08 gennaio 2011

Le radici dell’odio contro i cristiani

L'Egitto ieri e oggi
di Vittorio Messori
Credo che tutti, anche i cristiani, avrebbero da imparare da quell’agnostico - ma non ateo -, da quell’anticlericale - ma rispettoso del Vangelo -, che fu Benedetto Croce. Sosteneva, quel grande realista, che la conoscenza della storia è il miglior antidoto a ogni estremismo, a ogni spirito di crociata. La storia - ricordava Croce - non è mai in bianco e in nero, non è la lotta dei cattivi contro i buoni, ma è un palcoscenico dove vittime e carnefici si scambiano i ruoli appena possono. Così, per stare a noi, anche la solidarietà per le vittime, l’orrore per la violenza omicida di Alessandria d’Egitto hanno diritto a un inquadramento storico che non giustifichi, certo, ma eviti di sbagliare prognosi e diagnosi. Restiamo, dunque sulle sponde del Nilo, cominciando da quando - circa a metà del settimo secolo - vi giunsero i cavalieri di Allah che sbucavano dai deserti d’Arabia. Erano coraggiosi ed esaltati dalle parole di Muhammad il profeta, ma erano ben pochi, non avevano né vera organizzazione militare né macchine da guerra. I mille garibaldini, insomma, contro i duecentomila soldati dei Borboni. Mai, quegli incursori, avrebbero potuto vincere l’esercito di Bisanzio, alla quale apparteneva l’Egitto, se le truppe cristiane non si fossero sbandate prima ancora dell’urto e se le popolazioni non avessero acclamato gli invasori come liberatori. L’Egitto, infatti, aveva accettato presto il cristianesimo, con un fervore persino eccessivo. Ne nacquero le vette ascetiche degli eremiti nel deserto, ma ne venne anche un pullulare di eresie in guerra, spesso sanguinosa, tra loro. Tutti gli egiziani, comunque, erano uniti quando si trattava di lottare contro la dipendenza dall’odiata Costantinopoli. Sta di fatto che alla notizia che contro l’Impero romano d’Oriente si erano avventati quegli arabi, le truppe, formate in gran parte da mercenari egiziani, si rifiutarono di combattere e, soprattutto ad Alessandria, si giunse a preparare archi di trionfo per gli invasori. Del resto, non saranno dei cristiani a chiamare in Spagna la Mezzaluna per faide interne tra visigoti? E la Francia non sarà sempre, persino a Lepanto, dalla parte del Turco? L’entusiasmo degli egiziani doveva presto spegnersi: i musulmani non forzavano alla conversione (anzi, spesso tentarono di frenarla, perché ogni convertito in più era un sottomesso da spremere in meno), ma il loro regime spietato di sudditanza del credente nel Vangelo al credente nel Corano indusse la maggioranza dei battezzati a cambiare fede. Quelli che non vollero apostatare furono detti «copti», deformazione araba del termine greco «egizi», ad indicare che si trattava dei discendenti di coloro che gli arabi avevano trovato in quella terra. La resistenza di questo zoccolo di battezzati, che dopo qualche secolo si stabilizzò su una percentuale simile a quella attuale - circa il 10 per cento - suscita ammirazione e riconoscenza da parte di ogni cristiano ed è il segno della fortezza della fede, malgrado il cedimento di tanti. Ma va pur detto che, per ogni regime musulmano succedutosi in Egitto, i copti furono in qualche modo la spina dorsale. In effetti la loro cultura maggiore della media, la loro intraprendenza, il loro desiderio di mostrarsi zelanti per allentare i carichi da cui erano gravati, fecero sì che fosse essenziale la loro presenza nella politica, nell’amministrazione, nell’economia. Così, le guerre sostenute contro i cristiani - a cominciare dalle crociate - furono vinte dagli islamici anche grazie al sostegno fedele dei copti ortodossi. Questi, tra l’altro, non furono affatto fraterni, bensì spietati, contro i copti cattolici e anche contro gli altri ortodossi, greci e slavi, che rifiutavano il monofisismo. Così , sin dai lontani inizi, la storia dell’Egitto musulmano è un intreccio - anche se spesso fecondo e culturalmente prestigioso - di complicità reciproche tra Dio e Allah. Ma è, purtroppo, anche una storia di contrasti sanguinosi tra i cristiani di varia obbedienza. In ogni caso, sino a tempi recenti la convivenza, cementata da tanti secoli, non è mai stata messa seriamente in discussione. Che è avvenuto, dunque, da qualche tempo? Credo non abbia torto - almeno in questo - il Grande Imam del Cairo, Al Tayyeb, nell’intervista di ieri al Corriere: «L’attentato criminale di Alessandria non è un attacco ai cristiani ma all’Egitto intero». In effetti, tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che ha avuto come detonatore l’intrusione violenta del sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i credenti quasi alla pari della Mecca. Ira, umiliazione, senso di impotenza hanno dato avvio a un panislamismo che intende demolire le frontiere e i regimi attuali per giungere a un blocco comune e ferreo di fedeli nel Corano. Una sorta di superpotenza che possa sfidare persino gli Stati Uniti, padrini di Israele. Il successo indubbio dell’azione dell’11 settembre 2001 ha infiammato gli entusiasmi, mostrando che la guerra vittoriosa è possibile. Se in Egitto, e altrove, si attaccano i cristiani, in Iraq si ammazzano gli sciiti che, per i panislamisti, non sono veri musulmani e dunque non possono far parte del Grande Fronte. I cristiani vanno messi in fuga, alla pari di ogni altro che non faccia parte della sacra Umma. Se la diagnosi è questa, ci sono «cure», come quelle alla Bush, che aggravano ed esasperano il male. Onore ai cristiani uccisi, memoria sincera alla loro testimonianza: ma proclamare crociate contro Paesi, come l’Egitto, vittime anch’esse di un disegno imperiale, significherebbe - come constatano gli americani, ormai sconfitti in Iraq e in Afghanistan - aggiungere solo altre vittime e gettare benzina sul fuoco coranico.
«Corriere della Sera» del 7 gennaio 2011

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