12 gennaio 2011

Quell’ipotetica tassa sul divorzio e la dura e fallimentare realtà

Una proposta e un dibattito sottolieano un nodo chiave
di Giuseppe Anzani
L’idea che il gover­no in­glese sta meditando, di mettere una 'tassa sul divorzio', fa drizzare le orecchie non soltanto agli economisti, in questo periodo drammatico di crisi mondiale e di penuria di risorse, ma anche ai sociologi del diritto, per la scossa provocatoria che vi si contiene. È un proposito, sembra di capire, che deve ancora confrontarsi con una consultazione pubblica, ma che già annuncia chiara l’intenzione di «scoraggiare le separazioni e finanziare il sistema che gestisce l’affidamento e il mantenimento dei figli (delle coppie separate)».
I figli che subiscono le conseguenze del naufragio delle famiglie sono un problema sociale che costa un mare di soldi. In mezzo alle dure manovre e ai tagli pesanti che il governo inglese ha varato, le casse del welfare piangono. Sembra dunque che la tassa richiesta a chi divorzia, da pagare quando si decide il contenzioso sul mantenimento e sulle visite ai figli (su cui interviene lo Stato) assomiglierà a una 'tassa di scopo'. Ma vi si indovina un poco d’affanno, un poco di bruta rudezza, il bisogno forse meno nobile di tappare qualche buco raschiando qualche spicciolo.
Il governo Cameron confida che la mossa fiscale influenzerà il costume? Il viceministro Maria Miller dice che bisogna «convincere i genitori che il divorzio è l’ultima soluzione possibile». Disarmante verità, ridivenuta ovvia dopo decenni di fallimenti e di sventure. Da un lato la famiglia infragilita, trascurata; dall’altro il divorzio ad nutum , l’unione o la separazione secondo gradimento. Ma far conto che sia una tassa, ora, a far rimontare la china di un costume sociale, è puerile. Se oggi serpeggia il senso di una misura colma circa il degrado della relazione familiare, è perché emerge da infinite ricerche che un’alleanza di vita non può reggere su un puro volontarismo emozionale, in equivalenza tra l’unione (finché piace) e l’abbandono. L’amore è una cosa diversa, è promessa e dono totale. L’amore è un’arte da apprendere, ma è un’arte che nessuno ti insegna, questo è il punto. E forse il censimento dei disastri familiari è l’occasione per riflettere e per escogitare qualche rimedio serio, invece che una tassa, per 'aiutare' le coppie in difficoltà, le famiglie in crisi, le vite minacciate di naufragio.
È questa, in fondo, la differenza fra l’ordine giuridico concepito grezzamente come cintura di 'diritti individuali' noncuranti, e l’ordine sociale che abbraccia la presenza delle persone vive, con l’intreccio di un dono reciproco.
La scelta familiare è un dono singolarissimo, inconfondibile, irretrattabile. Perderlo è una sventura fra le più grandi. Io non giudico le persone che incontrano il divorzio; a volte mi è parso di sentire nella loro confidata ferita la nostalgia dolente di un bene perduto, quasi il varco di un lutto. Ma giudico una società indifferente a questi lutti, a questi cancelli del dolore; a queste statistiche dei fallimenti.
Giudico una società che ha creduto finora di assolvere i suoi compiti negando di avere compiti, paga di esaltare ideologicamente 'diritti' impiegati a distruggere, invece che a costruire. Altro che tasse, è il soccorso e la prevenzione ciò che ci manca.
Una società che ha creduto finora di assolvere i suoi compiti negando di avere compiti, paga di esaltare 'diritti' impiegati a distruggere invece che a costruire
«Avvenire» dell'11 gennaio 2011

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