19 dicembre 2010

E Stalin decretò: falce e pallone

di Giorgio De Simone
Unione Sovietica, anni Venti. Il calcio 'borghese' dell’Im­pero russo è finito e nasce il futból proletario. E una seconda ri­voluzione e ce la racconta tutta, con un’analisi suggestiva e circostanzia­ta che arriva al 1953, Mario Alessan­dro Curletto, docente di Letteratura e civiltà russe all’Università di Pavia. Con il 1917 alle spalle, la Russia si riempie di grandi progetti dove lo sport va a coniugarsi con la lotta di classe. Non fa parte la Russia sovie­tica della Fifa e non può disputare incontri internazionali ufficiali, ma poiché forte è il bisogno di confron­tarsi, nel 1923 viene raccolto l’invi­to dell’Unione operaia svedese per una tournée di amichevoli in Scan­dinavia.
È l’inizio di un’attività internaziona­le su vagoni di terza classe. Sconfitte la Svezia 2 a 1 e la Norvegia 3 a 2, si parla di trionfo. E quando tocca alla Turchia 'borghese' di Atatürk, bat­tuta 3 a 0 e 2 a 1, di epopea. Nel 1927 si va in Germania e sono nove vitto­rie, nessun pareggio e una sola scon­fitta (1 a 3) contro gli operai di Vien­na. Reti fatte 64, subite 14. Il calcio è ormai in Urss un fenomeno di co­stume e tuttavia, per avere il primo campionato e vedere all’opera squa­dre quali la Dinamo, il Cdka (Casa centrale dell’Armata rossa), lo Spar­tak Mosca dei fratelli Starostin e il Lokomotiv di Mosca, si deve aspet­tare il 1936. Quanto alle tattiche di gioco, il calcio russo è fermo alla 'pi­ramide', due difensori, tre centro­campisti e cinque attaccanti tutti in linea mentre in Europa è già il tem­po della 'W' o 'doppia V', modulo considerato borghese perché 'inde­gnamente difensivo'. E peraltro l’al­lenatore della Dinamo, Boris Arkad’ev, arriva a vincere il campio­nato inventandosi il 'caos organiz­zato', ovvero il continuo scambio di posizione fra i tre attaccanti e i di­fensori che avanzano. È il 1940. L’an­no dopo la guerra ferma il pallone, ma alla fame, agli stenti, al pericolo perenne solo il calcio può fare da an­tidoto. La propaganda lo sa e così si torna a giocare a Mosca, ma anche in una Leningrado dal ’41 al ’44 as­sediata dai tedeschi. E a Kiev, il 16 novembre 1943, tra la Dinamo e una rappresentativa tede­sca ricavata dalle truppe di occupazio­ne va in scena la co­siddetta 'partita della morte' così chiamata perché, battuti sono­ramente sul campo, i tedeschi si vendicano internando i giocato­ri ucraini e perse­guendone alcuni fino a decretare la morte di quattro di loro: Nikolaj Trusevic, A­leksej Klimenko, Nikolaj Korotckich, Ivan Kuz’menko. Nel 1946 un gior­nale fa una ricostruzione cinemato­grafica della partita elevandola a leg­genda e assegnandole così un desti­no di libri, film, medaglie al valore e monumenti. Ma una rivisitazione fatta decenni dopo dal giocatore Makar Goncarenco racconta di una squadra di calcio allestita dal ceco Jo­sef Kordik, diventato sotto i nazisti direttore del Panificio industriale n.1 e in grado, come tale, di riunire i mi­gliori giocatori sotto le sue ali. Do­podiché la partita della morte sareb­be stata giocata il 9 agosto 1942 tra la Start di Kordik e la Flakelf tedesca, punteggio 5 a 3 con due reti del 'te­stimone' Goncarenco. E sarebbe sta­ta l’uccisione di un ufficiale tedesco a portare alla morte, per ritorsione, di Trusevic, Kuz’menko e Kilmenko.
Nel 1951 rinasce, affidata al Ct Boris Arkad’ev, la nazionale sovietica per partecipare alle Olimpiadi di Hel­sinki dell’anno dopo. Ma nella Rus­sia di Stalin partecipare vuol dire u­na cosa sola: vincere. Per riuscirci Arkad’ev si affida all’ossatura del Cd­sa (ex Cdka) e al trentenne Vsevolod Bobrov, grande centravanti e leader carismatico. Soffocata dall’obbligo di vincere, quando de­ve incontrare la forte Jugoslavia dell’odiato Tito, la squadra è atta­nagliata dal panico. Sul campo incassa quattro gol in cin­quanta minuti, ma a quel punto reagisce e la partita finisce, inve­rosimilmente, 5 a 5 con tre reti di Bobrov. Ripetuta due giorni dopo sotto l’ombra cupa di un tele­gramma di Stalin, la Jugoslavia vin­ce 3 a 1 e il licenziamento-degrada­mento dell’allenatore nonché lo scioglimento del Cdsa sono le prime conseguenze. Le seconde sarebbero anche peggiori se, il 5 marzo 1953, Stalin non morisse. Tutto (o quasi) a quel punto si spegne e per i calcia­tori sovietici torna a valere quanto detto da uno di loro, Konstantin Be­likov: «Quando hai il pallone tra i pie­di ti si allarga il cuore».

Mario Alessandro Curletto, I piedi del soviet, Il melangolo, pp. 238, € 11,00
Bandito il modulo «a W» perché «indegnamente difensivo, quindi borghese», si esaltava il «caos organizzato»
«Avvenire» del 18 dicembre 2010

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