16 marzo 2011

Il Bel Paese in carne ed ossa

I ragazzi e il giorno dell'unità
di Alessandro D'Avenia
Si avvicinava il 17 e, essendo per la scuola gior­no di vacanza, si stava per consumare una delle dimostrazioni di autoreferenzialità (in ger­go calcistico: autogol) della scuola. Un giorno in cui si è 'pieni' di una storia, si riduceva, me con­nivente, a un giorno di 'vuoto' (vacatio, vacan­za); un giorno di appartenenza a un giorno di in­appartenenza. Solo chi appartiene a qualcuno si appartiene e desidera che qualcuno gli appar­tenga. Questa è l’origine di ogni genuina pietas (la cura verso coloro ai quali apparteniamo): chi non cura la sua appartenenza diventa 'spietato' (sen­za pietà) verso i suoi stessi cari. Chi non appar­tiene a una famiglia, a una città, a una patria non si appartiene e non riesce ad accogliere, perché non sa cosa dare. Può solo prendere e pretende­re e, se non ci riesce, recrimina o fugge.
Ma Edoardo, uno dei miei alunni, mi ha risve­gliato, come accade quando mi adagio su solu­zioni comode: «Prof per i 150 anni dovremmo fa­re una lezione speciale». Farò lezione sul testo di Petrarca «Italia mia, benché il parlar sia indarno». Il poeta – già allora e più di oggi – la scorge vul­nerata nel suo «bel corpo» e chiede a Dio: «che la pietà che Ti condusse in terra / Ti volga al Tuo di­letto almo paese». Petrarca chiede rinnovata pietà e i miei ragazzi negli scritti che ho chiesto loro per l’occasione parlano di «cura». Proprio il dram­ma dell’in-appartenenza spinge dei liceali a par­lare dell’Italia in modo che non mi aspettavo: il coraggio di rimanere anziché fuggire, per pren­dersi «cura» di quel «bel corpo». La «pietà» invo­cata da Petrarca e la «cura» indicata dai ragazzi so­no la stessa cosa. Ancora una volta passato e futuro si stringono e mi costringono a rinascere, anche in mezzo al disfattismo dilagante. Per poter essere 'originali' bi­sogna avere delle origini: solo chi appartiene può appartenersi e scoprirsi. Alcuni dei miei ragazzi sentono il dramma dell’in-appartenenza e inve­ce di starsene a guardare, paralizzati dalla malinconia stanca degli adulti, propongono la terapia: prendersi cura dell’Italia. Non vogliono esserne figli disamorati, ma padri innamorati.
Ne avranno la possibilità solo attraver­so il lavoro, teso a costruire non solo il bene privato, ma soprattuto il bene co­mune: quel lavoro che è servizio e che, da professore, vivo, provando a prendermi cura dei ragazzi, il mio Bel Pae­se in carne e ossa. Mi è così tornato in mente che la letteratura che insegno comincia con il patrono (padre e protettore), di que­sta nostra terra: Francesco. Un vero sognatore, innamorato di Dio, della realtà e degli uomini. Di padre umbro e madre straniera, il santo e poeta in­venta il primo testo che accomuna tut­ti gli italiani: un canto di lode che, at­traverso il sole, le stelle, il vento, l’ac­qua, il fuoco, la terra, gli uomini e per­sino la morte, resi fratelli e sorelle, si leva fino al Padre di tutta la realtà. Lo compone nella sua lingua madre, la lingua che la sua terra gli ha insegna­to, un volgare di marca umbra purifi­cato da eccessivi dialettalismi, capa­ce di raggiungere ogni tipo di pubbli­co. Un pubblico che ancora non si sa­peva popolo, ma che quel canto in versi ritma­ti, impreziosito da moduli retorici letterari e da elementi linguistici latineggianti, strinse tutti al calore dello sguardo di un unico Padre. Così Francesco inventava l’Italia.
A questo giovane intrepido cavaliere e giullare in­namorato, attraverso il suo Cantico, chiederò il 17 il dono della pietà/cura di un Paese che lui ha so­gnato. Solo se, come Francesco, avremo il corag­gio di dimenticarci del nostro orticello e di ri­mettere al centro della nostra esistenza il bene co­mune, questo Paese potrà ritrovare sé stesso: le sue origini e la sua originalità, senza acconten­tarsi di miti di fondazione che suscitano comode e passegge­re emozioni, ma non faticose, quotidiane, esaltanti trasformazioni.
«Avvenire» del 16 marzo 2011

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