30 marzo 2011

Il romanzo non serve più alla democrazia

I due critici affrontano le mutazioni della letteratura in occasione dell'uscita del volume sul futuro della narrativa contemporanea

di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli

Il più borghese tra i generi è svuotato. Ne discutono Berardinelli e Cordelli, non sempre d'accordo. La diagnosi: l'editoria è infatuata di false narrazioni e i lettori ubbidiscono al misterioso imperativo di comprarle


È uscito questa settimana «Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana» (Marsilio) di Alfonso Berardinelli. Qui ne discute con Franco Cordelli. Cordelli - Nella premessa al tuo libro, dici che il romanzo ormai è un genere più editoriale che letterario, fino al punto che una quantità di libri che palesemente non sono romanzi vengono venduti con la fascetta editoriale «si legge come un romanzo». Perfino «inflazione» appare a questo livello un termine inadeguato. Tutto è romanzo, nulla lo è. Ma proprio pochi giorni fa un tuo amico, Filippo La Porta, scriveva contro la legione dei profeti della morte del romanzo. Io sinceramente non so chi siano tutti questi profeti. L' unico, non profeta, ma di ciò testimone, sembri tu. Berardinelli - Profeta, preferirei di no. Certo è che non sono molti coloro che manifestino pessimismo sul presente e il futuro del romanzo in Italia. Come tutti, sono diventato prudente. Mi limito a constatare quello che avviene. Il romanzo è un oggetto del desiderio che mi sembra raramente venga raggiunto dai nostri autori. Forse, per continuare con Buñuel, è anche un fantasma della libertà. Questo potrebbe spiegare perché tanti produttori di narrativa. Tantissimi sono anche i poeti. Ma con il romanzo le cose si complicano, perché il romanzo è una merce particolarmente vendibile, o così immaginano gli editori. Di fatto dopo sei mesi, l'ottanta per cento della produzione narrativa non dice nulla neppure a chi ne ha preso visione, né le librerie dell' usato sono disposte ad acquistare prodotti così rapidamente deperiti. Eviterei assolutamente in queste discussioni sul romanzo di ripetere in qualche forma la vecchia favola di Eco su apocalittici e integrati. Certo è che bisognerà trovare una spiegazione al fatto che l' editoria risulta infatuata di falsi romanzi e che i lettori, anche se non li leggono, ubbidiscono al misterioso imperativo di comprarli. Cordelli - C'è un saggio che dà il titolo al tuo libro, Non incoraggiate il romanzo. Si riferisce a un testo di Abraham Yehoshua, La democrazia uccide il romanzo. Lo scrittore israeliano sostiene una tesi che direi ovvia: essere il romanzo non solo la forma letteraria, o il genere, caratteristico della società borghese e della democrazia, ma addirittura la forma che alla democrazia ha dato un contributo culturale importante. Paradosso è che, a ciclo compiuto, a democrazia realizzata, corrisponde un genere che ormai non serve più. Una prova sarebbe che nella seconda metà del Novecento non esistono romanzi altrettanto validi di quelli della prima metà. In quanto a qualità, se per qualità si intende possibilità di innovazione di una forma nel suo rapporto con la realtà rispecchiata e criticata, Yehoshua ha ragione. Resta da verificare se il romanzo non si sia, per così dire, evoluto riflettendo su se stesso in quanto forma scissa dal contesto. In questo senso qualche romanzo importante nel secondo Novecento c'è sicuramente stato: quelli di Nabokov su tutti, ma anche del tardo Philip Roth, scrittore che si situa sulla linea di confine che separa o unisce arte e vita. Di fatto Roth porta l'autofiction fino alle soglie di una nuova epica. Personalmente credo che questi esempi e altri non siano però sufficienti a farci ripensare a una vitalità della forma romanzo. Mi colpisce però che tu dica che l'ottimismo di Yehoshua è un ottimismo fittizio. Yehoshua, questo ottimismo, è lui a metterlo in scena, o sei tu che lo ritieni tale? Berardinelli - Cito Yehoshua per vedere l'effetto che fa. Oggi esiste, a proposito del romanzo, un ottimismo di fatto che prescinde da giustificazioni sociali o storiche o formali. In questo senso ho parlato di romanzo come genere editoriale. Ho suggerito maliziosamente l'idea che i primi e più veri ottimisti, ovvero i più interessati, siano coloro che il romanzo devono venderlo. Questo dato di fatto socio-mercantile è diventato il surrogato di un'ideologia favorevole al romanzo. Non mi pare che siano molti gli autori attuali di romanzi che si pongano i problemi di Yehoshua e in parte miei. Ma non solo il romanzo è in mutazione, lo è anche la democrazia. Considerata il presupposto scontato delle nostre società, la democrazia culturale implica una creatività letteraria e artistica ubiqua, intesa più come diritto a produrre che come valore del prodotto. L'attuale sistema culturale democratico ha notevolmente ridotto l'impatto sociale della letteratura e perfino di un genere tradizionalmente popolare come il romanzo. Oggi il rapporto democrazia-romanzo viene inteso come incremento del consumo culturale e come rinuncia al giudizio sulla qualità dei prodotti consumati. Provocatoriamente, in conclusione della mia premessa, dicevo che è finita un' altra epoca (ne finisce una ogni dieci anni!) l' epoca del giudizio di valore sulle arti. Comunque, i confronti con la prima metà del Novecento li ritengo impropri. La nozione che si ha del presente non è mai confrontabile con quella che si ha del passato. Dobbiamo regolarci con la nostra capacità di discriminazione, che non può essere fondata sul confronto fra Kerouac e Joyce, o fra Volponi e Svevo. Non è mai automatico il giudizio critico: va formulato anche semplicemente a partire dalle ambizioni e intenzioni dell' autore, dal confronto fra quello che fa e quello che crede di fare. Cordelli - In un capitolo dedicato ad Antonio Scurati, affronti un tema che mi intriga in sé e per quanto ti riguarda, il tema della realtà. Sembrerebbe che per te la buona narrativa è realistica, la cattiva narrativa irrealistica. Tanta narrativa che si tende a supporre buona però la si pensa non propriamente realistica. Se facessi dei nomi cadrei facilmente nella tua trappola, dunque non li faccio. Davvero la narrativa non può essere altro che realistica? Berardinelli - È il problema dei problemi. Non solo letterario ma perfino filosofico. Nessuno è in grado di definire cosa sia realtà, quindi l'uso del termine realismo crea miraggi. Il realismo è una scelta formale, quindi uno stile narrativo che filtra come realtà alcune realtà e ne discrimina altre. Esiste comunque un problema di genere letterario. In una certa misura moderatamente scettica, ai confini fra generi io preferisco credere che non credere. Tanto per scherzare un po' direi che, per esempio, mentre i poeti sono per lo più esibizionisti, i narratori sono per lo più voyeur: i primi ti vengono incontro con il loro io o le loro visioni, i secondi recedono nell'ombra perché si appassionano a vedere che cosa succede agli altri. Oltre un certo limite, salvo eccezioni, l'abolizione del riferimento a una qualche realtà modifica la fisiologia della narrazione e fa uscire il romanzo dalla propria identità storica e formale. Detto questo, credo che il rapporto con la realtà sia ineliminabile nella vita di ogni organismo vivente, da quelli unicellulari fino agli esseri umani... Si tratta di ricchezza o povertà di interazione fra interno e esterno... Cordelli - Dici lapidariamente: non mi piace leggere Landolfi. Io che l'ho molto amato, da tempo dico: non mi piace più leggerlo. Pure sento che queste due frasi non sono uguali. Da una parte l'ho letto troppo, l'ho assimilato, mi hanno stancato le sue maschere, preferirei che vi fossero meno maschere possibili. Il tuo dispiacere appare un pregiudizio. Berardinelli - Sai, esistono anche reazioni di gusto. Il gusto è dogmatico. Di solito Landolfi viene incluso in una famiglia che comprende Kafka, Gadda, Beckett, Savinio... Sembrerà strano, ma tutti quegli altri mi piacciono molto, Landolfi no. I perché li ho scritti nel libro. Cordelli - Vorrei scivolare su un altro piano, più personale, più tuo. Uno studioso di Volponi, Emanuele Zinato, sostiene che sei l' ultimo erede della linea Debenedetti. Non credo sia vero. Debenedetti è contratto e metaforico, la tua frase stilisticamente è più distesa, è colloquiale, è anglosassone. E quando sei veloce e sentenzioso, epigrammatico, mi spiace dirlo perché so che non ti piace, resta in te, attraverso Fortini, la traccia di Adorno. Tu sei, in Italia, l'ultimo adorniano. Berardinelli - Come sa ognuno di noi che abbia superato la maggiore età, la propria composizione chimica è complicata e plurima. La mia formazione è stata lenta e laboriosa, come di solito succede ai critici e ai saggisti, e questo ha creato varie stratificazioni. Ai due estremi ci sono Adorno e Benjamin, da un lato, che oggi tendo piuttosto a dimenticare, ma anche Auerbach e Spitzer, che mi sono utili e dall'altro Edmund Wilson, Auden e Orwell, amati e adottati più tardi come antidoto contro l'infatuazione germanica che ha ammorbato per vent'anni la cultura italiana. A metà degli anni Settanta mi dissi che sarebbe stato bello tradurre Benjamin nel linguaggio di Wilson... Questo aveva a che fare con l'involuzione teoricistica e politica dell'allora New Left. Non ci penso molto, ma non escludo che Adorno sia lì, in qualche angolo della mente, a ricordarmi che il rapporto sociale non è mai spontaneità, è anche attrito, frustrazione, angoscia. Per questo ho insistito sul nesso tra misantropia e critica sociale, ne ho fatto un tema di riflessione. Cordelli - Non hai mai mostrato una particolare passione per la forma narrativa. Adesso pubblichi un intero libro su di essa, per di più sulla più ripugnante, quella contemporanea. Hai pubblicato tanti libri che per brevità definisco miscellanei. È il tuo terzo libro che, altrettanto brevemente, direi monografico. Berardinelli - Il romanzo è sempre stato il mio problema. Ma presto mi sembrò un genere macchinoso e condizionante. Da adolescente, prima lessi Tolstoj, poi scoprii Faulkner. Subito dopo arrivai a pensare che Eliot fosse ancora meglio, cioè più sintetico, perché saltava i passaggi. Poi ho cominciato a diffidare della lirica e della filosofia e ho cercato di correggermi con la capillare complessità di nessi tipica della narrazione. C'è anche qualcosa di occasionale in questo. I miei amici mi rimproveravano di ignorare o quasi, come critico, la narrativa contemporanea. Ho sentito il dovere di applicarmi. Un critico ha dei doveri, no? Comunque ho cominciato dalla fine. Nel cassetto, però, ho un libro sul romanzo occidentale da Cervantes a Kafka ...

«Corriere della Sera» del 26 marzo 2011

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