07 dicembre 2010

Gli svedesi sconvolti dal fiume rosso di Pol Pot

La follia ideologica che insanguinò la Cambogia rivista in un saggio. E i lettori nordici lo dichiarano «libro dell’anno»
di Lorenzo Fazzini
Il libro dell’anno (2007) in Svezia? Non lo Stieg Larsson della saga Millennium, o qualche suo epigono e imitato­re del thriller tra i ghiacci. Bensì un racconto-verità sulla Cam­bogia dei massacri di Pol Pot, u­no dei Paesi del 'comunismo reale' dove la furia ideologica sterminò 1 milione e mezzo di persone su poco più di 4 milio­ni di abitanti. Un’esperienza politica all’insegna del più triste totalitarismo, che quasi supera il regime nazista per cecità omi­cida: «I nazisti vedevano i pro­pri nemici a gruppi: ebrei, rom, omosessuali, e così via. Nella Kampuchea Democratica, e in una serie di altre dittature co­muniste, chiunque poteva esse­re un nemico. Il crimine non risiedeva nel sangue o nei geni, ma nel pensiero, e dunque tutti erano potenziali controrivolu­zionari. A nessuno era concesso di sentirsi al sicuro». Come altri totalitarismi, ad esempio, an­che nella 'democratica' Cam­bogia «i libri di una delle biblio­teche universitarie furono por­tati fuori, in mezzo al viale, e bruciati'». Come ogni regime totalitario, ben descritto da Hannah Arendt, «tutto, assolu­tamente tutto, appartiene al­l’Organizzazione », come veniva chiamato il governo comunista di Phnom Penh. E, come da co­pione, nemico numero uno era «la religione: l’istituzione forse più importante in Cambogia non esisteva più. I legami mille­nari con gli antenati e il mondo degli spiriti erano stati recisi di colpo. Continuare a pregare e offrire sacrifici era illegale». E in Occidente? Proprio sulla com­prensione dell’assurdità dell’e­sperienza di Pol Pot e compa­gni (il genocidio durò 4 anni, dal ’75 al ’79, ma lasciò le sue ferite aperte per anni) si con­centra Peter Fröberg Idling nel suo Il sorriso di Pol Pot (Iperbo­rea, pp. 336, euro 17, dal quale abbiamo preso i virgolettati so­pracitati), affascinante testo che indaga una vicenda curio­sa: una spedizione dell’Associa­zione di Amicizia Svezia-Kam­puchea a Phnom Phen e din­torni, per rinsaldare i legami con i khmer rossi. Idling, gior­nalista e scrittore a lungo resi­dente in Cambogia, ha compiu­to un viaggio, fisico e simbolico, nel Paese orientale ma soprat­tutto nell’accecamento ideolo­gico di quegli occidentali per i quali il comunismo in salsa cambogiana era sinonimo di li­bertà e non di oppressione. So­lo oggi una delle partecipanti a quel viaggio, annota Idling, «considera la violenza dei kh­mer rossi come la peggiore che un regime abbia perpetrato nei confronti del proprio popolo dopo la Seconda guerra mon­diale ». Ma all’epoca i 'cattivi maestri' erano già all’opera: l’autore ne indica uno su tutti, il linguista americano Noam Chomsky (ancora sulla breccia come guru no global). Il quale si fidò – denuncia Idling – delle «fredde statistiche ufficiali con­trapposte alle debole e contrad­dittorie informazioni fornite dai profughi» che dalla Cambo­gia fuggivano nella vicina Thai­landia per espatriare verso l’Oc­cidente (vedi il recente Il lungo nastro rosso di Loung Ung, so­pravvissuta al genocidio di Pol Pot, edito da Piemme). Eppure anche allora una fonte sicura e­sisteva, per il mondo occiden­tale: bastava dar fede al missio­nario francese François Pin­chaud il cui Cambodge: L’année zéro «rappresentò una chiave di volta» perché «presenta – scrive Idling – una descrizione sostan­zialmente corretta della rivolu­zione dei khmer rossi. All’epoca la sua pubblicazione suscitò forti polemiche». Da questo li­bro la Cambogia risalta come emblema di quell’accecamento ideologico che in Occidente, negli anni Sessanta e Settanta, ha offuscato il dramma di un comunismo imposto con la for­za (e sennò, come?). E che ha drammaticamente segnato, con il suo imperialismo 'ros­so', il destino di intere popola­zioni di Paesi lontani.
«Avvenire» del 4 dicembre 2010

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