06 marzo 2011

Caro ateo, non cedere ai nuovi idoli ...

Il filosofo convertito Fabrice Hadjadj: «I laicisti militanti come Onfray non sono affatto senza Dio: lo chiamano solo in un altro modo»
di Lorenzo Fazzini
Una sana 'sfida' all’ateo, per­ché sia davvero senza idoli. E rimanga capace di aprirsi a «un’attesa dell’inatteso» che può a­vere il volto di Cristo, il Dio rifiutato dai credenti del suo tempo. Fabrice Hadjadj, filosofo francese converti­tosi al cristianesimo, interverrà que­sta sera all’Università Cattolica, su i­niziativa del Centro culturale di Mi­lano (Aula Magna, ore 21), su 'Mo­dernità e modernismo. A proposito del senso religioso'.

Dio. Possiamo parlarne con i non credenti?
«Bisogna riconoscere che la prima difficoltà consiste nel discuterne coi credenti. Ce lo insegna il Vangelo: Ge­sù non si rivolge ad atei, ma agli spe­cialisti della fede, scribi e farisei. Egli vuole rivelare loro il mistero del Pa­dre. Ma essi non lo comprendono, addirittura finiscono per crocifigger­lo. Facciamo fatica ad ammettere che furono alcuni credenti a metter a morte il Figlio di Dio. Quando si cre­de bisognerebbe lottare per non ri­durre Dio a un piccolo idolo dome­stico. Questo nome dovrebbe aprirci la gola come un abisso. E invece lo pronunciamo come una banalità concettuale. Se lo pronunciassimo con la vertigine dell’innamorato! Pri­ma della mia conversione non sop­portavo che si pronunciasse la paro­la 'Dio': la consideravo come un jol­ly buttato sul tavolo, a tradimento, durante una partita di carte. Mi suo­nava come un modo per evitare i pro­blemi e misconoscere la tragedia del­la vita».

Come 'verificare' l’idea, spesso con­fusa, di Dio?
«Egli non abolisce il dramma dell’e­sistenza ma lo compie. È quanto ri­vela il mistero della Croce. I creden­ti vi crocifiggono sopra Dio e Dio gri­da a Dio: Perché mi hai abbandona­to? Non è qualcosa di abissale? Non è forse vero che questo distrugge o­gni nostro idolo e ci riporta al dram­ma dell’'amore forte come la mor­te'? È necessario che i cre­denti riconoscano tale dram­ma e vivano il secondo co­mandamento, il quale ci do­manda di non pronunciare invano il nome di Dio. I non credenti potranno intender­lo meglio».

Parla per esperienza?
«Sì. La mia fu anche una con­versione 'linguistica'. Ho scoperto che il significante 'Dio' cor­rispondeva alla verità del 'Sì' di Frie­drich Nietzsche e dell’'Aperto' di Rai­ner M. Rilke. E che non era un atteg­giamento poetico o un concetto filo­sofico, ma la realtà di una Persona che mi aveva preceduto nel fondo dell’oscurità. 'Dio' non significava più una soluzione ma un’avventura. Non una risposta ma un appello. Non si tratta di una strategia di marketing. Quando troveremo il modo migliore per parlare di Dio, non è sicuro che l’altro, ascoltandoci, si converta. Se parliamo di Dio imitando la forza di Gesù, alcuni si convertono, altri fini­scono per crocifiggerci. È il segno che abbiamo parlato bene».

Lei ha definito la spiritualità «un trucco del diavolo». Su cosa confrontarci con gli atei?
«Sulla sessualità. Nel mio Mistica del­la carne mostro che il sesso ci ri­manda alla profondità autentica, fi­no alle viscere di Dio. In principio Dio crea l’uomo a sua immagine, ma­schio e femmina, in modo che la lo­ro relazione sessuale, con la sua fe­condità naturale, diventi l’immagine della Trinità. Qualunque sia il punto di partenza, anche una margherita o una lumaca, se ne parliamo corret­tamente, dobbiamo risalire a Dio: non va relegato nelle altezze ma va fatto comparire nel più 'basso'. Il cri­stianesimo è il contrario dello spiri­tualismo, e spiritualità dell’incarna­zione: il Verbo si è fatto carne e si do­na a noi mediante un atto spirituale e carnale, l’eucaristia. I sacramenti sono i tocchi di Cristo. Certo, per an­dare verso Dio dobbiamo recarci da quel prete che ci sta antipatico, da quel cristiano che ci dà fastidio sulla sedia accanto, da quel povero per in­vitarlo a tavola».

Di recente l’apologetica ha ripreso quota. Ma lei non ha scritto parole te­nere nei suoi confronti …
«Non ho niente contro l’apologetica. È quanto cerco di fare io stesso pro­prio adesso. Ma vi è il pericolo di re­stare al livello del dibattito delle idee. Il cristianesimo non riguarda un’i­deologia: è una vita. E la sua anima si trova nell’amore. Quando separiamo l’amore dalla verità cadiamo nel sen­timentalismo. E se allontaniamo ve­rità e amore, scadiamo nel dogmati­smo. La Verità propria del cristiane­simo è una Persona, non una teoria. E Dio stesso non è una natura ano­nima, ma una comunione di Perso­ne. Molte saggezze filosofiche pre­tendono che la realizzazione del­l’uomo consista in una conoscenza teorica o in uno stato di serenità. Il cristianesimo propone altro: un in­contro.
Per fare buona apologetica serve questo: prima del confronto i­deale, meravigliamoci del volto del nostro interlocutore; e anche se lui non ha compreso nulla e alla fine ci infastidisce, continuiamo ad ammi­rare in lui la meraviglia che Dio con­templa e che lui stesso, l’ateo, igno­ra ».

Nel suo libro-intervista Benedetto X­VI sottolinea il rapporto, positivo e fecondo, tra cristianesimo e moder­nità. Quali gli aspetti di tale relazio­ne che arricchiscono la fede?
«La modernità pone due esigenze. La prima è di natura critica: l’uomo mo­derno rifiuta di ricevere qualcosa so­lo perché trasmesso dai suoi genito­ri. Reclama delle ragioni e vuole com­prendere. Ma può essere ambigua: o conduce ad un ripiegamento morta­le su se stessa oppure guida ad una maggior intelligenza della fede. Se­condo: l’uomo moderno desidera u­na pienezza 'qui e ora'. Perciò rom­pe con l’aldilà. Ora, il nodo è che noi non siamo mai 'qui e ora' a noi stes­si. Il tempo fugge e, quando siamo da qualche parte, progettiamo di anda­re altrove. Manchiamo alla presenza. Non siamo mai gli uni con gli altri. Per essere del tutto presenti, do­vremmo coincidere con l’essere e po­ter dire: 'Io sono colui che sono'. Questo è il privilegio dell’Eterno. Per questo volgersi verso di Lui non è fug­gire il 'qui e ora', ma approcciarsi ad esso e cercare di essere più presenti a tutto e a tutti».

Nel suo 'La fede dei demoni' lei cri­tica i 'nuovi atei' come Michel On­fray, esempio dell’ateo 'sbagliato' che 'non cerca più'. I non credenti sono tutti così?
«Va rimproverato agli atei di non es­sere ciò che loro pretendono di esse­re. Un ateo è qualcuno 'senza dio', uno che deve disfarsi di tutti gli ido­li, sforzandosi di non rendere il pro­prio ateismo un idolo. Sarebbe triste liberarsi della religione di Cristo per fabbricarsene una dell’ateismo. È quanto capita nella maggior parte dei casi. Essere veramente atei rappre­senta qualcosa di veramente diffici­le. Quando si abbandona il Dio tra­scendente, ci si confeziona altri ido­li: ragione, razza, rivoluzione, mer­cato ... Visto che non siamo Dio ma esseri di desiderio, abbiamo bisogno di un principio per polarizzare le no­stre vite. Ho cercato di essere il più possibile ateo. Alla fine, sbarazzato­mi di ogni idolo, mi è rimasta la di­sponibilità di accogliere quanto non veniva da me, ciò che per alcuni è la trascendenza e che il catechismo chiama Rivelazione. Tale disponibi­lità consiste in un’apertura all’incon­tro. Eraclito la definiva 'l’attesa del­l’inatteso', un’apertura che si offre in un avvenimento che ci giunge attra­verso una moltitudine di testimoni: la 'tradizione apostolica'. Una serie di incontri partiti da Gesù e giunti fi­no a me».
«Il dialogo con i non credenti è possibile sulla base di una comune apertura all’'avventura' del divino. Il nostro compito è quello di non banalizzare la fede»
«Avvenire» del 3 marzo 2011

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