04 gennaio 2011

Il '68 è morto e nessuno gli risponde

di Davide Rondoni
Si dice che con la riforma Gelmini e l'accordo Marchionne in Italia è finito il '68. Qualcuno dice di rallegrarsene, qualcuno se ne lagna. Credo che la cosa sia un po' più seria che un dibattito tra riformisti (ex conservatori) e nostalgici (ex rivoluzionari). Sentirsi dalla parte del futuro dà sempre una certa ebbrezza a coloro che ritengono la storia unica dimensione della vita. Il Futuro è il loro dio, e dunque c'è chi fa a gara a chi gli è più fedele.
Ma se la ministra Gelmini ha qualche ragione nel dire che la sua riforma intacca alcuni dogmi deleteri del '68, chi invece ritiene che oggi il problema in Italia sia superare o difendere il '68 mi pare che viva davvero su un altro pianeta. Io sono nato nel '64 e quindi il '68 l'ho anagraficamente superato a quattro anni. Il fatto è che la generazione presente rischia secondo un certo modo di vedere le cose di passare alla storia come una generazione di seppellitori. Un po' come degli allegri becchini della storia. Abbiamo assistito, a sentir le chiacchiere sui media, a una serie di funerali impressionanti. In una ventina d'anni avremmo seppellito le ideologie ottocentesche (crollo del Muro dell'89), avremmo sepolto il '900 (attentato alle Torri gemelle del 2001) e assistito al crollo del modello capitalista (crisi del 2008-09). E ora pure ci saremmo mangiati il '68. Va bene che la storia, dicono, si sia accelerata, ma qua sembra un funerale continuo. Per non parlare di altri superamenti "minori" se così si può dire, ma non meno decisivi: la fine dell'autorità Onu con le guerre nell'ex-Jugoslavia, la fine delle monete nazionali in Europa; la fine dell'era italiocentrica nella Chiesa cattolica eccetera. Le cose non stanno così. La storia è più complicata di un progressivo superamento, e non è nemmeno un semplice ritorno. La storia è un dramma. E dunque gli elementi che sono entrati in scena non scompaiono mai. Ancora oggi - siamo in periodo natalizio - ci sono persone e non poche che celebrano con serietà riti pagani per il solstizio invernale. Aveva detto giusto Paolo di Tarso: è una scena. La storia è una scena, ci sono elementi e attori che occupano per un po' il proscenio. Ma anche quando l'applauso scema non scompaiono dietro le quinte. È una scena certamente affollata, caotica, dove occorre osservare bene, cercando di tener conto di tutto per avere una visione di quanto sta avvenendo. Occorre stare attenti ai dettagli. E dunque per tornare al destino del '68, credo che non scompariranno le istanze di autenticità, una libertà allegra di costumi (che in Italia a ben vedere è da sempre), non svanirà la domanda di un'autorità fondata sulla autorevolezza e non sulla retorica o sul potere. Del '68 non scompariranno le domande urgenti che furono suscitate e messe al centro. Le possiamo vedere - in altra maniera espresse - nei nostri giovani, e non solo o non tanto in quelli che fan le manifestazioni "alla '68". Spesso nel manierismo c'è la maggior distanza dalla forza dell'originale. Le domande più importanti del '68 sono ancora vive, sono invece in crisi molte risposte che i profeti di allora formularono. Decretare chiuso il '68 è un errore se significa ignorare le struggenti, dolci e potenti domande di autenticità, di libertà e di comunità che furono poste. Ma pensare di attestarsi e riformulare le stesse risposte di allora sarebbe il modo più ottuso per chiudere e evitare ora quelle domande.
«Il Sole 24 Ore» del 4 gennaio 2011

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