03 settembre 2010

Memoria storica, l’altro turismo

di Pino Ciociola

La diga del Vajont: in cima alla «gran signora» monumento al disprezzo della vita

«Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblìo della memoria». Eccola. Un prodi­gio di tecnica, l’ottava meraviglia nel mondo di mezzo secolo fa. Qualcuno l’aveva ribattezzata «il velo» e qualcun altro «il foglio di calcestruzzo», perché larga in ci­ma appena tre metri e quaranta. Eccola, la gran signora dall’anima nera: è qui, sotto i piedi. Seppure non ha più la sua falce. Seppure a­desso è un’attrazione turistica o, meglio, un monumento al di­sprezzo della Vita. La più grande infamia ingegneristico-geologica nel nostro Paese, inaugurata il 19 novembre 1962: il più bel gioiel­lo delle capacità umane costrui­to nel peggiore posto in cui si potesse. E lo si sapeva.
Salirci sopra mozza maesto­samente il fiato: duecentoses­santuno metri e sessanta centimetri di strapiombo da una parte (quella verso Longa­rone) e solamente quaranta metri dall’altra. La diga del Vajont, gran signora dall’anima nera. Indimen­ticata, indimenticabile: 353mila metri cubi di calcestruzzo che al­le 22 e 39 del 9 ottobre 1963 assas­sinarono 1.911 donne, bambini, anziani e uomini creando il più lu­gubre tsunami che la storia italia­na ricordi, facendo da immenso trampolino ad un’onda di 50 mi­lioni di metri cubi d’acqua, che ri­cadde nella gola, lunga e stretta, e spazzò via Longarone con le sue frazioni piombandovi sopra a cen­to all’ora, dopo aver spinto a pre­cederla un mostruoso muro d’aria ad una pressione tale da strappar via vestiti e brandelli di pelle.
I segni dell’altezza di quell’onda restano ancora oggi, molto in alto sulle pareti della gola di fronte alla signora: guardarli impressiona. Perché non diede scampo: lo si ve­de, lo si capisce bene da quassù. Esattamente come coloro che, ac­corgendosi di quanto stava acca­dendo, capirono subito d’avere po­chi secondi prima d’essere falcia­ti e nessun modo d’evitarlo.
Fu un bel pezzo del monte Toc a franare nel lago artificiale creato dalla diga, alzando quell’onda . U­na frana assai più che annunciata negli anni, nei mesi, nelle setti­mane e finanche nei giorni prece­denti il 9 ottobre del 1963: due­centosessanta milioni di metri cu­bi di terra, rocce e alberi per un fronte di due chilometri (per por­tarla via servirebbero cento ca­mion che lavorassero tutto il gior­no e ogni giorno dell’anno per set­te secoli).
Perciò le altezze dei due strapiom­bi sono diverse: se guardando Lon­garone la diga s’innalza per tutta la sua interezza di 261 metri e 60 cen­timetri, invece sull’altro versante i primi 220 metri sono stati riempi­ti dalla frana, che prese il posto del lago e lì è rimasta.
Realmente mozza il fiato cammi­nare qui sopra e non si tratta di vertigini. Fa rimbombare nella mente quel che il giorno dopo Dino Buzzati spiegò sul suo giornale: «Un sasso è caduto in un bicchie­re colmo d’acqua e l’acqua è tra­boccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto cen­tinaia di metri e il sasso era gran­de come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non poteva­no difendersi». Longarone è distante, lontana. Er­to e Casso, paesini di montagna che vennero feriti quasi mortal­mente, s’intravedono appena. Però quell’onda arrivò fino a Belluno. E la gente raccolse a chilometri di di­stanza i cadave­ri scesi a valle insieme al Pia­ve. Invece da qui in cima, passeggiando sul 'coronamento della diga' – come si chiama – mezzo secolo dopo e sotto un cielo luminoso, sem­bra esser stato tutto irreale, forse niente più d’un brutto racconto in­ventato per spaventare i bambini. Non è così. Attrazione turistica (con 5 euro ci si sale sopra) e monumento al disprezzo della Vita, il passato lo ricordano questa mae­stosa
signora e la sua anima nera. Lo ricorda il cimitero di Longaro­ne, nel quale è seppellito tutto ciò che resta dei morti del Vajont. Nel quale tante tombe hanno solo una foto, ma sono vuote, perché non s’è trovato più nulla di chi vi a­vrebbe dovuto riposare.
Lo tengono davvero bene questo cimitero. Curato, pulito: è custo­dito con amore, verrebbe da scri­vere. Fuori dal suo ingresso c’è u­na grande stele di vetro con una frase in dodici lingue: « Prima il fra­gore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblìo della memoria ».
Salirvi mozza maestosamente il fiato: 261 metri di strapiombo da una parte (quella verso Longarone), ma soltanto 40 dall’altra ...
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La Grande guerra : sul Monte Grappa fra i ricordi di quegli eroici «soldatini» italiani

Venti chilometri di storia fra tornanti, rocce e mucche al pascolo, trincee e buche per mitragliatrici. Per arrampicar­si fin quassù, sulla Cima Grappa, millesettecentosettantasei metri d’altezza. E nel suo Museo i tratti dei volti disegnati e appesi alla pa­rete, addirittura i loro stessi linea­menti, sono davvero d’altri tempi. Eppure commuovono: sembrano fumetti, furono vite. «I miei solda­tini dell’Armata del Grappa», li chiamava il Maresciallo d’Italia Gaetano Giardino, che li comandò. E quel «soldatini» tanto non era un vezzeggiativo ruffiano che lui vol­le farsi seppellire proprio in mez­zo a loro. Qui.
Del resto avreb­be compiuto 19 anni di lì a due mesi, Rodolfo, e non aveva mai combattuto.
Milanese. Un ragazzino. Uno dei mille e mille soldatini che il 6 dicembre 1917 erano qui, sul Grappa. Affondati nella neve, dentro un ge­lo ruvido, dentro tanto sangue e piombo e morte che – a chiudere gli occhi – anche ora, agosto 2010, anche con un sole caldissimo, sfio­rano e mordono la pelle.
Rodolfo era mitragliere, aspirava a diventare ufficiale, guidava un pugno di ragazzini come lui. La battaglia era carneficina e venne ferito gravemente al polmone de­stro, ma non disse nulla a nessu­no e nessuno se ne poté accorge­re. Lui rimase al suo posto, accan­to ai suoi. Intanto le granate si fa­cevano inferno sulle teste. Le e­splosioni spaccavano orecchie e cuore.
Ci restò a lungo, Rodolfo, ancora a combattere con un polmone dila­niato. Finché un’esplosione lo in­vestì in pieno, devastandolo con ventisei ferite. Solamente allora non poté che accettare d’esser portato via, sapendo bene che per morire ormai gli ci sarebbero vo­luti minuti. Mentre su una barella abbando­nava quella trincea e la sua vita in cima al Grappa, incrociò il gruppo dei rincalzi chiamato in quell’in­ferno a prendere il posto suo e dei feriti. E decise che le ultime forze le avrebbe usate per accendere u­na sigaretta e soprattutto per sor­ridere: quegli altri ragazzini come lui, che salivano a combattere, ve­dendolo, non avrebbero dovuto impressionarsi o abbattersi.
Sublime esempio di stoicismo e di elettissime virtù militari', scrisse­ro nella motivazione alla Medaglia d’oro. Lo scrissero per Rodolfo e per centinaia d’altre Medaglie d’o­ro concesse ai 'ragazzi del ’99' che quasi mezzo se­colo fa vennero a immolarsi su questa monta­gna per difen­dere cento, duecento metri di roccia. «Grappa sei la mia Patria», si legge sopra al Sacrario e per noi, oggi, forse è diventato colpevolmente diffici­le capire cosa volle dire 'Italia' per questi soldatini.
In cima a questa montagna, dal Sa­crario militare, devi alzare appe­na le mani per sfiorare le nuvole e abbassare gli occhi per guardare le altre Dolomiti. Nel frattempo l’anima tocca quanto la guerra sia stupida e terrificante e inutile, ma anche come racconti spesso il Va­lore dimenticato dei piccoli e l’in­fame arroganza dei grandi, quelli che tirano le fila del mondo e di­spongono 'gesta belliche', però su un Grappa non saliranno mai.
C’è il quadro col disegno sbiadito in bianco e nero del volto e con la medaglia di Rodolfo Carabelli, nel Museo. Ce ne sono a decine e de­cine d’altri quadri, con altri volti e medaglie di ragazzini che venne­ro a morire qui da tutta l’Italia e hanno storie di valore e onore u­guali a quella di Rodolfo.
Non se ne leggono però i sogni e i desideri, gli amori e le pieghe del­le loro vite: eppure ognuno ne a­veva e per ognuno sono bruciati su questa montagna dove il cielo si fa tutt’uno con la terra ed è il luo­go più bello dove possano restare custoditi.
Il Grappa, nelle tre battaglie che lo segnarono (dal 14 novembre del 1917 al 3 novembre 1918), si tra­sformò in un’immensa mattanza: nel Sacrario riposano – vicini – i resti di 12.615 italiani (10.332 i­gnoti) e 10.295 austro-ungarici (10mila ignoti). Quasi 23mila es­seri umani spazzati via. E vedere le foto d’epoca dà i brividi. Come pu­re entrare nelle trincee e nei cuni­coli lunghi alcuni chilometri, ba­gnati, bui, scavati fin nelle viscere della montagna per sistemarvici mitragliere e pezzi d’artiglieria, os­servatori e sbocchi per le sortite, acqua e provviste. Cunicoli dal si­lenzio assordante ...
«Avvenire» del 29 agosto 2010

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