10 dicembre 2010

Se Prometeo indica il futuro

L’attualità di un testo classico che invita a riflettere sul progresso e sui limiti della scienza
di Eva Cantarella
La tragedia di Eschilo tradotta e riletta da Edoardo Boncinelli Il tema Sofocle lo reinterpretò in modo problematico: per lui la «techne» può prendere la via del bene o quella del male, dipende dall’uomo
Prometeo, figlio del Titano Giapeto, apparteneva a una stirpe divina. Ma amava molto gli esseri umani, ai quali un giorno, dopo averlo rubato agli dèi, fece dono del fuoco: lo strumento che consentì loro di intraprendere la strada del progresso, accorciando la distanza che li separava dagli immortali. Per punirlo, Zeus lo fece incatenare a una roccia agli estremi confini del mondo, immobilizzato da catene di ferro che lo serravano agli arti e al torace, condannato a subire atroci, infiniti tormenti. Così il Titano ribelle veniva rappresentato sulla scena ateniese. Così venne rappresentato, più precisamente, quando Eschilo, attorno al 470 a.C., mise sulla scena il Prometeo incatenato (parte di una trilogia per il resto andata perduta, che comprendeva, rispettivamente prima e dopo quello «incatenato», un Prometeo portatore di fuoco e un Prometeo liberato). Dei dubbi sulla autenticità della tragedia non parleremo, non solo perché questione filologica impossibile da affrontare in questa sede, ma anche e soprattutto perché quel che qui interessa, oggi, è soprattutto il contenuto dell’opera. Rispettando la regola della «distanza tragica», secondo la quale quel che veniva portato sulla scena doveva distaccarsi dalla particolarità, dalla specificità del presente, la storia di Prometeo induceva gli ateniesi a riflettere su un tema molto importante nella Atene che, nel V secolo a.C., aveva raggiunto il massimo del suo splendore: l’incivilimento del genere umano e le conquiste del progresso, di cui gli ateniesi andavano giustamente fieri. E che oggi, a distanza di duemilacinquecento anni, è importante come forse non è stato mai. In una bella prefazione alla nuova traduzione di Edoardo Boncinelli, (Eschilo, Prometeo incatenato. L’uomo dal mito alla vita artificiale, Editrice San Raffaele, pp. 118 euro 14), Luca Ronconi (al quale si deve una splendida messa in scena del Prometeo nel teatro greco di Siracusa, nel 2002, e successivamente al Piccolo Teatro di Milano) osserva, giustamente, che «un filo percorre tutta la tragedia: che cosa accadrà domani»? E prosegue: «Se mai un’epoca si è chiesta cosa accadrà domani, questa è la nostra. Senza per ciò cercare in questa o in altre opere del passato un rapporto diretto. Sarebbe chiudere gli occhi sulla nostra contemporaneità. No, dobbiamo guardare ai grandi testi del passato come alla luce di stelle che non ci sono più. Quello che conta è l’energia originaria. Questo il loro fascino. La sola attualità è nei nostri occhi di lettori critici». E come tali appunto, sulla scorta delle parole di Ronconi, eccoci dunque a rileggere la storia del figlio di Giapeto. Personaggio ambiguo, astuto, preveggente (come dice il suo nome «colui che sa, che vede prima») Prometeo, lo abbiamo detto, era amico dei mortali che aveva difeso a cominciare dal momento in cui Zeus, conquistato il potere, aveva preso a distribuire doni e prerogative a tutti, senza tenere alcun conto della stirpe degli umani, che voleva addirittura sterminare mandandoli nell’Ade, per sostituirli con una nuova stirpe. Donando loro il fuoco, Prometeo non li aveva solo salvati dalla distruzione, aveva consentito loro di intraprendere il camino della civiltà: prima, essi «non conoscevano case di mattoni alla luce del sole, abitavano invece come minute formiche nei recessi oscuri delle caverne»; non conoscevano l’agricoltura, né le stelle, né i numeri e i segni dell’alfabeto; non sapevano aggiogare gli animali selvatici, interpretare i sogni, solcare i mari con le navi. Non conoscevano la medicina, non sapevano come contrastare le malattie... È Prometeo stesso a fare l’elenco delle benemerenze conquistate nei confronti dell’umanità, che si conclude con una orgogliosa rivendicazione: «Tutte le arti (technai) dei mortali vengono da Prometeo» (vv. 442-471; 476-506). A dimostrare l’importanza del tema, nella Atene dell’epoca, sta il suo ritorno, di lì a poco, nello splendido, primo stasimo dell’Antigone di Sofocle (vv.332-375). Ma attenzione: anche se erano passati meno di trent’anni (Antigone andò in scena nel 442 a.C.), la prospettiva di Sofocle era diversa. In Eschilo, Prometeo è un eroe benefattore senza ombre. La visione eschilea del progresso è fondamentalmente ottimistica, alle origini di esso il poeta riconosce il dono di un dio: un ribelle, certo, ma pur sempre un dio. In Sofocle, invece, il rapporto tra l’essere umano e il progresso è visto in termini problematici: l’umanità ha trovato rimedio a tutto, tranne che alla morte, e «possiede, oltre ogni speranza, l’inventiva della techne, che è saggezza». Ma può prendere sia la via del bene, sia quella del male, può rivolgere la techne in due direzioni: può farne un uso giusto, ma se il suo coraggio diventa arroganza può farne un cattivo uso (vv.364-371). La civiltà e il progresso sono il frutto dell’ingegno umano. L’uomo, «la più mirabile tra quante cose mirabili esistono» (vv.333-363) guarda con orgoglio alle sue conquiste: ma sa che queste tengono in sé un pericolo. Il valore morale del progresso dipende dall’uso che l’essere umano ne fa. Il dio è scomparso. È un’etica laica, quella che Sofocle esorta i suoi concittadini a discutere, con questi versi. Un’etica che pone l’uomo davanti alla sua responsabilità. Non è un caso, certamente, che a proporci questa nuova, bella traduzione della storia di Prometeo sia uno scienziato (oltre che appassionato grecista) come Edoardo Boncinelli.
«Corriere della Sera» del 6 dicembre 2010

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