08 gennaio 2011

Angelo Conti (1860-1930), La beata riva. Trattato dell’oblio (1900)

L’artista è un’anima la quale più intimamente d’ogni altra può mettersi in relazione con l'anima delle cose. Diremo anzi, per maggiore esattezza, che l’artista, durante la contemplazione estetica. è un’anima singola, la quale gradatamente si perde nell’anima universale; diremo ch’egli e una volontà individuale la quale gradatamente s’annulla in una volontà più vasta e più profonda.
L’effetto immediato della contemplazione e dell’emozione estetica è infatti l’oblio di sé, uno stato d’inconsapevolezza, una momentanea liberazione dai dolori e dalle ansietà dell’esistenza. Ora in questo breve tempo in cui l’artista dimentica se stesso, in cui la sua volontà individuale non s’afferma, egli è in relazione non più mediata con la natura, egli non è più l’uomo per il quale le cose si colorano secondo lo stato del suo animo dolente lieto; ma è l’occhio limpido in cui le cose si riflettono senza velo, è un cuore divenuto calmo e che, per pochi istanti, batte all’unisono col cuore del mondo. (…)
A questo punto che cosa avviene?
Ciò che avviene a questo punto è chiuso nel mistero delle cose semplici; ond’è molto difficile farne la traduzione con linguaggio chiaro, per chi non abbia una naturale disposizione ad intendere. Prima adunque che dal contatto della natura con l’artista si sprigioni la scintilla fecondatrice dell’opera d’arte, immaginiamo la natura sola, ricordiamola come la conosciamo nelle nostre ore comuni o come pili minutamente può farcela conoscere uno scienziato. Tutta la sua attività si manifesta con evidenza nella produzione delle sue montagne, delle sue piante e dei suoi animali fra i quali è 1’uomo, non alla condizione di spirito geniale, ma nello stato umile di lottatore per l’esistenza. A traverso le compagini di tutte le vite inferiori alla vita geniale, la natura non può esprimere ciò che costituisce la più pura essenza delle sue aspirazioni. Sin che non entri in iscena il genio, la natura rimane un mistero per se medesima.
All’apparire dello spirito geniale, sembra che una nuova luce più vera e più potente di quella del sole illumini improvvisamente il mondo, e le forme delle apparenze assumano di repente un aspetto d’ombra, e dietro il loro velo d’ombra apparisca un aspetto nuovo, che il nostro occhio ridivenuto sereno subito ravvisa come il pili noto e come il pili vicino al nostro intimo cuore.
L’apparizione del genio significa che alla natura è possibile manifestarsi a traverso un cervello sviluppato mirabilmente, e che alla sua voce, prima non udita altro che da poche anime in ascolto, è ora dato prorompere nel mondo come eco di tuono.
Per essere più esatti e più brevi diremo che, per mezzo del genio, la misteriosa volontà della natura diventa oggetto della conoscenza umana, della conoscenza intuitiva e sintetica, che nulla ha di comune con le analisi empiriche e con le classificazioni scientifiche.
Questa conoscenza superiore è proclamata nei capolavori del genio, che sono, come dice il Carlyle (saggista e storico inglese, 1795-1881), l’apocalissi (= intese come «rivelazioni finali») della natura.
(…)
Per afferrare il senso di ciò che io, con frase filosoficamente inesatta, ma tuttavia efficace a farmi intendere, chiamo lavoro della natura, è necessario che lo spettacolo del mondo si presenti improvvisamente a noi come una cosa nuova, che noi dimentichiamo per un istante i mezzi onde la scienza armò più volte i nostri occhi per la osservazione dei fenomeni, che il mondo ci apparisca come appare agli occhi della adolescenza, cioè a dire non più come un insieme di cause e di effetti, ma come una pura visione. (…) Che cosa adunque ci rivelerà il mondo contemplato non con gli occhi consueti, ma con occhi divenuti limpidi e sereni quasi come gli occhi dei bambini? Una sola cosa: la vita.
(…)
La ragione per la quale nel lavoro del genio la materia non è più sorda a rispondere, ma docilmente si abbandona alla mano dominatrice, sta in questo che nel genio la volontà della natura, passando a traverso un cervello organizzato maravigliosamente, può giungere sino alla sfera della conoscenza; poiché nel genio non c’è più una volontà individuale che agisce sulla materia e le fa violenza, ma è la stessa volontà della natura che la domina e la trasforma.
Un gran mistero si compie nel genio, un mistero semplice e grandioso, mediante il quale un’anima singola può entrare in comunicazione sotterranea con l’anima delle cose. Questa comunicazione sotterranea rende possibile all’uomo di diventare la voce della natura, e d’esprimere ciò clic nasconde l’aspetto e il movimento delle sue forme, nell’opera ove l’intensità e la necessità della loro vita è concentrata nel segno supremo dello stile, nella luce rivelatrice della bellezza. Michelangelo ha espresso questo medesimo mistero nel famoso sonetto, che comincia con la seguente quartina :
Non ha lo buon scultore alcun concetto
che un marmo solo in sé non circoscriva
col suo soverchio: e solo a quello arriva
ca man che obbedisce allo intelletto.

Nel quale caso intelletto significa appunto conoscenza della volontà della natura, e serve a spiegare mirabilmente ciò che io intendo dire per comunicazione sotterranea.
Postato l'8 gennaio 2011

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