04 gennaio 2011

Battisti resterà libero. Di uccidere la giustizia

di Mario Cervi
L’annunciata decisione del presidente brasiliano Lula di non concedere l’estradizione di Cesare Battisti è un’offesa grave sia alle istituzioni italiane sia alle famiglie di chi per mano di terroristi rossi è morto. La motivazione addotta per giustificare il no alla consegna d’un criminale condannato all’ergastolo per quattro omicidi è grottesca. Non lo si vuole restituire all’Italia, è stato spiegato, per «preservarne l’incolumità». Quasi che le carceri della Penisola, internazionalmente note per avere porte girevoli come quelle dei grandi alberghi, fossero tetri e spietati strumenti d’una legge repressiva. Ma ci si fida molto, a quanto pare, della parola di Battisti che aveva con drammatica enfasi detto: «Se torno in Italia mi ammazzano». Per verità la sua vocazione è stata quella dell’assassino, non dell’assassinato.
Il nostro, catturato nel 1979, è evaso nel 1981 dal carcere di Frosinone - pur con tutti i suoi esasperati garantismi la giustizia italiana gli faceva paura - e ha trovato rifugio in Francia. Fu protetto, quando soggiornava a Parigi, da François Mitterrand: socialista borghese incline da capo dello Stato a non disturbare i pistoleros rossi che gli chiedevano asilo purché si astenessero da ulteriori ammazzamenti. Battisti ha trovato poi indulgenza, oltreoceano, nel presidente Lula che con l’imminente scadenza di fine anno si congederà dalla carica, e la lascerà alla sua erede Dilma Rousseff. Lula, che vanta un passato di stampo castrista ma nell’azione di governo s’è in complesso dimostrato efficiente e pragmatico, vuole dunque un addio di sinistra, ideologicamente inequivocabile. Battisti libero, le vittime sottoterra, e i vivi - incluso Alberto Torregiani, figlio del gioielliere ucciso nel 1979, paralizzato nella sparatoria dell’attentato - a protestare: temo inutilmente. Di sicuro l’Italia si muoverà per far ravvedere il Brasile, ma il tema è di quelli in cui un facile buonismo di solito trionfa.
Ne abbiamo viste tante, e la vicenda Battisti conferma una verità che ritengo indiscutibile. Se si commette un crimine «rivoluzionario», e se ci si aggiunge un pizzico d’intellettualità «maudite» (Battisti è anche autore di libri) si gode d’una sorta di immunità. I ruoli cambiano ma la regola rimane. In alcune occasioni di ieri l’Italia si è comportata come il Brasile oggi. Anni or sono una terrorista o amica di terroristi, Petra Krause, era nelle prigioni svizzere. In Italia si scatenò una furibonda campagna progressista in favore della donna «malatissima», si sosteneva che in confronto ai penitenziari elvetici la Lubianka sovietica era una residenza di lusso. Dopo forsennate insistenze accompagnate dalla garanzia che non la si sarebbe liberata, la Krause venne in Italia e liberata fu quasi subito, mentre la sua salute migliorava rapidamente. Non molto diversa la sorte di Silvia Baraldini, condannata negli Usa come terrorista, consegnata all’Italia - anche lei con la promessa di farle espiare qui la pena americana - e presto fuori.
Non mi spiace il lieto fine per queste due ribelli che si sono giovate del soccorso rosso nazionale e internazionale. Ma almeno non si erano macchiate le mani di sangue. Ne grondano invece, stando a quanto hanno accertato le sentenze, le mani di Cesare Battisti. Il sangue di Antonio Santoro, maresciallo della polizia penitenziaria, di Lino Sabbadin, macellaio di Mestre, del gioielliere Pierluigi Torregiani, dell’agente penitenziario Andrea Campagna. Troppo poco, quel sangue, per concedere l’estradizione?
«Il Giornale» del 30 dicembre 2010

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