05 gennaio 2011

Il petrarchismo nel Novecento

Guido Gozzano
Non stupisce che alle soglie del Novecento Petrarca sia recepito come la voce emblematica della tradizione, come il campione della classicità e come tale, in un periodo di "rivoluzioni poetiche", duramente messo in discussione. A questo modello, fin dai primi decenni del XX secolo, taluni autori delle piú giovani generazioni (i futuristi, per esempio) si oppongono ferocemente: lo considerano un autore paludato e accademico, superato ed estraneo rispetto al gusto della modernità, improponibile ai lettori contemporanei.
L’esempio di Petrarca, in generale, è rifiutato con polemico slancio da tutti gli scrittori del primo Novecento i quali, incerca di un’arte nuova e d'avanguardia, che sia all'altezza della sensibilità e della cultura del mondo moderno, puntano all’eversione e alla rottura nei confronti delle forme classiche. Viceversa altri poeti continuano a guardare al Canzoniere con curiosità, interesse e attenzione.
Su questa linea Guido Gozzano (1883-1916) ripropone il Canzoniere di Petrarca come riferimento fondamentale per l'educazione morale e letteraria di ogni uomo. Nei suoi testi si trovano perciò sia frequenti citazioni da Petrarca, sia allusioni più o meno dirette ai testi del Canzoniere; in tal modo il poeta contemporaneo intende in primo luogo rendere omaggio al suo modello. D'altro canto, però, le citazioni e le allusioni, inserite in un contesto diverso da quello originale, hanno spesso un sapore amaramente ironico: segnalano che la sublime perfezione petrarchesca è ormai irraggiungibile, poiché l'uomo moderno si dibatte in situazioni umili e prosaiche, ben diverse da quelle sperimentate dal poeta classico.
In simile prospettiva si può leggere il testo che segue, il quale riproduce la parte iniziale e quella conclusiva della poesia Un'altra risorta, pubblicata da Gozzano nella raccolta I colloqui del 1911: qui l'autore rievoca un incontro con la donna amata, la poetessa Amalia Guglielminetti, sovrapponendo alla fanciulla l'immagine di Laura celebrata da Petrarca nel sonetto CX del Canzoniere.

Solo, errando così come chi erra
senza meta, un po' triste, a passi stanchi,
udivo un passo frettoloso ai fianchi;
poi l'ombra apparve, e la conobbi in terra...
Tremante a guisa d'uom ch'aspetta guerra,
mi volsi e vidi i suoi capelli: bianchi.
Ma fu l'incontro mesto, e non amaro.
Proseguimmo tra l'oro delle acace
del Valentino, camminando a paro.
Ella parlava, tenera, loquace,
del passato, di sé, della sua pace,
del futuro, di me, del giorno chiaro
(…)
Ed era lei che mi parlava, quella
che risorgeva dal passato eterno
sulle tiepide soglie dell'inverno?...
La quarantina la faceva bella,
diversamente bella: una sorella
buona, dall'occhio tenero materno.
Tacevo, preso dalla grazia immensa
di quel profilo forte che m'adesca;
tra il cupo argento della chioma densa
ella appariva giovenile e fresca
come una deità settecentesca...
«Amico neghittoso, a che mai pensa?»
«Penso al Petrarca che raggiunto fu
per via, da Laura, com'io son la Lei...»
Sorrise, rise discoprendo i bei
denti... «Che Laura in fior di gioventù!...
Irriverente!... Pensi invece ai miei
capelli grigi... Non mi tingo più.»

Con triste sarcasmo, Gozzano paragona se stesso a Petrarca e l'amata Amalia a Laura; ma il confronto non ha una funzione autocelebrativa, poiché mette a nudo il divario fra le due coppie: Petrarca e Laura erano giovani dai raffinati costumi, che vivevano sentimenti nobili in ambienti eleganti e colti; Gozzano e Amalia sono ormai avanti negli anni (hanno i capelli grigi) e vivono il proprio stanco amore incontrandosi nell’anonimo parco di una grande città. In tal maniera, al lettore viene comunicato il sentimento di tristezza che occupa l'animo del poeta, addolorato da simile constatazione: la purezza di sentimenti e l’eccellenza di costumi illustrata da Petrarca non può essere raggiunta dagli amanti del mondo moderno, costretti a vivere in ambienti impoetici e fra umili occupazioni.

Sbarbaro, Cardarelli e Ungaretti a confronto
Tra la prima e la seconda metà del Novecento il modello di Petrarca viene ripreso da numerosi autori con una duplice funzione: da una parte egli è l’emblema di una poesia attentamente costruita ed elaborata sul piano stilistico e formale, la quale ricorre a vocaboli ed espressioni estranei alla lingua dell'uso quotidiano; d'altro canto il Canzoniere funziona come esempio per quanti intendono utilizzare la scrittura poetica per l’approfondimento e la rivelazione del proprio mondo interiore. Eleganza della forma e soggettivismo dei contenuti sono le insegne sotto le quali Petrarca viene celebrato e imitato nel corso del XX secolo. In tale direzione, l'autore trecentesco funziona come antidoto rispetto ad altre correnti della letteratura contemporanea, le quali procedono in senso opposto: sia verso l'adozione di un linguaggio basso e prosastico, senza artifici, sia verso un impiego della poesia non lirico o soggettivo (quale manifestazione del mondo interiore del poeta), ma realistico, narrativo e descrittivo.
La lezione di Petrarca è quella di un maestro ancora attuale e valido, nella misura in cui egli invita gli autori del Novecento alla scrittura sorvegliata e allo scavo psicologico. Lo dimostrano, su scala diversa e con risultati non assimilabili fra loro, le opere di Camillo Sbarbaro (1888-1967), Vincenzo Cardarelli (1887-1959), Giuseppe Ungaretti (1888-1970).

Camillo Sbarbaro nella poesia che segue, tratta dalla raccolta Pianissimo (1914), sviluppa questo tema: l'elogio del sonno come momento di ristoro e di evasione rispetto agli impacci della vita diurna. Il motivo già era stato messo a fuoco da Petrarca nel sonetto CCXXVI, vv. 9 – 11:

Il sonno è veramente, qual uom dice,
parente de la morte, e 'l cor sottragge
a quel dolce penser che 'n vita il tene.


Esso era stato successivamente sviluppato, fra gli altri, da Michelangelo Buonarroti (nei sonetti d'elogio della notte) e da Ugo Foscolo (nel sonetto Alla sera). Dunque l'autore moderno esprime la sua sensibilità contemplativa e introversa (dominata da un desiderio di fuga rispetto alla vita quotidiana: cfr. vv. 11 e 15) trattando un argomento ricorrente nella letteratura antica e moderna, e confrontandosi con quel che, al proposito, già avevano detto gli autori della tradizione:

Sonno, dolce fratello della Morte,
che dalla Vita per un po' ci affranchi
ma ci rilasci tosto in sua balìa
come gatto che gioca col gomitolo;
di te, finchè la mia vita giustifichi
la vita della mia sorella e un segno
che son vissuto anch'io finchè non lasci,
io mi contenterò e del tuo inganno.
Vieni, consolatore degli afflitti.
Abolisci per me lo spazio e il tempo
e nel nulla dissolvi questo io.
Nessun bambino mai così fidente
s'abbandonò sul seno della madre
com'io nelle tue mani m'abbandono.
Quando si dorme non si sa più nulla.


ci affranchi: ci liberi.
di te... inganno: io mi accontenterò di te, o sonno, e della tua illusione (il sonno, infatti, assicura all'uomo una tregua illusoria rispetto agli affanni della vita di ogni giorno), poiché, vivendo, sia offro una ragione di vita a mia sorella sia ho modo di darmi da fare per lasciare un segno memorabile della mia esistenza.
questo io: il mio mondo interiore.
fidente: fiducioso.


Vincenzo Cardarelli e Giuseppe Ungaretti sono due poeti assai dissimili fra loro e tuttavia appartenenti alla medesima generazione (che comprende, con Sbarbaro, gli autori nati nel penultimo decennio dell'Ottocento). Essi guardano a Petrarca come a un importante punto di riferimento, e però ciascuno ricava dal Canzoniere stimoli e suggestioni assolutamente personali.

Vincenzo Cardarelli, da parte sua, accoglie da Petrarca, lo stimolo a procedere in direzione di una scrittura elegante, selettiva e squisita: egli punta a una poesia pura e assoluta, senza contatti con la realtà, e occupata solo dai motivi ricorrenti nel proprio mondo interiore. Fra questi, come nel caso di Petrarca, domina l'ossessiva contemplazione dello scorrere del tempo: il trapassare delle ore, dei mesi e delle stagioni, che segna il progresso della vita umana dalla nascita verso la morte.
Nel testo che segue, dalla raccolta Giorni in piena (1934), Cardarelli osserva l'avvento della stagione autunnale, che dall'estate conduce all'inverno, e scorge in ciò un'analogia con il tramonto della sua giovinezza. Ecco la sua conclusione:

Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il tempo migliore della nostra vita.


Essa ricorda alcuni versi di Petrarca (dalla canzone XXXVII):

Che sai s'a miglior tempo ancho ritorni
et a più lieti giorni,
o se ‘l perduto ben mai si racquista?
[...]
Il tempo passa, et l'ore son sì pronte
a fornire il viaggio,
ch'assai spacio non aggio
pur a pensar com'io corro a la morte.


Il linguaggio scelto da Cardarelli, vicino a quello di Petrarca, colloca la riflessione fuori della storia, così segnalandone il valore eterno:

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede ( = avanza)
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita ( = la giovinezza)
e lungamente ci dice addio.



Sul medesimo tema di derivazione petrarchesca (lo scorrere e del empo che consuma ogni cosa umana: opere, sentimenti, pensieri) insiste anche da raccolta Sentimento del tempo, pubblicata da Giuseppe Ungaretti nel 1933. Il libro segna il ritorno di Ungaretti alla poesia classica secondo il modello di Petrarca, dopo la giovanile stagione contrassegnata dalla sperimentazione avanauardistica. La poesia che segue (da Sentimento del tempo) s'intitola Memoria d'Ofelia d'Alba, ed è una sorta di commemorazione di una fanciulla (Ofelia), figlia del poeta Auro d'Alba, morta suicida in giovane età.
Ofelia, come la Laura del Canzoniere, è la donna che muore precocemente, continuando poi a vivere solo nella memoria del poeta. Ungaretti ne fà un ritratto che mette in evidenza alcuni dettagli, parte fisici e parte psicologici, già prediletti da Petrarca. Emergono la morte prima del tempo (che blocca la vita a una perpetua giovinezza), gli occhi «sazi», il desiderio di pace e di silenzio, l'osservazione attonita del mutare di ogni cosa:

Da voi, pensosi innanzi tempo,
troppo presto
tutta la luce vana fu bevuta,
begli occhi sazi nelle chiuse palpebre
ormai prive di peso,
e in voi immortali
le cose che tra dubbi prematuri
seguiste ardendo del loro mutare,
cercano pace,

e a fondo in breve del vostro silenzio
si fermeranno,
cose consumate:
emblemi eterni, nomi,
evocazioni pure ...


voi: gli occhi della fanciulla (cfr. v. 4).
troppo presto... bevuta: troppo presto gli occhi di Ofelia hanno terminato di nutrirsi della luce della vita.
immortali: eterni.
ardendo... mutare: soffrendo di fronte al mutare e consumarsi di ogni cosa nel tempo.
silenzio: la dimensione misteriosa che sta al di là della morte.


Mario Luzi e il mito di Laura
In un saggio del 1945, intitolato L'inferno e il limbo, Mario Luzi definisce Petrarca il poeta del «limbo», il poeta del «regno dove il dolore è eterno, non limitato a un'accezione, a un momento dialettico dell'essere: ovvero limitato soltanto a ritroso, dalla felicità possibile nella memoria». Nella poesia di Petrarca si espandono «il dominio e la purezza dello spirito, il quale non riconosce più altro oggetto che la propria solitudine e il proprio sistema circolare chiuso». Petrarca appare a Luzi come l'autore che ha fissato alcune certezze della vita umana, su cui anche il poeta moderno sceglie di approfondire la sua meditazione: la soffferenza come sentimento dominante, la memoria come garanzia di felicità.
Nella poesia che segue (Finchè una luce senza margini d'ombra), dalla raccolta Su fondamenti invisibili (1971), Luzi evoca una situazione di stampo petrarchesco: come Petrarca incontra Laura e riconosce in lei un'apparizione che gli rivela il significato della vita, così Luzi incontra un fantasma femminile che ha precisi connotati: sorride, veglia sul poeta e gli svela la natura misteriosa dell'amore. La donna, alla maniera di Laura, è la luce che illumina le tenebre, è la presenza salvifica che «affina» e purifica i pensieri di ogni individuo:

Finché una luce senza margini d'ombra
illumina l'oscurità del tempo,
risale ad uno ad uno i suoi tornanti
e m'accorgo di te entrata nella mia vita
neppure mi chiedo da che parte e quando
e se lo sei o se invece non sei sorta
su dalla sua profondità di notte in notte affiorando.
– Che farà qui – mi dico mentre splendi
e sorridi un sorriso anche mio – forse
veglia su di me. Forse affina da sempre il mio pensiero
occupato da troppe parvenze e monco -
e ti guardo come sei, già nota
sebbene mai prima d'ora veduta
e stupisco che l'amore abbia questo volto interno.


suoi tornanti: i tornanti della strada immaginaria che ia luce deve percorrere per emergere dai buio.
affina: raffina, eleva.
occupato... e monco: dominate da immagini false e limitato.
nota: conosciuta.
interno: interiore.

Postato il 5 gennaio 2011

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