24 dicembre 2010

Elogio di Giobbe, eroe moderno

Un volume raccoglie in modo organico le «prose religiose» del poeta scomparso nel 2005
di Bruno Forte
Un teologo racconta i percorsi di Mario Luzi nella fede
Mario Luzi scrisse l’introduzione a tre testi del Nuovo Testamento, il Vangelo secondo Giovanni, le Lettere di San Paolo e l’Apocalisse, e a uno del Primo Testamento, il Libro di Giobbe. Egli «sentì» fortemente questi suoi scritti, raccolti ora in forma accurata ed elegante a testimonianza dell’ispirazione della fede biblica che alimentò la sua vita e il suo «pathos». Se mi accingo a parlarne, lo faccio in forza della medesima passione per le Sacre Scritture, oltre che motivato dell’amicizia, di cui Luzi volle farmi generosissimo dono. Per Luzi la posta in gioco nel Libro di Giobbe è la più alta, l’unica veramente decisiva (...). È la grande domanda sul dolore, sul suo senso e la possibile dignità dell’umano che può in esso mostrarsi: perciò è anche e inseparabilmente la domanda su Dio. Si Deus justus, unde malum? A Giobbe non piace l’inconciliabilità dei due termini, come non piace a Luzi: il ragionamento di Voltaire - un Dio che tollera il male, o non può evitarlo, e quindi è impotente, o non vuole, e dunque è malvagio - è troppo corto e troppo breve. Non tocca l’abisso del mistero che avvolge tutto ciò che esiste, e risolve ogni cosa in un’evidenza tanto rapida, quanto insoddisfacente. Eliminare Dio vuol dire anche negare l’ultima consistenza alla nostra vita, il suo approdo più alto, la sua sete di eternità. Con Dio o senza Dio cambia tutto. Sul crinale dell’affermazione o della negazione di Lui sta la lotta fra la voracità del nulla e la speranza del tutto, fra la nullità e il significato dell’esserci. Perciò l’idea di Dio nella mente e nel cuore dell’appassionato cercatore del Suo Volto, nascosto com’esso è sotto le piaghe del male del mondo, incessantemente «si forma e si trasforma»: e perciò di questa idea è costante solo la necessità. Di essa è eco «l’amore tempestoso e struggente che supera ogni mutamento di condizione»: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10). È questo che gli stucchevoli consolatori di Giobbe non hanno compreso: egli non cerca risposte a buon mercato, asserti consolatori o terribili. Egli «vuole» l’Amato, lo vuole con tutta la passione della Sua anima, e proprio così vuole potergli dire la sua protesta, protestare il suo amore ferito, fedele nonostante tutto, contro tutto. «Il binomio Dio-onnipotenza non avvince davvero Giobbe. A lui, al suo desiderio si addice un Dio fraterno... Forse un Dio che condivida la sofferenza delle sue creature, un Dio che prefiguri il Cristo». In questa luce si comprende l’ardita verità trasmessa dal libro di Giobbe: di fronte al dolore «il primo dramma è del Signore». Inevitabile è il rischio per chi per amore ha creato e per amore rispetta la libertà della Sua creatura: creazione è umiltà, autolimitazione dell’Eterno perché l’essere creato esista e consista, padrone della sua libertà. La grandezza di Giobbe non sta, allora, nelle spiegazioni che potrebbe essere capace di addurre analogamente a quanto fanno i suoi amici-nemici, ma nell’abbandono incondizionato all’Amato, della cui fedeltà non riuscirà mai a dubitare: «La devozione, la fedeltà - questo è in essenza Giobbe». Sfidato dalle due forze cosmiche, certo asimmetriche, ma fra cui si tende l’arco di fiamma della sua libertà, «Giobbe è all’altezza di questo grande combattimento avendo dalla sua la fermezza della fede e la pazienza... Lui regge la prova e tace». La logica della remunerazione non serve all’enormità del fatto. Occorrerà una logica altra, inquietante. (...) «Non è la conoscenza che illumina il mistero, ma il mistero che illumina la conoscenza» (Pavel Evdokimov). Mario Luzi lo sa: «La luce - confessa - mi ha occupato molto di più negli ultimi anni rispetto ai miei inizi dove la luce dà sostanza ai colori. Poi mi sono reso conto che la luce è un mondo a sé, autonomo, che crea l’altro. C’è una specie di radiosità o fulgore avvertito come tale e avvertito come mistero». La chiusa infuocata del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) ne è eloquente conferma. (...) Il dubbio che si insidia nel cuore è ben comprensibile in chi, come Luzi, ha assistito alle avventure disperate dell’ubriacatura di luce, propria delle presunzioni dell’ideologia moderna. Egli sa che la conseguenza di una troppo forte equazione fra la verità e la luce raggiunta dallo sguardo della mente è la violenza: se la verità è idea, se è visione, allora la verità costringe, perché è inseparabile dal possesso della cosa vista, dalla necessità di abbracciare ogni cosa col dominio dello sguardo. La visione della verità fonda la presunzione di una raggiungibile piena corrispondenza dell’oggetto e della mente nell’atto onnicomprensivo dell’idea: perciò può essere «luminosa insidia». Questa concezione è stata di fatto l’ispiratrice della storia dell’Occidente, la molla della sua forza, il segreto della sua violenza, l’espressione della sua anima assetata di dominio. Anche per questo Luzi si sente in sintonia con Giobbe: e il Giobbe di Luzi ci appare di una singolare modernità, in sintonia con noi, compagno dei nostri interrogativi, del nostro essere segnati dalla fragilità post ideologica, ammaliati dalla cosiddetta «ontologia del declino», sfidati dal silenzio e dall’indistruttibile nostalgia del Totalmente Altro. Il biasimo di Giobbe verso i suoi consolatori stucchevoli è dunque quello di Luzi, ed è il nostro.
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Noi, avviluppati e alienati nel nostro Occidente
di Luzi Mario

Siamo avviluppati e perfino alienati nella nostra cultura occidentale. Così può accadere che ci sorprendiamo di trovare nelle pagine iniziali del Libro di Giobbe il prologo in cielo, per noi inseparabile dalla fantasia poetica di Goethe. Il poeta moderno sembra avere oscurata la fonte; ma a sorpresa ci accorgiamo che ha coperto di vesti e panneggi più maestosi la stessa sostanza, vale a dire il momento venuto della prova. È la prova a cui il Signore sottopone Giobbe; ed è, anche per la sua lungimiranza e potenza, una prova al cospetto dell’avversario e per suo mezzo. Credo che dobbiamo liberarci dal senso proverbiale connesso con la figura di Giobbe. La proverbialità ha come sempre esaltato e avvilito l’eroe; ma in questo caso lo snaturamento è stato molto forte, la riduzione della figura molto grave. Il grandioso agonismo del Libro che lo riguarda soffre di quella semplificazione e dobbiamo riconquistarne tutto il senso possibile. Il primo dramma è del Signore. Di tanto superiore a Satana in potenza, non si può tuttavia sottrarre alla sua sfida. I poteri di Satana non sono illimitati, ma abbastanza estesi da piegare Jahweh a una dura verifica della sua onnipotenza. Che umiliazione accettare quel paragone - per necessità? Per pura ostentazione di forza e di sicurezza? Chi è qui il tentato? Il Signore trascinato dalla tentazione di Satana sta al gioco, mettendo in palio il suo prediletto. Riesce a salvaguardare l’incolumità di Giobbe, ma abbandona il suo pupillo alla violenza dell’avversario. È un duello inutile perché non può avere che un esito. È tuttavia inevitabile. Due poteri si affrontano comunque. Dio. Autocelebrazione? Catalogo delle meraviglie del creato e delle creature. Trionfale rassegna dei prodigi e della onnipotenza. Giobbe, toccato nel midollo, non dal sublime pavoneggiamento ma dalla condiscendenza infine mostrata da Jahweh, non si confessa reo ma si proclama umile, ma riconosce di non essere stato al quia. Il mistero del male non è vinto; eppure su questo piano di mutua intelligenza avviene la riconciliazione. Dio è onnipotente - questo è l’argomento principe della Bibbia. Giobbe non mette in causa questo principio. Quando imputa a Dio il male dimostra anzi di osservarlo, sia pure paradossalmente. Tuttavia il binomio Dio-onnipotenza non avvince davvero Giobbe. A lui, al suo desiderio si addice un Dio fraterno, che non opponga il silenzio e l’indifferenza, al grido dell’infelice, ma fiant aures tuæ intendentes in vocem deprecationis meæ. Forse un Dio che condivida la sofferenza delle sue creature, un Dio che prefiguri il Cristo.
«Corriere della Sera» del 20 embre 2010

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