15 gennaio 2011

La peste di Atene nel De rerum natura

di Martino Menghi
LIBRO VI, VERSI 1138-1286
Il drammatico finale del De rerum natura è occupato dalla descrizione della peste che si abbatté sull’Attica e sulla città di Atene nel 430 a.C., ispirandosi all’episodio descritto da Tucidide nel libro Il della Guerra del Peloponneso. Il testo di Lucrezio presenta comunque numerosi adattamenti rispetto al modello greco; queste differenze, come vedremo, obbediscono a fattori stilistici, a motivi di genere letterario e alle diverse finalità delle due opere.
Ma perché mai un finale così drammatico e pessimistico in un poema concepito come strumento educativo per affrancare l’uomo dalle passioni, dalle paure, dalla sofferenza? Alcuni studiosi hanno ipotizzato che il poema sia rimasto incompiuto, mancante di una sezione finale in grado di riequilibrare i messaggi presenti nell’opera. La tesi è però poco convincente, e ancor meno lo è la congettura per cui Lucrezio avrebbe inteso concludere l’opera trattando delle sedi degli dèi, cui aveva solo accennato all’inizio del libro V. Infatti, se a prima vista può sembrare strana una conclusione così negativa e distruttiva come quella della peste di Atene, più strana ancora dovrebbe apparire una trattazione positiva del tema teologico. Più interessante risulta dunque la tesi di quanti vedono in questo finale la metafora negativa di che cosa sarebbe una società umana senza gli insegnamenti di Epicuro: il trionfo della sofferenza, della disperazione e della morte, in cui l’uomo appare ricattato dalla cupido vitae e dal timor mortis.


VERSI 1138-1169 (in italiano)
Dopo aver trattato nei versi precedenti delle epidemie in generale, al v 1138 Lucrezio inizia la descrizione della peste che sconvolse l’Attica nel 430 a.C. (non si trattò in realtà di peste vera e propria, ma di una malattia epidemica che gli studiosi moderni non sono ancora riusciti a identificare con sicurezza).
Giunta dall’Egitto, la peste si diffonde rapidamente in Atene: il poeta indugia sugli inequivocabili e dolorosi sintomi del male.


VERSI 1170-1214 (in italiano)
Lucrezio descrive ora i comportamenti dei malati: atteggiamenti assurdi, irrazionali, a volte raccapriccianti, dettati dalla smania di liberarsi dal tormento, ma tutti inutili se non addirittura dannosi.



VERSI 1215-1251 (in italiano)
La terza sequenza del lungo episodio della peste descrive il comportamento degli animali: sia gli uccelli sia le bestie feroci fuggono i cadaveri, respinti dal lezzo che emanano, o rimangono avvelenati mordendoli; i cani poi seguono l’uomo nel suo destino di morte. Viene quindi una considerazione sul comportamento degli uomini che non erano ancora morti: sia che si tenessero prudentemente o egoisticamente lontani dai malati, sia che li assistessero generosamente, essi rimanevano comunque contagiati.


VERSI 1252-1286 (in latino)
Nelle ultime battute del lugubre episodio, Lucrezio ci parla dell’estensione del morbo anche alla campagna e del crollo dei punti di riferimento che vigono normalmente in un consorzio civile.
È sicuramente la sequenza più ricca di riflessioni di ordine etico-morale, già presenti nella descrizione di Tucidide; essa sarà ripresa e attualizzata in altre celebri narrazioni dei secoli successivi, soprattutto nel Decameron di Giovanni Boccaccio e nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni (vedi oltre).

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La peste
La peste è un luogo letterario ricorrente nella letteratura occidentale, dove compare come resoconto scientifico o come sfida alla saggezza umana e ai timori della morte o come segno della fragilità dell’uomo e metafora del male di vivere. Ripercorreremo attraverso alcuni autori antichi e moderni questi tre temi.

IL MODELLO TUCIDIDEO
La prima peste della letteratura occidentale è l’epidemia lanciata nel campo acheo dalle frecce di Apollo come vendetta dell’offesa fatta al sacerdote Crise; si tratta del motore della vicenda nel libro I dell’Iliade. Fu invece Tucidide (460 ca - dopo il 404 a.C.) il primo scrittore a descrivere con scientificità un flagello epidemico, quello che si abbatté su Atene nell’estate del 430 a.C. (tifo esantematico o petecchiale? leptospirosi? tularemia?) e che tra gli altri costò la vita anche a Pericle. Tucidide era in quell’anno ad Atene, fu colpito dal morbo e inoltre aveva tutte le conoscenze mediche (i termini tecnici del suo metodo storico sono presi in prestito dalla scuola medica di Ippocrate) per descrivere sintomi e conseguenze del male.
Leggiamo le dichiarazioni programmatiche di Tucidide all’inizio della descrizione della peste ateniese:

Si dica su questo argomento quello che ciascuno pensa, sia medico sia profano, sia sulla probabile origine della pestilenza, sia sulle cause che si potrebbero ritenere adatte a procurare tanto sommovimento. Io dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tener presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati.
La guerra del Peloponneso II, 48; trad. C. Moreschini

L’applicazione del metodo di indagine è in Tucidide precisa e rigorosa. L’esame, che diventerà canonico, si divide in due parti: la prima considera gli aspetti patologici del male, la seconda le implicazioni morali.
La descrizione clinica si articola in una fase iniziale, con i primi sintomi, una fase intermedia in cui il morbo si acutizza e una fase finale che precede la morte o una stentata guarigione. Ecco un esempio di descrizione scientifica:

Gli altri erano presi improvvisamente, senza nessuna ragione, mentre godevano di perfetta salute, innanzitutto da forti calori alla testa e da arrossamenti e da bruciori agli occhi: le parti interne, cioè la gola e la lingua, subito erano di color sanguigno ed emettevano un fiato strano e fetido. Infine, dopo questi fenomeni, sorgevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto insieme ad una forte tosse; e quando si fissava nella bocca dello stomaco vi produceva convulsioni [...]. E il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo, né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; le parti interne ardevano a tal punto da non poter sopportare il rivestimento dì vesti leggere o di lini, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda.
La guerra del Peloponneso II, 49, 2-5; trad. C. Moreschini

Tucidide descrive una società completamente sconvolta, che non crede più a rimedi naturali o soprannaturali. Tale stato d’animo porta a un generale disprezzo delle leggi umane e divine, preludio al più completo degrado morale:

Anche i luoghi sacri, nei quali erano attendati, rigurgitavano di cadaveri, poiché quivi appunto morivano: gli uomini schiacciati dalla strapotenza del male, di fronte a un ignoto destino, divennero del pari indifferenti a ogni cosa divina e umana. Furono sovvertite tutte le consuetudini che prima regolavano le sepolture, e seppelliva ognuno come poteva [...].
Cominciò allora in città, per la prima volta, in seguito alla malattia, una maggiore sfrenatezza di fronte alla legge, anche in altre cose; e più arditamente molti osavano ciò che prima si guardavano bene dal fare a piacimento. Si assisteva a improvvisi capovolgimenti di fortuna: ricchi improvvisamente morivano e gente che prima non possedeva un soldo subentrava improvvisamente nel godimento delle sostanze dei morti [...].
Ormai tutto ciò che era piacere immediato, e serviva a giungere ad esso da ogni parte, era considerato onesto e utile. Nessun timore degli dèi, nessuna legge umana valeva a trattenerli: quanto agli dei, pensavano che non avesse importanza venerarli o meno, al vedere che tutti allo stesso modo erano travolti dalla rovina; quanto alle colpe verso gli uomini, nessuno sperava di poter vivere fino a dover subire un processo e scontare la pena relativa.
La guerra del Peloponneso II, 52-53; trad. L. Annibaletto

L’analisi tucididea della pestilenza fece scuola; coloro che la imitarono, anche se mossi da idee diverse e lontane dalla lucida razionalità e dallo scetticismo sulla sorte dell’uomo del grande storico greco, non poterono fare a meno di dare alla propria descrizione una parvenza di scientificità e quindi cercare le cause naturali (non divine) del male e spiegarne sintomi e decorso. Così il lungo passo conclusivo del De rerum natura dedicato alla peste di Atene non può prescindere da un’indagine razionale.

Anche Virgilio dedica a sua volta una suggestiva digressione del libro III delle Georgiche a una peste del mondo animale, l’epizoozìa del Norico. Il poeta non racconta un episodio storico; intende piuttosto offrire l’ennesimo esempio della propria sensibilità verso il mondo animale: infatti la severità della trattazione tucididea e lucreziana viene contaminata da tratti “patetici”. Egli peraltro segue da vicino il testo lucreziano nella trattazione dei sintomi, della progressione del morbo e delle sue conseguenze sul piano sociale, conseguenze che qui, chiaramente, appaiono meno drammatiche e limitate all’ambito delle attività agricole.
Il primo passo che riportiamo individua le cause del flagello in determinate condizioni climatico-ambientali e non, fatalisticamente, nella volontà degli dei; il fatto che colpisca esseri miti e incolpevoli è la prova della sua estraneità a ogni funzione punitiva da parte di un dio. Nel secondo brano è evidente il patetismo di cui si è detto.

Qui (= nel Norico, tra le Alpi orientali e il Danubio) un tempo comparve una temperie maligna per l’aria cattiva, e il cielo divenne infuocato di tutto il calore di agosto, e diede alla morte ogni stirpe di animali, domestici e selvaggi, e inquinò le acque, e impestò i pascoli.
Georgiche III, 478-481; trad. in prosa M. Sartori

Ecco poi un bue sopra il duro aratro cadere, tuttora fumante di sudore, e vomitar torbido sangue bavoso giù per la bocca emettendo gli ultimi muggiti.
Viene il bifolco amareggiato, stacca dal giogo il giovenco malinconico per la morte del fratello, e abbandona l’aratro sul lavoro interrotto a metà.
Non l’ombra dei grandi boschi, non i morbidi prati, non un’acqua che in cascatelle più tersa dell’ambra giù per i sassi cerca la pianura, nulla può rianimarlo; ma gli si afflosciano i fianchi emaciati, uno stupore dilata ì suoi occhi fissi e la testa, inerte peso, gli si china fino a terra. A che servono il lavoro e le buone fatiche? A che cosa l’aver solcato le pesanti glebe con il vomere? Eppure non fu il vino Massico, dono di Bacco, non furono i raffinati banchetti che nocquero loro. Essi si pascono di foglie e di semplice erba, per loro sono boccali e bevande le sorgenti fiottanti e i fiumi incessantemente fluenti. E nessun cruccio interrompeva i loro sani riposi.
Georgiche III, 515-530; trad. in prosa A. Richelmy

Un altro poeta che riprende il topos della peste è Ovidio, quando narra della crudele pestilenza che si abbatté su Egina per volere di Giunone (Metamorfosi VII, 523-614). Ma l’insegnamento di Tucidide è lontano: il poeta augusteo ricorre addirittura all’interpretazione religiosa del morbo, rinunciando a qualsiasi contributo proveniente dalla scienza medica: pur nella presenza degli elementi tradizionali i sintomi sono irriconoscibili e si sono trasformati in veri e propri luoghi comuni. La ripresa degli argomenti dei modelli letterari viene poi arricchita da elementi patetici. La letteratura ha il predominio sulla scienza.
Leggiamo l’inizio della pestilenza ovidiana; in primo piano è posta la causa religiosa dell’epidemia: l’ira di Giunone.

Una terribile pestilenza, dovuta all’ira di Giunone, spietata contro questa terra [...], si abbatté sulla popolazione. Finché parve un male naturale, finché era oscuro cosa nuocesse, quale fosse la causa dell’immane sciagura, si combatté con le armi della medicina. Ma il flagello era tale che ogni soccorso era vano, e arrendersi bisognava.
Da principio calò sulla terra una caligine spessa, opprimente; una cappa di nubi formò una morsa d’afa spossante, e per tutto il tempo che la luna impiegò a colmare quattro volte il disco pieno, soffiò un caldo Austro dalle folate mortali.
Risulta che l’infezione si propagò anche alle fonti e ai ldghi, e che molte migliaia di serpenti, errando per campi desolati, contaminarono i fiumi con i loro veleni.
Metamorfosi VII, 523-535; trad. in prosa E Bernardini Marzolla

LA CRUDELTÀ DELLA NATURA
Il finale del poema lucreziano resta per noi moderni enigmatico. Non si comprende in particolare perché il poeta abbia concluso con il tragico quadro della peste di Atene un’opera concepita ottimisticamente come strumento educativo per affrancare gli uomini dalle loro paure, prima fra tutte quella della morte. Un’ipotesi convincente postula che il messaggio di salvezza richiede anche queste visioni catastrofiche per dimostrare che cosa l’uomo rischia di diventare quando si lasci sopraffare dalla paura della morte, che Epicuro insegna non essere nulla. Agirebbe dunque qui in Lucrezio un’influenza di matrice stoica, cioè la strategia dell’eikasmós, ovvero la “rappresentazione” a scopo profilattico del devastante effetto delle passioni sull’uomo. L’episodio della peste assumerebbe allora un valore probativo nei confronti delle argomentazioni precedenti, suggellando l’esposizione della dottrina epicurea con una serie di situazioni e di comportamenti a cui il lettore discepolo dovrebbe ormai sentirsi completamente estraneo.
L’uomo non può credersi al di sopra della natura, pretendendo che sia “costruita” a suo uso e consumo; solo lo stolto si lamenta di un fatto naturale come la morte e la fugge oppure la cerca come la cessazione dei suoi mali, mentre il saggio accoglie serenamente la natura così com’è. Una volta accettata l’indifferenza degli dèi e l’assenza di qualsiasi piano provvidenziale, è ovvio che la natura non darà premi né infliggerà punizioni all’uomo e che l’uomo si dovrà mantenere in un atteggia-mento di razionalità e di moderazione di fronte ai fenomeni naturali.
Leggi le seguenti esplicite affermazioni di Lucrezio:

Potrei non sapere del mondo le origini,
ma dai segni del cielo
e da molte cose create
io sono certo che il mondo non è fatto per noi:
tanto esso è fonte di male.
Quanto di spazio copre lo slancio terrestre
gran parte hanno i monti
avidi, le selve grate alle fiere, le rupi,
le paludi plumbee di stagni
e i mari che fanno lontane le terre:
qui l’arsura deserta, là il ghiaccio perenne
ci tolgono la distesa del suolo:
e il poco che avanza di terra più docile,
se la forza dell’uomo, per restare in vita,
non preme in sudore la vanga, s’ingombra di sterpi.
De rerum natura V, 195-209; trad. E. Cetrangolo

Un atteggiamento in parte analogo si può riscontrare in uno dei testi in prosa più famosi (e più belli) della nostra letteratura: il Dialogo della Natura e di un islandese (1824) di Giacomo Leopardi, una delle Operette morali (ma non sappiamo se il poeta conoscesse già il De rerum natura o se invece il suo materialismo non sia piuttosto derivato dal sensismo e dal materialismo francese del Settecento).
Sfruttando appieno le potenzialità della forma dialogica il poeta mette in scena, presso il Capo di Buona Speranza, una conversazione tra la Natura, un mostro gigantesco che ha le sembianze del promontorio, e un islandese che ha cercato per anni e in tutti i luoghi del mondo il piacere e la felicità senza mai trovarli. Alle ultime rimostranze dell’uomo la Natura replica con una secca descrizione del cosmo su base materialistica che esclude ogni finalismo. La conclusione che il mondo non è stato fatto per l’uomo pone fine al dialogo tra la Natura e l’islandese, che, per un estremo di irrisione, trova una morte quasi comica: trasformato in una statua di sabbia o divorato da due leoni più macilenti di lui.
Ecco un passo del lamento dell’islandese sull’inospitalità del mondo:

Fatto questo,(1) e vivendo senza quasi verun’immagine (2) di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, (3) l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state,(4) che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano(5) di continuo [...] io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni (6) degli elementi in ogni dove. [...] Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma (7) offesa mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa.Operette morali

1. Fatto questo: l’islandese ha prima spiegato che una volta, a causa della stoltezza degli uomini, si era isolato dall’umanità ed era tornato alla sua isola.
2. verun’immagine: “alcuna immagine”.
3. verno: “inverno”.
4. state: “estate”.
5. mi travagliavano: “mi tormentavano”.
6. commozioni: “trasformazioni”.
7. menoma: “nessuna”.


LA PESTE NEL NOSTRO SECOLO: METAFORA DEL MALE DI VIVERE
Il tema della peste fu ripreso nel corso di tutta la storia della letteratura occidentale. Dai poeti di età imperiale Lucano (Pharsalia VI, 80-105) e Silio Italico (Punica XIV, 580-640) alla Storia dei longobardi di Paolo Diacono (VIII secolo d.C.), per giungere alla celebre cornice del Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-75) e alla cronaca della Peste di Londra di Daniel Defoe (1660-1731), la peste ha sempre rappresentato un paradigma forte sul quale verificare idee scientifiche e valori etici.
Alessandro Manzoni (1785-1873) fa della peste di Milano del 1630, cui dedica i capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi, l’avvenitnento storico più importante del suo romanzo. La peste non solo contribuisce a sciogliere con un taglio netto i nodi della trama, ma è soprattutto la tragedia che mette alla prova le idee manzoniane sulla storia e sull’intervento di Dio nel mondo: come ha messo in evidenza la critica recente, la peste resta un evento incomprensibile che elimina colpevoli e innocenti e che in una prospettiva cristiana serve solo a mettere alla prova la fede in Dio.
Nel XX secolo il francese Albert Camus (1913-60) scrive La peste (1947), cronaca di una peste immaginaria che funesta, negli anni quaranta, la città algerina di Orano. Ancora una volta il male diventa metafora di altro, della presenza incomprensibile del dolore nell’esistenza dell’uomo e vero e proprio banco di prova, nelle varie reazioni di fronte alla prospettiva della morte, della sua umanità. La cronaca del dottor Rieux, l’eroico protagonista della vicenda, descrive l’epidemia dal suo comparire, con un’inspiegabile moria di topi, al suo risolversi e alla riapertura del cordone sanitario intorno alla città in quarantena. In un procedimento narrativo unitario e coerente la peste viene mantenuta costantemente al centro del racconto, ne è la protagonista, e il dibattersi degli uomini (la fede, la scienza, il rapporto della peste con le loro istituzioni, i drammi personali) è in ultima analisi secondario rispetto al vero e proprio trionfo della morte rappresentato dal morbo. I toni solenni fanno del racconto una sorta di epica della moderna esistenza.
I due passi che seguono sono tratti il primo da un lungo monologo di Tarrou, un originale personaggio che si prodiga nel soccorso agli appestati e che morirà quando ormai la città è in festa per la fine dell’epidemia, il secondo dalle parole conclusive della cronaca del dottor Rieux.

Per questo, inoltre, l’epidemia non mi insegna nulla, se non che bisogna combatterla al suo fianco, Rieux. Io so di scienza certa (tutto so della vita, lei lo vede bene) che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune.
(...)
Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.
La peste (trad. A. Zevi)

(brano tratto dal volume Novae voces, Lucrezio, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2007, pp. 112-121 e 133-138)
Postato il 15 gennaio 2011

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