26 maggio 2011

Addio a Giudici, semplicità come poesia

1924 - 2011 Scompare una delle voci più originali del '900: l'esperienza alla Olivetti, il soggiorno a Milano, l'impegno politico
di Paolo Stefano

Nei suoi versi solitudini urbane e angosce degli impiegati schiacciati dalla routine La scelta Negli anni 60 si definì uno dei tanti intellettuali non comunisti che trovarono nel Pci una speranza di socialdemocrazia


Una volta, in un'intervista del 2000, Giovanni Giudici disse che Saba gli aveva insegnato la pazienza: se te lo meriti, la vita viene incontro alle tue parole. Giudici andava fiero di aver avuto quella pazienza, anche perché per natura e carattere sembrava piuttosto un tipo impaziente. Basti guardare la sua biografia a zig zag.

Nato nel 1924 a Le Grazie, nei pressi di Portovenere, la perdita della madre a tre anni gli procura una «voragine di privazione» destinata a dilatarsi con gli anni e a improntare la sua poesia sullo «sgomento di esistere». Con il padre, che nel frattempo si sposa in seconde nozze, si trasferisce a Roma, dove frequenta collegi cattolici e dove, tra mille difficoltà economiche, gli riesce non semplice dissociarsi «dal poco rispettabile ceto dei morti di fame». Dopo un'iscrizione fugace a Medicina, voluta dal genitore, prevale la passione per la letteratura e decide di cambiare corso prima di unirsi all'antifascismo comunista, passando dopo l'8 settembre all'attività clandestina. Pendolare tra la sua Liguria e Roma, dopo aver passato sette mesi nella Guardia di Finanza, Giudici riprende gli studi e grazie all'amico Ottiero Ottieri conosce il vecchio sacerdote Ernesto Buonaiuti, che chiamerà «il mite eresiarca dei miei vent'anni». Eccola l'impazienza: l'educazione cattolica e l'adesione al partito Socialista (e poi al partito Comunista), la poesia e i primi racconti, le letture di Quasimodo, Sereni, Penna, Saba, le prime traduzioni da Eliot, ma anche la riflessione su Charles Péguy, Ernest Renan e Anatole France. Tra i propositi con cui apre il 1946 c'è quello di «seguitare il combattimento su tutti i fronti di battaglia», in primis letteratura e politica, che rimarranno i due interessi prevalenti della sua vita, insieme con il giornalismo, a cui si dedica dall'anno dopo, cronista e poi redattore dell'«Umanità», ma anche collaboratore dell'«Espresso». Fino al 1956 sarà impiegato degli uffici romani dell'USIS (United States Information Service). Il primo volumetto di poesie, Fiori d'improvviso, pubblicato a sue spese, è del 1953. Saba commenterà, per lettera, il suo esordio segnalando l'ascendenza montaliana e sabiana della sua ispirazione, elogiando la costruzione del verso, spronandolo a sperimentare «qualcosa che muova di più l'immaginazione» e augurandogli («non all'uomo, al poeta») «una qualche esperienza di vita: un grande dolore, un grande amore». L'amore Giudici l'aveva appena trovato in Marina Bernardi, sua futura moglie. Il dolore se lo portava dentro da sempre, ma forse Saba non lo sapeva. Giudici si affermerà un decennio dopo, con L'educazione cattolica, quando già da anni era stato assunto come impiegato della Olivetti a Ivrea, circondato da economisti come Franco Momigliano, sociologi come Luciano Gallino e Roberto Guiducci, dirigenti-scrittori come Paolo Volponi, collaboratori come Franco Fortini, Giorgio Soavi, Leonardo Sinisgalli, Geno Pampaloni. Da Ivrea a Torino, da Torino a Milano, le amicizie sono innumerevoli, così come le collaborazioni a giornali e riviste (prima tra tutte «Comunità», poi il «Corriere» e «l'Unità»). A Milano sarà compagno di stanza di Fortini, che sarebbe stato per lui «una specie di direttore di coscienza, che agiva sui giovani della "nouvelle gauche" come un Papa». La Milano del boom economico diventerà la sua città: conosce, tra gli altri, Montale, Sereni, il giovane Raboni e Vittorini, che nel celebre numero del «Menabò» (settembre 1961) dedicato a Letteratura e Industria ospita una serie di sue poesie con il titolo Se sia opportuno trasferirsi in campagna. Grazie a Fortini si avvicinerà al gruppo dei «quaderni piacentini» di Fofi, Cherchi e Bellocchio, si dichiara uno dei tanti intellettuali non comunisti che trovano nel Pci una speranza per realizzare la socialdemocrazia in Italia. Nel 1965 esce una raccolta antologica delle poesie del decennio precedente, La vita in versi, ed è lo stesso Fortini a segnalare l'amico come uno dei massimi esponenti dell'«internazionale crepuscolare».

In realtà senza rendere pienamente ragione della complessità solo apparentemente piana che fa di Giudici uno dei massimi poeti del Novecento, della necessità biologica della sua biografia in forma poetica (Autobiologia è la raccolta-chiave del '69), di quel programmatico abbassamento dei toni, che lo porta a una inquieta colloquialità, molto leggibile ma capace di trasmettere, con una forte dose di ironia, la solitudine angosciante e quasi kafkiana dell'individuo schiacciato dalle dinamiche del lavoro in uno scenario urbano-industriale restituito nei suoi tratti anche minimi. «Forse nessuno - ha scritto Zanzotto - ha rappresentato come Giudici, con volontà e insofferenza, consciamente o per coazione, il vissuto dell'uomo impiegatizio nella sua versione più tetra». La realtà messa in scena da Giudici attraverso un personaggio-maschera, smarrito e alienato alter ego dell'autore, si spinge ai limiti del surreale e dell'allucinazione. Con perfetta consequenzialità, Raboni ha detto che «la tentazione del non essere» veniva vinta da Giudici attraverso «il rifiuto del non dire». O forse, si potrebbe affermare, con Cesare Viviani, che Giudici «ha voluto sfidare la comunicazione: la vicenda dell'uomo sospeso nel vuoto dell'universo, il desiderio di conoscere l'angoscia di un ignoto irrimediabile possono anche essere detti - ma quanto è difficile! - con la semplicità del linguaggio comune». Nelle raccolte poetiche degli anni Settanta, Giudici non abbandona il suo ductus umile ma la scena si apre, sperimentando formule via via di prosa comico-grottesca o di frammenti memoriali da cui emergono oscuri traumi, sensi di colpa, ferite non risanabili («Nulla di giusto si compie senza dolore»).

Ma più in là la ricerca formale, esercitata anche nella intensa attività di traduttore, si impenna in soluzioni altamente letterarie, come nel libro più sorprendente, Salutz (1986), dove il poeta reinventa il sonetto per attraversare vari gradi dell'avventura amorosa riappropriandosi della tradizione petrarchesca. Quasi a voler anticipare nella forma il tema-guida della reclusione e dell' isolamento reso più esplicito in Fortezza (1990) e contraddetto dall'ulteriore apertura e affabilità delle ultime raccolte: diversamente dal frate incarcerato della raccolta precedente, in Quanto spera di campare Giovanni (1993), l'io narrante si trova ad abitare in una casa sul mare e può dire finalmente: «Mai ebbi un abitare / Così librato senza un prima e un poi». Lasciata Milano quasi un decennio fa, Giudici era tornato alle Grazie, dove era nato. Da tempo era entrato nella zona grigia di una malattia che lo rendeva estraneo a tutto, e lì forse avrebbe potuto ripetere serenamente quel che scrisse in una delle ultime poesie: «Navigando la mia mente / Dove qui nessuno parte / Vacuo tempo ricavando / Nuovi cieli, nuove carte».

«Giovanni Giudici, con la sua poesia e il suo impegno civile, ha dato tanto alle nostre comunità. Non ce ne dimenticheremo. Il prossimo 18 giugno, nel corso della festa della Marineria, i comuni del Golfo dei Poeti ne onoreranno la memoria». Lo annunciano Massimo Federici, Emanuele Fresco e Massimo Nardini, rispettivamente sindaci di La Spezia, Lerici e Porto Venere. In una nota i sindaci ripercorrono la vita del poeta dalla nascita, alle Grazie, nel comune di Portovenere, il 26 giugno 1924, dove oggi alle 17 si svolgono i funerali, fino all'inizio degli anni Novanta, quando tornò e si dedicò anche all'impegno politico locale. Giudici visse a lungo a Roma, dove studiò e iniziò la sua attività di poeta; poi a Ivrea e Torino, dove lavorò come copywriter all'Olivetti fino al 1958, quando si trasferì a Milano.



«Corriere della Sera» del 25 maggio 2011

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