08 marzo 2011

Savinio, il teorico della Metafisica

In un ottimo allestimento (labirintico come il pittore), una mostra dedicata al fratello di Giorgio De Chirico. La «pasta cromatica» della materia pittorica dà rilievo alle scene fantastiche
di Andrea Beolchi
C’erano fastidiosi brusii, nelle sale affollate il giorno che la mostra veniva presentata alla stampa, che sospiravano sulla grandezza dei quadri mortificata dalla 'consueta' balordaggine dell’al­lestimento. Io l’ho trovato invece così perfetto che mi pare giusto cominciare proprio da qui, da questo allestimento labirintico come è labirintico lui, Andrea Savinio, per varcare la soglia di una pittura lussuosa. Entri dun­que, ti accoglie En visite; ti senti, da visitatore, già preso nel gioco, e non per un semplice calembour di parole. En visite, che fa parte di un ciclo dedicato al 'canto d’amore' realizzato da Savinio per casa Rosenberg tra il 1930 e il ’31, nelle parvenze di u­na scenetta borghese è in realtà un laboratorio affollato degli 'strumenti del mestiere' di questo alchimista dello sguardo che ha per fine 'la rivelazione del­l’uomo nascosto' ottenuta iniet­tando in ogni elemento della scena i germi della mutazione: in questa tela le due donne hanno subìto un trapianto di testa, che sono ora quelle di uno struzzo e di un pellicano; lo spazio si è pe­ricolosamente incurvato precipi­tando in una dimensione che non è più quella convenzionale del 'genere', la tenda (un elemento, si sa, molto caro all’im­maginario metafisico del fratel­lo) si è gonfiata di elettricità co­me un fulmine olimpio, il cielo là fuori si è essiccato in una materia dura e scintillante in cui le nuvole sono piantate come fusi.
Sembra una variante della visio­ne metamorficata di Nivasio Dolcemare descritta in Casa 'La vita', dove Savinio narra come il protagonista, suo alter ego, «cominciò a vedere diversamente.
Vedeva al di là dell’abitudine», così che quei borghesi giocatori di carte prendono a gonfiarsi, a volare come palloncini contro il soffitto, a buttar proboscidi e occhi di polpo. Non tragga in in­ganno, però, l’assonanza con l’u­niverso onirico di marca surrea­lista (di cui fu del resto sempre un 'amico polemico'): quel che distingue la pittura di Savinio, persino in composizioni in cui la realtà appare rarefatta, come nella superba Bataille des Cen­taures del 1930, è di travasare la letteratura e il mito dentro una pittura carnosa e sensuale, in­somma non dentro la materia del sogno o della memoria a­stratta, ma in quella della verità vera, palpitante di vita. Gillo Dorfles lo nota perfettamente in due parole, nella breve nota che arricchisce il catalogo (24 Ore cultura) di un contributo indispensabile: «Solo con ecceziona­le 'meticolosità' pittorica, raffi­natezza cromatica e voluta 'pla­sticità' delle scene mitiche, era possibile raggiungere quell’au­reo livello di 'credibilità' delle immagini, così pittoricamente realistiche e concettualmente fantastiche, che ritengo persino maggiore di quello di de Chiri­co Già, il destino critico di Andrea de Chirico (lo pseudonimo di Al­berto Savinio nacque nel 1914, quando l’artista ventitreenne pubblicò, usando per la prima volta quel nome, Les chants de la mi-mort sulla rivista 'Les Soirées de Paris'), si sa, è stato sempre legato a filo doppio con quello del fratello 'maggiore' Giorgio, e la sua pittura messa in relazione subordinata con quella Metafisi­ca di cui il fratello fu l’inventore (lui ne fu invece il teorico più a­cuto, con i fondamentali contri­buti pubblicati su 'Valori Plasti­ci' fra il 1918 e il ’22); a lui in­somma toccava il ruolo del 'grande dilettante', come egli stesso si definiva, ma è difficile dire con quale dose d’ironia lo facesse, non tanto nei confronti del pictor optimus, ma di quanti, accecati da un confronto sba­gliato, non scorgevano la vera qualità della sua pittura, che è anche ciò che più ne segna la di­stanza dagli algidi nitori metafi­sici, e cioè quell’alta dose di vo­luttà golosa (di diletto) di cui è fatta la pasta cromatica; il valore plastico della materia graffiata, 'pettinata', con cui dipinge i gialli, gli azzurri e i rossi delle sue isole dei giocattoli: dove il cielo e il paesaggio evaporano in una dimensione lontana, ottica­mente e mentalmente lontana come il mito, mentre quei giochi multicolori assumono il peso della realtà tangibile; essi solo hanno la solida tangibilità del vero. La sdefinizione dello sguar­do in Savinio è funzionalmente legata a quella materia pittorica magmatica e cangiante, fermata a uno stato provvisorio e sempre pronta a ridefinirsi in altra carne. Ma torniamo all’allestimento.
Sulle pareti del percorso si apro­no, di tanto in tanto, delle feri­toie che creano un singolare di­sturbo di percezione: la prima sensazione è infatti che si tratti di piccoli specchi sghembi come le finestre o le pareti dei teatri saviniani, in cui si riflette un quadro che hai alle spalle. Ti av­vicini, ci guardi attraverso e sco­pri che in realtà si tratta di una finestra che dà sulla stanza ac­canto, da cui spunta il particola­re di un mare (da cui sorge un’i­sola preziosa) o il grande arco de I frutti delle Esperidi. Capisci che non ti eri sbagliato: sono davve­ro specchi, ma anche vie di fuga per lo sguardo al di là dell’abitudine.

Milano, Palazzo Reale, ALBERTO SAVINIO. La commedia dell’arte
Fino al 12 giugno
Il destino critico dell’artista (lo pseudonimo di Alberto Savinio nacque nel 1914) è sempre stato legato al fratello «pictor optimus», da cui lo differenzia la giocosità magmatica. Fu sempre un «amico polemico» dei surrealisti
«Avvenire» dell'8 marzo 2011

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