04 gennaio 2011

Il petrarchismo di Pietro Bembo e Giovanni Della Casa

Esiste una forma "storica" di petrarchismo, ben definita nel tempo e nelle sue caratteristiche: è il petrarchismo del Cinquecento, ovvero quella estesa produzione di rime scritte sul modello del Canzoniere di Petrarca, "copiate" possiamo dire, con un'aderenza massima al modello, sulla base delle indicazioni teoriche che Pietro Bembo fornì nella sua opera Prose della volgar lingua.

Bembo, che può dirsi il fondatore del petrarchismo del Cinquecento, era per una imitazione totale del modello, e non parziale come fu per il petrarchismo quattrocentesco; Bembo riteneva che fosse da imitare la personalità poetica stessa di Petrarca, il suo inondo morale innanzi tutto, e quindi la "storia di un'anima" così come veniva narrava, nei Rerum vulgarium fragrnenta, cioè nel suo itinerario dal «giovenile errore» fino alla scelta del bene celeste.
Esponenti del cosiddetto «bembismo», ovvero seguaci delle teorie bembiane, furono, tra gli altri, Pietro Aretino, Bernardo Tasso, e molte donne. Ma forse il miglior poeta del petrarchismo cinquecentesco fu Giovanni Della Casa (1503-1556). Della Casa è autore di un canzoniere (poco più di settanta sonetti e quattro canzoni), pubblicato postumo nel 1558, che per Croce è il migliore del Cinquecento: la sua poesia è grave e austera, sinceramente autobiografica e meditativa, poco incline ad artifici e giochi formali o al vieto ripercorrere gli schemi narrativi petrarcheschi; non canta alcuna storia d'amore particolare, ma lo stato d'animo del poeta, la sua inquietudine, quasi un moderno dramma del vivere. Della Casa sostituirà Petrarca come modello per i successivi poeti lirici. Tasso, nel suo dialogo La Cavalletta, propone esplicitamente Della Casa come exemplum lirico da imitare, e motiva questa scelta col fatto che la poesia di Della Casa evita quelle «arguzie de' sofisti» e quel «soverchio» di musica che piace al mondo. Insomma, la poesia di Della Casa appare agli autori tardo-cinquecenteschi come più autentica, meno artificiosa e formale. Le Rime di Tasso seguiranno il suo esempio.


Pietro Bembo, La fera che scolpita nel cor tengo
Bembo scrisse un canzoniere d’amore, una vera e propria storia sul modello petrarchesco, per la donna amata, la Morosina, da cui ebbe anche un figlio. questo sonetto, scritto tra il 1530 e il 1535, verte sul tema tradizionale, presente anche nel Dante delle «rime petrose» oltre che in Petrarca, della «donna fera», cioè crudele; vi compare inoltre il motivo dell'età matura che più non si addice alle passioni, tipico delle rime definite dello «stil canuto» presenti nella parte finale del canzoniere petrarchesco.

La fera che scolpita nel cor tengo,
così l'avess'io viva entro le braccia:
fuggì sì leve, ch'io perdei la traccia,
né freno il corso, né la sete spengo.
Anzi così tra due vivo e sostengo
l'anima forsennata, che procaccia
far d'una tigre sciolta preda in caccia,
traendo me, che seguir lei convengo.
E so ch'io movo indarno, o penser casso,
e perdo inutilmente il dolce tempo
de la mia vita, che giamai non torna.
Ben devrei ricovrarmi, or chi' m'attempo
et ho forse vicin l'ultimo passo:
ma piè mosso dal ciel nulla distorna.

Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE.
1. La fera: la bestia feroce; è metafora dantesca e petrarchesca per dire la donna crudele (cfr. ad esempio Petrarca, RVF, CLII, «Questa humil fera un cor di tigre o d'orsa»).
3. sì leve: così leggera, svelta.
4. né... né: il doppio «né» va letto in senso concessivo, come un «ciò nonostante». – sete: metafora per «desiderio».
5. tra due: tra due condizioni, cioè tra l'amore che mi distrugge e il desiderio di pace; è la solita espressione del dualismo e del dissidio interiore.
6. che procaccia: cosa procura, a che giova.
7. sciolta: in libertà.
8. traendo... convengo: trascinando me, che m'adeguo a inseguirla. E la paradossale situazione dell'uomo che vuole cacciare una tigre, dalla quale è in realtà cacciato.
9. movo indarno: mi muovo invano. – penser casso: pensiero nullo, vano, senza effetto.
12. ricovrarmi: rifugiarmi, trovarmi un ricovero, un riparo. – or ch'i' m'attempo: adesso che invecchio.
14. ma piè... distorna: ma nulla può distogliere («distorna») un piede che sia mosso dal destino («ciel»).


Pietro Bembo, Quando, forse per dar loco a le stelle
Il sonetto "in morte" della donna amata, la Morosina, fu scritto prima del 1530 per un 'altra donna, e solo a posteriori inserito tra le rime dedicate a lei: la qual cosa fa giustamente riflettere sulla sostanza non realistica, ma astratta, priva di concretezza biografica di questi canzonieri e della poesia lirica in generale, dai provenzali in poi. In effetti il sonetto non presenta alcun dato reale e concreto, ma è piuttosto un accorato lamento sulla condizione umana in generale, sulla caducità della vita e la crudeltà del destino, nonché sull'importanza del ricordo, delle nostre "immagini mentali" che sole ci appartengono e ci soccorrono.

Quando, forse per dar loco a le stelle,
il sol si parte, e ‘l nostro cielo imbruna,
spargendosi di lor, ch'ad una ad una,
a diete, a cento escon fuor chiare e belle,
i’ penso e parlo meco: in qual di quelle
ora splende colei, cui par alcuna
non fu mai sotto ‘l cerchio de la luna,
benché di Laura il mondo assai favelle?
In questa piango, e poi ch'al mio riposo
torno, più largo fiume gli occhi miei,
e l'imagine sua l'alma riempie,
trista; la qual mirando fiso in lei
le dice quel, ch'io poi ridir non osò:
o notti amare, o Parche ingiuste et empie.

Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE.
1. per dar loco: per lasciare il posto.
2. si parte: se ne va.
3. spargendosi di lor: cospargendosi di stelle.
5. meco: con me stesso.
6-7. cui... luna: alla quale nessun'altra donna fu mai pari sotto il cielo della luna, cioè al mondo.
8. benché... favelle?: il riferimento è alla Laura di Petrarca, di cui tanto il mondo parla («favelle»).
9. In questa: in quel momento. — riposo: allude al riposo notturno.
10-12. più... trista: un fiume sempre più largo (di lacrime) riempie i miei occhi, e la sua immagine, triste, riempie la mia anima.
12. la qual: cioè l'anima. — mirando fiso in lei: fissandola con lo sguardo.
14. Parche: sono le tre divinità infernali, che rappresentano il destino umano: tre orribili vecchie che tengono in mano il filo della nostra vita.


Giovanni Della Casa, O dolce selva solitaria, amica
Questo sonetto di Della Casa appartiene al periodo del suo ritiro (1552) nell’abbazia di Nervesa sul Montello, avvenuto in seguito alla cocente delusione per la mancata nomina a cardinale. Il sonetto è intriso del senso di solitudine e amarezza che coglie il poeta nel passaggio verso la vecchiaia. Il tema non è più l'amore, ma una "pensosità drammatica" su se stesso e sul proprio destino, che si riflette anche nel ritmo, così lento e grave, grazie alluso degli enjambements.

O dolce selva solitaria, amica
de' miei pensieri sbigottiti e stanchi,
mentre Borea ne' dì torbidi e manchi
d'orrido giel l'acre e la terra implica;
e la tua verde chioma ombrosa, antica
come la mia, par d'ognintorno imbianchi,
or, che 'n vece di fior vermigli e bianchi,
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;
a questa breve nubilosa luce
vo ripensando, che m'avanza, e ghiaccio
gli spirti anch'io sento e le membra farsi:
ma più di te dentro e d'intorno agghiaccio,
ché più crudo Euro a me mio verno adduce,
più lunga notte e dì più freddi e scarsi.

Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE.
1. selva: è la selva del Montello.
2. sbigottiti: sgomenti, pieni di amarezza.
3. Borea: è il vento invernale. — manchi: corti.
4. implica: avvolge
5-8. e la tua... aprica: il poeta instaura un paragone tra la «chioma» della selva, imbiancata dalla neve dell'inverno, e la sua chioma, bianca per l'età; è quindi, implicitamente, un paragone tra inverno e vecchiaia.
8. piaggia aprica: pendio soleggiato.
9-10. questa... m'avanza: la breve nuvolosa («nubilosa») luce che gli resta («m'avanza») è la vecchiaia.
12. ma... agghiaccio: il poeta "agghiaccia dentro", colpito da un vento (l'Euro) ben più crudele, che gli porta giorni più freddi e una notte più lunga: ovviamente sta pensando alla morte che lo attende.


Giovanni Della Casa, O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
Questo sonetto è interamente centrato sul motivo del sonno, vero e propriotopos letterario, che dalla Grecia antica giunge fino ai nostri giorni.

O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio; o de' mortali
egri conforto, oblio dolce de' mali
sì gravi ond'è la vita aspra e noiosa;
soccorri al core ornai, che langue e posa
non have, e queste membra stanche e frali
solleva: a me ten vola, o sonno, e l'ali
tue brune sovra me distendi e posa.
Ov'è ‘l silenzio che ‘l dì fugge e ‘l lume?
e i lievi sogni, che con non secure
vestigia di seguirti han per costume?
Lasso, che 'nvan te chiamo, e queste oscure
e gelide ombre invan lusingo. O piume
d'asprezza colme! o notti acerbe e dure!

Metro: sonetto con schemaABBAABBA CDC DCD
2. figlio: il sonno è detto figlio della notte in quanto generato da lei.
3. egri: deboli, sofferenti.
4. ond'è: per cui è. — noiosa: difficile, dura.
5-6. posa non have: non ha tregua dai suoi mali.
6. frali: fragili.
7. a me ten vola: vola da me.
9. che... lume: che fugge la luce del giorno.
11. vestigia: orme, passi.
12. Lasso: infelice, misero.
13. lusingo: cerco di attirare. — piume: letto.
14. acerbe: dolorose


Analisi
Amore e tradizione poetica
Nel sonetto La fera che scolpita nel cor tengo Bembo canta la sua passione per la donna amata, attraverso una serie di immagini convenzionali.
L'espressione «scolpita nel cor tengo» contiene almeno due riferimenti: alla donna dipinta nel cuore, di ascendenza siciliana, e quello alla donna-pietra, emblema della crudeltà, tipico della lirica stilnovista e petrarchesca (si pensi alle «rime petrose» di Dante). Nel Canzoniere questo tema è spesso associato alla figura mitologica di Medusa, la donna che impietrisce con lo sguardo, presente anche nel sonetto di Lorenzo de' Medici (Come lucerna all’ora matutina). Un altro tema tradizionale è quello della fuga e della caccia, al quale rimanda fin dal primo verso l'espressione «fera»: la donna è come una fiera, costantemente in fuga, imprendibile, e l'uomo la insegue, ne cerca le tracce, vuoi cacciarla, anche se si rende conto d'essere lui la preda («traendo me, che seguir lei convengo»). L'inseguimento è pertanto inutile, ma pure è impossibile evitarlo, poiché è imposto da un inesorabile destino («piè mosso dal ciel nulla distorna»). A Petrarca rimanda poi in modo specifico la dolorosa percezione della fuga del tempo e della brevità della vita, che il poeta sente di perdere in vani pensieri, mentre la morte si fa ogni giorno più vicina («et ho forse vicin l'ultimo passo»).
Nel sonetto Quando, forse per dar loco a le stelle il riferimento al Canzoniere petrarchesco è ancora più esplicito: Bembo afferma, con la consueta iperbole, che non ci fu mai alcuna donna al mondo in grado di reggere il paragone con la sua, neppure Laura, nonostante la fama di cui gode («benché di Laura il mondo assai favelle»). L'atmosfera notturna evocata nella prima quartina fornisce al colloquio del poeta con se stesso una particolare intimità («i' penso e parlo meco») e prepara l'effusione lirica delle terzine, dove il tono si fa più cupo e dolente; in questi versi, infatti, l'anima del poeta è interamente dominata dal ricordo della donna morta, che ora forse risplende in una stella («più largo fiume gli occhi miei, / e l'imagine sua l'alma riempie»). Il tema della morte e del destino è associato, come spesso avviene nella poesia petrarchista, all'immagine delle Parche, inquietanti figure mitologiche che presiedono all'esistenza di ogni uomo.

Un petrarchismo grave
Il petrarchismo di Della Casa è un petrarchismo grave, in cui l'analisi interiore giunge a un livello di profondità anche maggiore del modello. Nel sonetto O dolce selva solitaria, amica l'influenza di Petrarca risulta evidente nell'immagine della «selva solitaria, amica» alla quale il poeta affida i suoi pensieri, ma anche nella dolente riflessione sulla brevità della vita e sul rapido sopraggiungere della vecchiaia; a livello stilistico si può notare, oltre al lessico di ascendenza petrarchesca, la presenza del consueto ritmo binario («sbigottiti e stanchi»; «torbidi e manchi»; «l'aere e la terra»; «ombrosa, antica»; «vermigli e bianchi»; «neve e ghiaccio»; «gli spirti [...] e le membra»; «dentro e d'intorno»; «freddi e scarsi»).
All'inverno fisico, evocato attraverso una serie di notazioni che rimandano all'oscurità («dì torbidi e manchi»; «breve nubilosa luce»; «lunga notte») e al freddo («orrido giel»; «neve e ghiaccio»; «ghiaccio»; «agghiaccio»; «crudo [...] verno»; «dì più freddi»), corrisponde in questo sonetto un inverno del cuore, crudo e desolato, emblema della condizione esistenziale del poeta. La neve che imbianca le chiome degli alberi, richiama l'immagine della canizie, segno tangibile del tempo trascorso («e la tua verde chioma ombrosa, antica / come la mia, par d'ognintorno imbianchi»), mentre la flebile luce delle giornate invernali si identifica con la vecchiaia («questa breve nubilosa luce [...] che m'avanza»). Il ghiaccio che ricopre i prati, un tempo colmi di fiori, è lo stesso che invade ora l'animo e il corpo del poeta («ghiaccio / gli spirti anch'io sento e le membra farsi»), con la differenza che il suo è un gelo ancora più intenso e crudele, perché irreversibile: mentre nella selva la neve presto si scioglierà e la natura tornerà ad essere rigogliosa, seguendo il suo ritmo ciclico di morte e rinascita, nel cuore del poeta l'inverno si farà ogni giorno più cupo e desolato, finché non sopraggiungerà la morte («più lunga notte e dì più freddi e scarsi»).
La tristezza del poeta trova un corrispettivo, sul piano stilistico, nelle frequenti allitterazioni e nei fitti enjambements che conferiscono al componimento un tono di dolente stanchezza. Dove domina la descrizione del paesaggio invernale, i suoni si fanno aspri: prevale infatti la r («mentre Borea ne' dì torbidi»; «d'orrido giel l'aere e la terra»; «le membra farsi»; «dentro e d'intorno»; «più crudo Euro»; «freddi e scarsi») e compaiono numerose consonanti doppie (ghiaccio; piaggia, ghiaccio; agghiaccio; adduce, notte; freddi).

Il male di vivere
Nel sonetto O sonno, o de la queta, umida, ombrosa il sonno è associato a una temporanea sospensione della coscienza ed è invocato dal poeta come un sollievo al male di vivere («de' mortali / egri conforto, oblio dolce de' mali»). La negatività del reale trova espressione in una serie di dittologie, che richiamano l'attenzione sulla fatica, sul freddo e sul dolore connaturato alla condizione umana («aspra e noiosa»; «langue e posa»; «stanche e frali»; «oscure e gelide»; «acerbe e dure»). Al peso della realtà si contrappone l'eterea leggerezza del sonno, al quale il poeta chiede di volare fino a lui e di ricoprirlo con le sue ali scure («a me ten vola»; «l'ali / tue brune sovra me distendi e posa»). Lo stesso carattere tenue ed evanescente appartiene anche ai «lievi sogni», che accompagnano il sonno con passi incerti; attraverso la litote e l'enjambement («non secure / vestigia») il poeta richiama l'attenzione sull'ambigua realtà delle visioni notturne, definite nei versi successivi «gelide ombre». Il ritmo lento e solenne conferisce alla lirica un tono dolente e meditativo. Mentre nelle quartine la fluidità della sintassi, che supera sistematicamente i confini del verso, sottolinea il desiderio di fuga e di evasione nell'incoscienza del sonno, nelle terzine la presenza di numerose proposizioni interrogative ed esclamative richiama l'attenzione sull'inesorabile durezza del presente («Ov'è ‘l silenzio che ‘l dì fugge e ‘l lume?»; «O piume / d'asprezza colme! o notti acerbe e dure!»). Se si considera infine che nelle immagini contrapposte del sonno e della veglia sono implicite, a livello allusivo, quelle della morte e della vita, l'aspirazione all'oblio, che domina il componimento, viene a identificarsi con un accorato desiderio di annullamento.


Tratto da Guerriero-Palmieri-Lugarini, Prisma, volume 1 (La letteratura dalle origini alla fine del Quattrocento), pp. 385-390

Postato il 4 gennaio 2011

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