08 settembre 2010

La virtù? È l’abilità di esistere mettendo a frutto le proprie doti

Esce oggi in libreria il volume L’edificazione di sé. Istruzioni sulla vita interiore (Laterza, pp. 104, euro 10) del filosofo Salvatore Natoli. Ne proponiamo un brano
di Salvatore Natoli
Nel Filebo di Platone, Socrate sta cercando d’identificare la na­tura del bene, ma proprio nel momento in cui sembra sfug­girgli, lo afferra in qualche modo nella natura del bello: «In­fatti la misura e la proporzione vengono a realizzare, dovunque, bel­lezza e virtù». Quest’idea l’esprime la parola stessa che i Greci impiegavano per dire virtù: aretè. Il termine appartiene alla medesima famiglia del verbo aretào che vuol dire «prospera­re » e perfino «essere fortunati». Significa anche fertilità. Possedere l’aretè ha allora il valore del mettere a frutto le proprie doti o predisposizio­ni. Se la si mette in questi termini, denota certo un possesso, ma è soprattutto risultato di un esercizio. Esige applicazione, necessaria alla valorizzazione.
Aretè ha, infatti, la medesima radi­ce, ar, del latino ars, che indica l’abilità nel co­struire, nel fabbricare: denota perizia e inven­zione.
L’aretè è fondamentalmente una pratica efficace che dà risulta­ti, ed è quindi degna di merito. E chi merita è, a sua volta, meritevole d’essere riconosciuto per quel che ha fatto: ciò spiega perché in greco aretè significa «merito» e perciò anche stima, onore, perfino splendo­re. La virtù, a partire dalla sua stessa gamma semantica, indica, dun­que, un’azione ben riuscita. Già in Omero – quando l’uomo veniva ancora identificato con i suoi organi e i suoi gesti e l’unità dell’Io era ancora da venire – si parlava di aretè delle mani, dei piedi, del com­battimento. Avere aretè significava, inoltre, avere perizia nella corsa, nella velocità, nel duello, in battaglia. Perfino nella frode e nel delitto.
In seguito l’aretè sarà anche una prerogativa dell’intelletto. Per virtuo­so bisogna allora intendere colui che sa valorizzare le proprie doti e sa metterle a frutto; e nei riguardi di se stesso co­lui che è competente dei propri desideri e sa modularli in vista del bene. Così concepita, la virtù altro non è che abilità a esistere, è capa­cità di padroneggiarsi. Seppure per provenien­za è una nozione antica, credo sia più che mai necessaria nella società contemporanea. Infat­ti mai come adesso la grande macchina della persuasione è così abile – direi specializzata – ad accendere pulsioni, a stimolare, a speculare sui desideri. Peraltro come sarebbe possibile incrementare i consumi se non si stimolano i desideri? Il desiderio è stato sempre, ma oggi lo è ancora di più, un motore dell’economia. Non bisogna poi trascurare che uno dei tratti della psicologia umana è quello dell’assuefazione.
Ne segue che per tenere sempre acceso il desiderio bisogna stimolar­lo continuamente e lanciare perciò sempre nuove mode. In quest’e­scalation è difficile poter distinguere tra il lusso e lo spreco. Mentre nel mondo la forbice tra povertà e ricchezza resta più che mai ampia.
Il filosofo Natoli richiama alla radice greca di «areté», la stessa di «ars»: essere virtuosi significa possedere una pratica efficace e padrona di sé
«Avvenire» dell'8 settembre 2010

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