19 settembre 2010

Tra Allen e Eastwood due modi di guardare alla fine

La visione pessimistica (e superficiale) e quella di una nuova saggezza
di Alessandro Zaccuri
«Non si acqui­sisce maggiore saggezza con il passare degli anni», sostiene Woody Allen in un’intervista rilasciata a proposito del suo nuovo film, «Incontrerai uno sconosciuto alto e bruno», parabola pessimista incentrata sulla convinzione che non esista sostanziale differenza «tra una cartomante, un biscotto della fortuna e una delle religioni ufficiali». Beh, dipende, verrebbe da argomentare.
Ciascuno di noi, in fondo, non spera di assomigliare a quel personaggio di Coleridge che, dopo aver incontrato il Vecchio Marinaio, scopre di essere diventato «più triste e più saggio»? Di essere cresciuto, insomma.
Del resto anche al cinema, e non solo in poesia, capita di imbattersi in grandi vecchi benissimo stagionati, come Clint Eastwood, che da giovanotto era considerato un attore capace di due espressioni due (con il sigaro e senza) e che invece in tarda età ha preso a sfornare un capolavoro dopo l’altro, da «Mystic River» a «Gran Torino», da «Invictus» all’imminente «Hereafter». Il quale, analogamente allo «Sconosciuto» di Allen, è un film sull’ineluttabilità della morte, declinato però in tutt’altro modo. Ottant’anni portati con eleganza, Eastwood introduce spesso espliciti riferimenti religiosi nelle storie che racconta. Lo fa a volte con piglio polemico, come accadeva in «Million Dollar Baby», dove il protagonista, davanti all’eventualità dell’eutanasia, cerca e non trova il conforto di un sacerdote.
Eppure, ogni volta che Eastwood si sofferma su un dettaglio spirituale, lo spettatore intuisce una serietà estrema, si rende conto che quello, e non altro, è il tema che al regista sta a cuore: perché si vive, perché si muore e perché la fine abbia in sé una bellezza magnifica e tremenda.
Non sono temi strettamente religiosi, forse. Ma sono gli unici argomenti irriducibilmente umani di cui l’arte possa occuparsi. Un’affermazione, questa, sulla quale concorderebbe lo stesso Allen, che non per niente è un ammiratore di Ingmar Bergman e sempre più di frequente trascura la commedia a favore di trame 'bergmaniane': il determinista «Match Point», per esempio, o il livido e irrisolto «Sogni e delitti». Già più di vent’anni fa, quando Clint Eastwood non era ancora annoverato fra i registi 'di culto', con «Crimini e misfatti» Woody Allen aveva rappresentato un’umanità del tutto indifferente alla presenza o all’assenza di Dio. Niente castigo, quindi niente perdono. Resta semmai il delitto, che assomiglia al peccato, ma non si identifica con esso. La teologia può servire semmai per imbastire qualche sketch più cerebrale che irriverente, di quelli ai quali il regista di «Manhattan» deve la sua fortuna fin da quando frequentava la tv americana.
«Non capisco che cosa ci trovate in Woody Allen – mi disse tanti anni fa un amico che veniva dagli Stati Uniti –. Io mi diverto molto di più con Totò». Non per insistere, ma il principe De Curtis è anche l’autore di «’A Livella», che non sarà un testo capitale come «La ballata del Vecchio Marinaio», però riesce a ricordarci con chiarezza che la morte è un destino e che ogni destino ha in sé qualcosa di più che umano. Senza scomodare le cartomanti e senza bisogno di scartare biscotti della fortuna.
«Avvenire» del 19 settembre 2010

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