La metà dei dipendenti pubblici inabili al lavoro sono prof e maestri
di Paolo Ferrario
La sindrome “burnout” colpisce soprattutto i docenti di lungo corso Già nel ’79 il 30 per cento faceva uso di psicofarmaci
E poi una mattina ti alzi e non hai più voglia di andare a scuola.
Avverti un diffuso malessere che non capisci bene cos’è, ma di una cosa sei sicuro: questo mestiere non ti piace più. Eppure sono vent’anni che vai in cattedra, insegnare ti appassiona e i ragazzi ti stanno pure simpatici, in classe c’è un buon clima, eppure... Eppure, il “mal di scuola” può colpire quando meno te lo aspetti e, di solito, ne rimangono vittima gli insegnanti migliori, quelli più motivati che mai e poi mai penserebbero di trovarsi, tutto d’un tratto, in una condizione di apatia simile. Gli inglesi lo chiamano “burnout”, letteralmente “bruciare fuori”, cioè spegnersi, esaurirsi. E proprio di esaurimento (oltre che di tumore) si ammalano tanti docenti e non da oggi.
Già più di trent’anni fa, nel 1979, una ricerca della Cisl evidenziava che oltre il 30 per cento degli insegnanti faceva uso di psicofarmaci. Più recentemente, uno studio ha evidenziato che il 49,8% dei dipendenti pubblici, con patologie psichiatriche, valutati dai Collegi medici delle Asl per l’inabilità al lavoro, è composto da insegnanti, il 37,6% da impiegati, il 28,3% da operatori sanitari e il 16,9% da operatori manuali. Lo stesso studio osserva che il 14,2% degli insegnanti visitati ha sviluppato anche patologie neoplasiche (tumori), contro l’11% degli operatori sanitari, il 9,2% degli impiegati e il 7,2% degli operatori manuali.
«Fare l’insegnante è un mestiere usurante», spiega Anna Di Gennaro, responsabile del primo e, finora, unico sportello di ascolto per docenti in crisi, aperto alla fine del 2010 a Milano nella sede di Diesse Lombardia, in via Pergolesi. In questa veste ha recentemente scritto una lettera aperta al ministro Gelmini chiedendo di introdurre l’“anno sabbatico” per gli insegnanti a rischio burnout.
Maestra elementare per trent’anni, Di Gennaro è colpita proprio dal “mal di scuola” e, in Commissione medica, viene visitata dal dottor Vittorio Lodolo D’Oria, uno dei pionieri italiani nello studio della sindrome burnout. La maestra decide di venirne fuori, si cura, lascia la scuola e si butta nell’aiuto ai tanti colleghi malati.
Dal 2004 risponde alle domande di insegnanti in crisi sul sito Orizzonte scuola, mentre da qualche mese è impegnata allo sportello milanese.
«In Italia – denuncia – questa malattia è ancora poco conosciuta e assolutamente non riconosciuta dalle istituzioni scolastiche che, finora, non hanno fatto nulla sul versante della prevenzione. Adesso, però, c’è una legge, il Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, che obbliga i dirigenti scolastici a tutelare la salute degli insegnanti e degli alunni».
Già, perchè un professore che “impazzisce” può fare danni anche molto gravi in classe. «Ogni volta che leggiamo sui giornali di episodi di violenza o simili, che riguardano insegnanti, possiamo quasi essere certi che si tratti di burnout non capito, sottovalutato e, quindi, non curato», ricorda Anna Di Gennaro.
All’estero, invece, il “mal di scuola” è conosciuto e assolutamente non sottovalutato. In Francia, a La Verrier, un sobborgo di Parigi, c’è addirittura un ospedale psichiatrico per insegnanti depressi, aperto dopo una serie impressionante di suicidi tra professori e maestri. In Inghilterra, è comune a tutte le scuole l’abitudine di riunire, almeno una volta al mese, l’intero corpo docente per affrontare, tutti insieme, il “rischio burnout”.
«La solidarietà tra colleghi è fondamentale – ricorda Di Gennaro –. Tra i primi sintomi c’è il senso di solitudine e la vergogna a parlarne. L’aiuto degli altri professori può essere importante per capire che, anche se si sta male, se ne può uscire, è possibile guarire e anche tornare a lavorare. Magari non in classe, ma in biblioteca o in segreteria, come in alcune realtà è, per altro, già stato fatto».
Essenziale è però che si muovano le istituzioni, il Ministero e gli enti locali, soprattutto sul versante della formazione dei dirigenti scolastici, ancora «troppo lenti a riconoscere in tempo il malessere che colpisce tanti insegnanti».
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Avverti un diffuso malessere che non capisci bene cos’è, ma di una cosa sei sicuro: questo mestiere non ti piace più. Eppure sono vent’anni che vai in cattedra, insegnare ti appassiona e i ragazzi ti stanno pure simpatici, in classe c’è un buon clima, eppure... Eppure, il “mal di scuola” può colpire quando meno te lo aspetti e, di solito, ne rimangono vittima gli insegnanti migliori, quelli più motivati che mai e poi mai penserebbero di trovarsi, tutto d’un tratto, in una condizione di apatia simile. Gli inglesi lo chiamano “burnout”, letteralmente “bruciare fuori”, cioè spegnersi, esaurirsi. E proprio di esaurimento (oltre che di tumore) si ammalano tanti docenti e non da oggi.
Già più di trent’anni fa, nel 1979, una ricerca della Cisl evidenziava che oltre il 30 per cento degli insegnanti faceva uso di psicofarmaci. Più recentemente, uno studio ha evidenziato che il 49,8% dei dipendenti pubblici, con patologie psichiatriche, valutati dai Collegi medici delle Asl per l’inabilità al lavoro, è composto da insegnanti, il 37,6% da impiegati, il 28,3% da operatori sanitari e il 16,9% da operatori manuali. Lo stesso studio osserva che il 14,2% degli insegnanti visitati ha sviluppato anche patologie neoplasiche (tumori), contro l’11% degli operatori sanitari, il 9,2% degli impiegati e il 7,2% degli operatori manuali.
«Fare l’insegnante è un mestiere usurante», spiega Anna Di Gennaro, responsabile del primo e, finora, unico sportello di ascolto per docenti in crisi, aperto alla fine del 2010 a Milano nella sede di Diesse Lombardia, in via Pergolesi. In questa veste ha recentemente scritto una lettera aperta al ministro Gelmini chiedendo di introdurre l’“anno sabbatico” per gli insegnanti a rischio burnout.
Maestra elementare per trent’anni, Di Gennaro è colpita proprio dal “mal di scuola” e, in Commissione medica, viene visitata dal dottor Vittorio Lodolo D’Oria, uno dei pionieri italiani nello studio della sindrome burnout. La maestra decide di venirne fuori, si cura, lascia la scuola e si butta nell’aiuto ai tanti colleghi malati.
Dal 2004 risponde alle domande di insegnanti in crisi sul sito Orizzonte scuola, mentre da qualche mese è impegnata allo sportello milanese.
«In Italia – denuncia – questa malattia è ancora poco conosciuta e assolutamente non riconosciuta dalle istituzioni scolastiche che, finora, non hanno fatto nulla sul versante della prevenzione. Adesso, però, c’è una legge, il Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, che obbliga i dirigenti scolastici a tutelare la salute degli insegnanti e degli alunni».
Già, perchè un professore che “impazzisce” può fare danni anche molto gravi in classe. «Ogni volta che leggiamo sui giornali di episodi di violenza o simili, che riguardano insegnanti, possiamo quasi essere certi che si tratti di burnout non capito, sottovalutato e, quindi, non curato», ricorda Anna Di Gennaro.
All’estero, invece, il “mal di scuola” è conosciuto e assolutamente non sottovalutato. In Francia, a La Verrier, un sobborgo di Parigi, c’è addirittura un ospedale psichiatrico per insegnanti depressi, aperto dopo una serie impressionante di suicidi tra professori e maestri. In Inghilterra, è comune a tutte le scuole l’abitudine di riunire, almeno una volta al mese, l’intero corpo docente per affrontare, tutti insieme, il “rischio burnout”.
«La solidarietà tra colleghi è fondamentale – ricorda Di Gennaro –. Tra i primi sintomi c’è il senso di solitudine e la vergogna a parlarne. L’aiuto degli altri professori può essere importante per capire che, anche se si sta male, se ne può uscire, è possibile guarire e anche tornare a lavorare. Magari non in classe, ma in biblioteca o in segreteria, come in alcune realtà è, per altro, già stato fatto».
Essenziale è però che si muovano le istituzioni, il Ministero e gli enti locali, soprattutto sul versante della formazione dei dirigenti scolastici, ancora «troppo lenti a riconoscere in tempo il malessere che colpisce tanti insegnanti».
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«L’informazione è ancora troppo carente»
di Enrico Lenzi
Un fenomeno sconosciuto «persino ai diretti interessati». È diretto Vittorio Lodolo D’Oria, medico, specialista in tema di burnout, nell’affrontare la questione dei docenti colpiti da disagio mentale. Un tema sul quale ha scritto anche due libri dal titolo piuttosto eloquente: «Scuola di follia» e «Pazzi per la scuola».
Professore, ma come è possibile che i docenti non conoscano i rischi della loro professione?
Lo verifichiamo direttamente nelle commissioni mediche del lavoro a cui i casi vengono segnalati. In pochissimi hanno avuto la percezione dei rischi e questo non permette un intervento tempestivo e preventivo prima di sviluppare vere e proprie patologie psichiatriche. E questo mancato intervento porta a conseguenze pesanti. Pensi che il 50% dei docenti che passano al vaglio delle commissioni mediche risulta inabile in modo permanente all’insegnamento. E vi è addirittura un 10% che risulta inabile a qualsiasi professione.
Cifre spaventose. Quali le cause?
Quella dell’insegnante è tra le categorie considerate “helping profession”, cioè esposte a rischi professionali che possono sfociare in patologie con un’usura psicofisica. Eppure, nonostante oggi il Testo unico per la sicurezza nei posti di lavoro preveda un’analisi e un’attenzione allo stress lavoro correlato, non se ne parla. Ma stare a contatto con un’utenza come quella degli studenti comporta quotidianamente uno stress, che, se non controllato, può sfociare, appunto, in patologia.
Non si rischia di dipingere la scuola come una trincea?
Non lo penso. Credo, invece, che vadano soltanto valutati i rischi professionali, senza farsi schiacciare dagli stereotipi sulla figura docente, o senza essere travolti da una scuola sempre più globalizzata e caricata di compiti educativi e sociali non sempre di sua esclusiva competenza.
A cosa si riferisce in particolare?
Pensi alla presenza di alunni disabili e magari una scarsa preparazione del docente ad affrontare la situazione. Stessa considerazione per l’inserimento degli studenti stranieri che non conoscono la lingua italiana. Senza un’adeguata preparazione tutto questo può portare a stress.
In primo luogo potenziando l’informazione corretta e capillare tra gli stessi insegnanti, affinché prendano coscienza dei rischi. Sarebbe un primo passo importantissimo.
Una recente ricerca condotta su un campione di 5.300 docenti ha dimostrato che soltanto uno su cinque risulta consapevole dei rischi.
E non parliamo soltanto di quelli legati alla patologia psichiatrica. Indagini mediche internazionali dimostrano che gli insegnanti sono una categoria professionale che sviluppa un alto tasso di malattie tumorali. Del resto la depressione, l’ansia e lo stress comportano immunodepressioni, che lasciano aperte le porte a malattie e infezioni.
Davvero uno scenario disastroso. Ma è possibile fare davvero qualcosa per cambiare la situazione?
Ribadisco: in primo luogo informare sui rischi. In questo modo si aiuteranno gli stessi docenti a non essere prigionieri degli stereotipi che circondano la loro professione. Essere consapevoli dei rischi permette anche di riconoscerne l’insorgenza e poter intervenire in tempo.
Quali i segnali da non sottovalutare?
L’insorgere di un senso di autosvalutazione, essere sfiduciati nelle proprie capacità e nel futuro, sentirsi inadeguato. Primi segnali che se non colti portano a conseguenze che nel tempo possono diventare addirittura manie di persecuzione, depressioni invalidanti e così via.
Chi, secondo lei, dovrebbe farsi carico di questo problema?
Penso che i dirigenti scolastici dovrebbero mostrare maggior attenzione, cercando di gestire i casi in modo corretto. Ma anche i sindacati dovrebbero farsene carico da un punto di vista contrattuale. Oggi su questo fronte sono i grandi assenti.
«Avvenire» del 5 marzo 2011
Sono un'insegnante precaria. Vivo e lavoro a Reggio Emilia e sono un soggetto a rischio burnout. Oltre a ciò nella mia scuola si verificano spesso casi di mobbing a spese di mie colleghe precarie. Desidererei avere per favore dei recapiti a cui rivolgermi per risolvere il problema.
RispondiEliminaGrazie
E.Accolla
Anche io sono un'insegnante precaria e da pochi anni. Ultimamente piango spesso e mi sento incapace. Incompetente e impotente...perché dovrei lavorare in un laboratorio che in realtà non esiste. ..percio' mi trovo in forte disagio e ho forti crisi di pianto e in più devo fare la pendolare perché ho la bimba a casa e dista circa 700 km dalla scuola in cui lavoro. Perciò anche viaggi stremanti e soldi che a fine mese non bastano a coprire le spese dei viaggi perché lavoro su uno spezzone di cattedra. Ne vale la pena? E poi ogni anno non so se lavorerò e dove....mi sento stanca
RispondiEliminaTroppo. Sn stanca di piangere anche davanti a mia figlia. Si può stare così a trentacinque anni? Quanto si può sopportare? Anche io vorrei dei recapiti a cui rivolgermi e raccontare come sto. Grazie