22 gennaio 2011

Aiuto, i giovani sono «scomparsi» ...

Nel ’68 erano assolute protagoniste, oggi le nuove generazioni per l’immaginario sociale sono fatte da disoccupati o veline ...
di Francesco Botturi
Non può non colpire il con­trasto tra il giovanilismo postsessantottino, modello sociale che tenne il campo a lun­go nella pubblicistica e nell’opi­nione pubblica, e la sparizione o­dierna della figura giovanile dall’immaginario sociale oppure il suo apparire solo come fonte di preoc­cupazione o icona ludica della mo­da, dello spettacolo, dell’intratteni­mento: il giovane o è disoccupato, disadattato, drogato o è velina o giù di lì.
È evidente che tra i due momenti vi è la simmetria di un comune im­barazzo nei confronti della condi­zione giovanile e del suo posto nel contesto storico-sociale nazionale: allora si trattava di metabolizzare la grande paura della contestazione 'idolatrando' la figura giovani­le, oggi si cerca di esorcizzarla incastonandola in categorie sociali marginali o laterali. In un caso e nel­­l’altro, la condizione giovanile è av­vertita molto più come problema o divagazione che non come risorsa. Ovviamente, per chi non ha perso del tutto il contatto con la realtà – cioè per chi ha un contatto che non sia completamente filtrato dai si­stemi della disinformazione nazio­nale – le cose non stanno così. Il mondo giovanile presenta una gamma amplissima di situazioni e di tipologie umane e culturali, in cui la negatività è più grave e ende­mica e in cui la positività costrutti­va, la buona volontà, l’ingegnosità, la generosità, la capacità aggrega­tiva sono molto superiori e diffuse, rispetto a quanto rappresentato. D’altra parte, è anche vero che il ce­to giovanile oggi stenta a trovare le sue forme di autorappresentazio­ne e di comunicazione e quando prende iniziativa pubblica colletti­va si segnala per lo più con gesti di esasperata reazione o di opposi­zione inconcludente.
Il problema è dunque l’as­senza complessiva del gio­vane dalla scena pubblica, come protagonista, come modello, come interrogati­vo: è come se non si sapes­se che posto dare al ceto giovanile nel contesto del­la vita e della storia nazio­nale, ed è anche come se i giovani non sapessero nep­pure loro che posto ricono­scersi di diritto e costruirsi di fatto. Le analisi psico-socio­economiche, a questo punto, pos­sono dire moltissime cose, eviden­ziando i tanti aspetti del problema e chiarendo cause e condizioni. Ci possono far capire, ad esempio, quali scelte hanno condotto la politica del Paese a garantire le posi­zioni acquisite nel passato contro le risorse del futuro; oppure quale sia il fondamento della diffusa sensa­zione giovanile di non essere og­gett di cura e di investimento da parte della Nazione che pur li ha generati, eccetera. Insomma, posso­no spiegarci ciò che ha condotto in una situazione in cui è diventato o­scuro se e quale eredità avranno in sorte le giovani generazioni. Ma per comprendere il pun­to cui siamo arrivati abbia­mo bisogno di mettere in risalto le categorie antropologiche – nascita, generazione, cura, eredità –, di cui abbiamo fatto uso. Per­ché sono esse la vera posta in gio­co; meglio, dicono tutto ciò da cui si è preteso (e si continua a preten­dere) di prescindere nel gestire la vita comune e le grandi questioni sociali. In un’implicita continuità con una sindrome ideologica an­tiautoritaria, antipaterna, antifa­miliare, eccetera, si fa della que­stione giovanile una questione so­lo di cronologia, piuttosto che di ge­nesi. Come si parlava negli anni ’60 dello scontro tra generazioni, si par­la oggi della loro estraneità; ma con­tinuando a non soppesare il termi­ne 'generazione', che prima di in­dicare quelli che sopravvengono, significa l’azione con cui la vita re­inizia e continua. Con profonda in­tuizione Hanna Arendt vedeva in o­gni autentico agire umano una 'na­scita' e un 'inizio'; come a dire che il nascere/prendere inizio è il sen­so dell’essere-in-azione dell’uomo e del suo stesso vivere.
È qui che tocchiamo il punto ne­vralgico di tutta la questione, che ha al suo centro una visione antro­pologica dei cui limiti non smettia­mo ancora di pagare il prezzo e per la cui revisione non sembriamo an­cora davvero disponibili. La que­stione giovanile, infatti, è la spia non solo di scelte socio-economi­co entropiche (che cioè legano ri­sorse umane invece di liberarle), ma è ancor più indice di un’idea di uomo che ha raggiunto i suoi limi­ti estremi, divenendo sterile e op­pressiva. Sulla vita nascente e gio­vane si scarica oggi il peso definiti­vo di quell’individualismo moder­no la cui ideologia non consiste in­nanzitutto nell’idea dell’individuo separato – che ne è piuttosto con­seguenza – ma nell’idea dell’iden­tità individuale che non deve nulla a nessuno, come se uno nascesse da se stesso e non fosse responsabile che nei confronti di se stesso. Un self-made man in senso radica­le, che oggi rivive nelle forme del­l’autodeterminazione radicale nei confronti della vita e della morte, dell’identità sessuale e delle rela­zioni affettive, della stessa configu­razione genetica nelle prospettive del post-umanesimo, eccetera, presentate come forme di grande in­novazione libertaria, mentre costi­tuiscono solo un’esasperata conti­nuazione di un’idea antropologica consunta, giunta alla fase estrema del narcisismo o, come qualcuno dice, del 'nar-cinismo'.
L’idea individualista vive del­l’ipotesi di un autoposses­so irreale, che prescinde da quella relazione generativa che è anche struttura e condizione per­manente per cui l’umano possa ap­parire, crescere, prender forma e trasmettersi a sua volta. Così nell’i­dolatria o nella trascuratezza della condizione giovanile, cioè nell’incapacità di curare e promuovere ve­ramente tutti i luoghi genetici del­le risorse umane del Paese (matri­monio e famiglia, nascita ed equi­librio demografico, educazione e formazione, scuola e università, ar­ti liberali e alta cultura) si esprime al peggio una concezione che non vede nelle forme generative dell’u­mano il contenuto più prezioso del­la tradizione nazionale, della vita sociale, del lavoro politico.
La condizione giovanile aiuta a ca­pire, dunque, che oggi, dentro i molti problemi sociali e istituzio­nali, è in gioco un intero paradigma antropologico: quello che la mo­dernità ci ha consegnato con l’in­dividualismo, la cui legge è l’auto­conservazione, ed eventualmente – purché sia 'auto' – anche l’auto­distruzione; e quello alternativo, il paradigma dell’identità generativa, la cui legge è la relazione feconda di umanità (e, perciò, anche di figli e di opere), che ha il senso della provenienza e guarda avanti, perché sa che la vita si conserva solo tra­smettendosi, generando e rigene­rando l’umano in tutte le sue di­mensioni.
Troppi segni ci dicono che noi non siamo ancora pronti per un con­vinto passaggio a una nuova sensi­bilità antropologica, ma la storia delle cose e quella degli uomini ren­derà sempre più manifesto che questa è l’unica via di uscita dalla 'gabbia di ferro' di un mondo sem­pre più organizzato, ma sempre meno partecipe.
Sulla vita nascente e iniziale si scarica oggi il peso del moderno individualismo, narcisista e autodistruttivo perché incapace di pensare in termini di relazioni umane
«Avvenire» del 20 gennaio 2011

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