1978 sull'interruzione volontaria della gravidanza. Il tentativo di modificare le norme sull'aborto in senso restrittivo viene respinto con il 68 per cento di No.





La rivista «Donne e Politica» del Pci, diretta da Adriana Seroni, attaccò i radicali di Marco Pannella sul tema dell'aborto



Sociologo, teologo e ambientalista, il protestante francese Jacques Ellul, scomparso a 82 anni nel 1994, criticava la tendenza della società attuale ad accettare con l'andar del tempo tutte le innovazioni tecnologiche, aggirando o rimuovendo le pur fondate obiezioni inizialmente avanzate contro la loro adozione.


«Corriere della Sera» del 3 maggio 2011

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