09 settembre 2010

Vecchie ossa e pallettoni: l’Unità fa un po’ orrore

Musei polverosi sono pieni di feticci ridicoli La retorica non può salvare la nostra storia
di Massimiliano Parente
«Obbedisco!», così risuona nei timpani scolarizzati la mesta storiella dell’Unità d’Italia, che disgraziatamente ci troviamo a dover celebrare, quando gli anniversari, i centenari, sono più funerei dei funerali, sono funerali di funerali. Tra l’altro, poiché Vittorio Feltri mi ha chiesto una riflessione sull’Unità d’Italia, e avendo risposto anch’io garibaldinamente «Obbedisco!», per fare le cose bene e ambientarmi sono andato al Museo Centrale del Risorgimento di Roma, e credevo di morire, li mortacci loro. Un luogo tristissimo, da suicidio, con una scelta di oggetti di necrofilia fetish più istruttiva di qualsiasi libro di Storia e di Galli della Loggia. C’è una pagnotta di pane o segale rattrappita con cui i veneziani dovettero nutrirsi durante non so quali giornate di valorosa resistenza contro gli austriaci invasori. C’è la coperta rappezzata dove fu trasportato Garibaldi quando fu ferito a una gamba, e lo stivale di Garibaldi bucato dal pallettone che lo ferì, e la cassetta degli attrezzi foderata di velluto cremisi contenente gli strumenti medici per curare Garibaldi dalla ferita, e perfino il pallettone stesso. Non mancano i jeans di Garibaldi, minuscoli, e delle due l’una: o i mille partirono con i calzoni alla zuava, o Garibaldi era un nano. Tutto questo tra una quantità di croste celebrative e patetiche cianfrusaglie simili a ex voto che non avrebbero provocato un’erezione intellettuale neppure a Enzo Biagi, ma forse a Gianni Minoli ancora sì.
E comunque sia «Obbedisco!», e io al Museo del Risorgimento volevo solo sentire qualche brivido, sentire qualcosa, una palpitazione d’amor patrio. Ho pensato che magari ricordavo male, sono passati tanti anni da quando odiavo la Storia italiana in particolare e gli storici in generale. Invece mi è preso un attacco di sbadigli e soffocamento, come ogni volta che vedo un monumento ai caduti in una piazza, un mezzo busto di Mazzini, un Vittorio Emanuele a cavallo. Dopo dieci minuti sono battuto in ritirata, aria, e circumnavigando il Vittoriano mi sono liberato con qualche fantasia delle mie, per esempio pensando che sarebbe bellissimo se si potesse trasformare il Vittoriano in un McDonald’s. Ci penso sempre anche guardando San Pietro, quanto ci starebbe bene una M gigante e luminosa di McDonald’s lassù, sulla cupola di Michelangelo. Oh, se almeno si fosse riusciti a portarne a termine una giusta, e magari da Porta Pia arrivare fino al Vaticano e far piazza pulita, e invece no, neppure di aprire brecce siamo capaci, ne apriamo una e ci fermiamo prima. Tant’è che se andate a Porta Pia è stato eretto, molto eretto, un monumento dello scultore Pubblio Morbiducci, un enorme bersagliere rimasto lì, in posa scattante, come se lo avessero freddato e imbalsamato mentre correva slanciato, pronto a infilzare il papa con la baionetta, e a guardarlo, sebbene sia inguardabile, mi viene da piangere, un’altra occasione mancata.
Quando escono da scuola i giovani non vogliono più sentirne parlare, dell’Unità d’Italia, e hanno ragione, meglio impersonare un marine giocando a Call of Duty. La Storia d’Italia è noiosa, dall’Ottocento al Novecento tutta una Storia stracciona che va avanti a singhiozzi e a sospiri e a lacrime tricolori, tante piccole ribellioni poco convinte e sempre abortite sul nascere, passando tra primi e secondi triumvirati, il trio Armellini-Saffi-Mazzini da imparare a memoria neppure fosse una poesia, e intorno uno scoppiettìo di moti rivoluzionari simili a petardi e una sfilza di «radiose giornate», tanto radiose quanto sfigatissime, inutili, tronfie, retoriche, patetiche, destinate al fallimento quando al di là dell’oceano da un secolo avevano messo su gli Stati Uniti, e gli storici di qua a dire che non hanno Storia.
A me la storia del Risorgimento fa schifo, e anche il concetto del Risorgimento fa schifo, e anche la letteratura del Risorgimento fa schifo, una letteratura edificante strappalacrime e mortuaria e terribilmente kitsch mentre altrove Melville, Flaubert, James, Dostoevskij sfornavano capolavori. Basti pensare a Edmondo De Amicis e a quella cagata di bestseller istituzionale intitolato Cuore, che doveva inculcare il valore dell’obbedienza ai piccini dandogli come modelli piccole vedette lombarde e piccoli patrioti padovani e piccoli scrivani fiorentini, tutto destinato a restare piccolo anche da grandi, oggi chiamerebbero il Telefono Azzurro per violenza psicologica sui minori.
E quando, dopo tutta quella fatica e radiose giornate e sangue versato e «Obbedisco!» arriva Massimo D’Azeglio, per dire «Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani»? Prego? Altra frase rimasta lì, surgelata come un bastoncino Findus, come un Quattro salti in padella, come il bersagliere di Porta Pia. O forse D’Azeglio voleva dire «si tratta di farsi gli italiani»? In tal caso avrebbe avuto ragione Federico De Roberto, che l’imbroglio dell’Unità d'Italia lo racconta nel suo meraviglioso I viceré, dove i candidati onorevoli organizzavano già dei truffaldini «meeting» elettorali, subito storpiati dai siciliani in «metingo», con precocissime spallucce all’opportunismo e all’affarismo dei nuovi politici dell’Italia finalmente unita.
Infatti non fa in tempo a iniziare la tanto agognata Unità d’Italia che passiamo alla Storia per il «trasformismo», il parlamentarismo cialtrone, la partitocrazia, gli accordi sottobanco, i doppi giochi, le furbizie, Depretis, le Pentarchie, i ribaltoni, tutto come oggi. E riguardo ai Savoia lasciamo perdere, io ho sempre lottato perché tornassero in Italia, quando non potevano rientrare, perché mi sembrava ingiusto che le colpe dei padri ricadessero sui figli, poi ho visto Emanuele Filiberto in televisione, l’ho sentito parlare, l’ho visto ballare, infine l’ho sentito cantare Italia Amore mio a Sanremo e mi sono ricreduto, è giustissimo, nel caso dei Savoia, che le colpe ricadano sui figli, e anche sui nipoti di Emanuele Filiberto, e anche su Pupo e i figli di Pupo, esiliateli.
E poi ma quale Unità d’Italia, siamo seri: gli italiani non si sentono uniti su niente, neppure sul 25 aprile, quando a voler essere pignoli dovrebbero far sventolare anche le bandiere americane e ringraziare più la Quinta Armata del generale Clark che i supposti eroi della Resistenza, altra bufala. Al massimo gli italiani si sentono uniti nel calcio, non durante l’anno perché si ridividono nelle rispettive tifoserie contrapposte ma ogni quattro anni, per i mondiali, quando gioca la nazionale, dove però quelli di sinistra non possono più dire «Forza Italia» e quindi, poverini, dicono «Forza Azzurri», e Berlusconi li ha fregati due volte, perché Forza Italia è pure azzurra.
La vera Unità d’Italia, piuttosto, l’hanno creata due guerre mondiali e soprattutto Mussolini, e bisogna ammettere, anche Berlusconi, perché politicamente o sei berlusconiano o sei antiberlusconiano, e televisivamente gli italiani sono stati uniti più dalla Finivest, Dallas, Dynasty, Drive In, il Costanzo Show, Casa Vianello, Striscia la Notizia, che dai Savoia o Cavour o D’Azeglio o la Dc, e quindi poche storie, poca Storia, grazie a Silvio più uniti di così si muore, e purtroppo molti sono morti di Risorgimento senza sapere che per unirsi sarebbero bastate le tette di Tinì Cansino, quelle sì da monumento, quelle sì da «Obbedisco!».
«Il Giornale» del 24 luglio 2010

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