05 ottobre 2010

Giorello senza Dio (infatti non ne parla)

Il filosofo dedica l’ultimo pamphlet al tema dell’ateismo, però in realtà si occupa quasi solo di vere o presunte «deviazioni» delle religioni, quella cattolica in primis
di Vittorio Possenti
L’anima del libro è l’individualismo libertario, assunto come metro di giudizio e di protesta
Ateo non è «chi logora il proprio tempo nel cercare di dimostrare che Dio non c’è, ma chi decide di vivere senza e perfino contro Dio». Così Giulio Giorello che, preoccupato come Bertrand Russell (cui in parte si ispira) del decadere del liberalismo e del libero pensiero, eleva una veemente critica contro cinque «bestie»: la reverenza, la rassegnazione, l’autorità, la proibizione, la sottomissione. Questi termini, preceduti dal «contro», formano il titolo dei capitoli del volume Senza Dio (Longanesi, pp. 230, euro 15). Ma la differenza con Russell è notevole, poiché Giorello, diversamente dal filosofo inglese, ritiene di scarso interesse il problema di Dio. Da questo assunto il libro assume il suo carattere fortemente elusivo sul nucleo teologico, affrontato solo obliquamente attraverso la critica di vere o presunte deviazioni delle religioni, in specie del cristianesimo e della sua versione cattolica. La sostanziale omissione del «tema Dio», e delle scoperte sempre nuove che vi si possono fare, rende forse incongruo il titolo del volume. «Senza religione» renderebbe meglio il punto. Giorello provvede a limitare il suo ateismo, definendolo come ateismo metodologico, che appunto non si attarda a mostrare che Dio non è. Se tale ateismo meriti questo nome rimane controverso: il problema in realtà non sta nel nome, ma nel fatto che l’ateismo metodologico può evolvere verso una vera ricerca di Dio oppure ritenere che Dio sia un pensiero inutile. Senza Dio, pur lasciando sussistere margini di ambiguità, sembra propendere per la seconda possibilità. La sua posizione è riassunta così: «Vedo l’ateismo non come una rete di dogmi, ma come un repertorio di strumenti intellettuali e pratici, che riguardano il nostro modo di indagare l’universo e scegliere il nostro destino». L’individualismo libertario, vera anima del volume, è assunto come metro di giudizio e di protesta: quella di Giorello è infatti una posizione «protestante» nel senso letterale del termine, e l’autore si definisce come un «ateo protestante» che all’occasione può anche criticare teologi che fanno a meno dell’elemento escatologico della fede.
La protesta è una parte importante della nostra libertà e sensibilità morale, e perciò mi guardo bene dal rifiutarla: anche il credente deve protestare, e il monopolio della protesta non sta da una parte sola. Semmai saranno la qualità e gli obiettivi della protesta a renderla fondata. Combattere l’intolleranza, il fanatismo, l’autoritarismo, la rassegnazione è bene, a patto di saper individuare il bersaglio in modo adeguato. Il volume vi riesce? Forse non aiuta l’amplissima varietà di casi, autori, situazioni accumulati senza andare troppo per il sottile. La questione del male e del dolore innocente avrebbe richiesto un’istruzione più articolata e parimenti l’assunto dell’impossibile coesistenza in Dio dell’onnipotenza e della bontà.
Sintomatico poi il «contro l’autorità» che non si ferma neppure un attimo a stabilirne il concetto. Non c’è da scandalizzarsi oltre misura di ciò, dal momento che larga parte del pensiero contemporaneo non ha la minima idea dell’autorità. Sarebbe perciò vano attendersi dal volume un chiarimento sul suo compito e la sua differenza dal dogmatismo. Qualcosa di analogo capita per la sottomissione su cui l’individualismo libertario dice con forza: non serviam, «non sarò servo».
Un tale individualismo protesta contro Dio-Padrone, confondendo il Signore con il Padrone. Certo, espressioni religiose deviate possono aver dato occasione per questo equivoco, che rimane comunque tale se non si intende l’enorme differenza tra servire un padrone duro e servire nell’amore.
Una certa mancanza di grandezza nel comprendere la grandezza del servire sembra costituire un serio limite dell’individualismo libertario.
L’atteggiamento contrario si ritrova nella figura di Hammarskjöld che scrisse: «Una volta risposi sì a qualcuno – o a qualcosa. A quel momento risale la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò la mia vita, nella sottomissione, ha un fine». Nonostante l’esteso ricorso al fallibilismo epistemologico che, applicato al di là delle scienze, occulta l’esistenza di acquisti per sempre, Giorello non è uno scientista. Il suo schierarsi per la scienza, la conoscenza che ne viene, la libertà di ricerca, la tolleranza è un atteggiamento sano. Kierkegaard avrebbe aggiunto: sano ma incompleto, poiché per stare in equilibrio fecondo gli manca il lato della costruzione positiva. Da dove partire per questo? L’assunto del libro è netto: «Nessuno venga a dettar legge alla nostra coscienza».
Accettiamo la sfida e domandiamo dove e come l’individualista libertario trovi un canone per agire. Se non ci deve essere una legge imposta alla coscienza, bisognerà pur dire che o non vi è legge, oppure che la coscienza la trova in sé come dato sorgivo: ed allora il libertario deve chiedersi dove si fondi. Protestare contro Dio-padrone, il papa-re, il soggetto subordinato può essere necessario, ma non è sufficiente. Noi dobbiamo ad ogni istante nutrirci di liberazione dal male (fisico e morale), e per questo occorre mettere in campo una coscienza che sappia dove richiedere luce per l’azione, e che sia in grado di compiere un atto originario di libertà per il bene, il vero, la giustizia.
Una posizione «protestante» nel senso letterale del termine, ben lontana dal pensiero di Bertrand Russell, cui pure si ispira
«Avvenire» del 5 ottobre 2010

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