08 settembre 2010

La nostra esistenza riflessa negli schermi

di Juan Carlos Demartin *
Una volta le tecnologie della comunicazione stavano al loro posto, sia come luogo fisico, sia come regole d’uso. Il telefono stava nell’ingresso, o comunque in una posizione centrale della casa, facilmente raggiungibile, e controllabile, da tutti. Il televisore era posizionato in salotto, davanti al divano, vicino a dove prima aveva troneggiato, nei decenni precedenti, la radio.
E le regole d’uso erano più o meno sviluppate, ma comunque piuttosto chiare. Ricordo ancora, per esempio, lo stupore - misto a un po’ di apprensione - che coglieva la mia famiglia se qualcuno per caso telefonava all’ora dei pasti: «Ma chi è il maleducato che telefona a quest’ora?», si mormorava. Mentre il televisore, col suo palinsesto, imponeva regole di fruizione rigide e, per un lungo periodo, senza alternative; per non parlare, a livello familiare, di regole come «a letto dopo Carosello» per i bambini.
Insomma: gli strumenti erano pochi, molto semplici da usare e con un rapporto con la nostra vita definito da decenni - se non generazioni - di abitudine all’uso.
Poi, tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, c’è stato un «big bang» - silenzioso, ma dagli effetti ben visibili - che ci ha fatto entrare nell’Età degli Schermi. Da qualche anno siamo circondati da schermi in ogni camera della casa, schermi per strada, schermi sui mezzi pubblici, schermi nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti, schermi in automobile, schermi negli uffici pubblici, schermi sulle scrivanie e, soprattutto, schermi nelle tasche e nelle borse. Alcuni di questi schermi ci sono imposti - spesso non sono altro che veicoli per pubblicità o informazioni di servizio - ma altri sono oggetti del desiderio che vogliamo avere vicini, che vogliamo poter guardare in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione. Su tutti, il telefono, che ormai significa sempre meno, soprattutto per i giovani, «sentire e farsi sentire a distanza con la voce» e sempre più «schermo connesso», ovvero porta visiva verso il mondo lavorativo, affettivo e ricreativo. Rettangolo luminoso che, rispondendo al tocco di un dito, può mostrarci all’istante quasi qualsiasi immagine, fissa o in movimento, desideriamo vedere, per lavoro o per capriccio: un disegno di Leonardo, un messaggio del capo, le foto dei figli, la scena finale di «Casablanca», un sms della fidanzata, le poesie di John Keats, il backstage di un concerto.
Nei confronti di questa invasione di schermi siamo ancora palesemente nella fase dello stupore. La proliferazione, infatti, ha avuto luogo così in fretta da non darci il tempo né di capire le conseguenze di ciò che sta capitando, né di sviluppare una reazione sotto forma di regole d’uso mature e socialmente condivise. Cosa significa per ciascuno di noi e per la società nel suo complesso vivere nell’Età degli Schermi (invece che dello Schermo Unico, ovvero della televisione)? In che modo è opportuno comportarsi nei confronti dei propri schermi - telefono, tavoletta o notebook - sia da soli, sia soprattutto in presenza di altri?
Riguardo al secondo aspetto, quello delle regole di comportamento, prendiamo il caso della scuola. Come è opportuno trattare gli schermi in classe? In particolare - a parte eventuali schermi istituzionali, come le celebri «lavagne interattive multimediali» o i computer in dotazione alla scuola - come trattare gli schermi personali degli studenti e dei docenti, notebook, telefoni evoluti o tavolette che siano: proibirli? Tollerarli? O, addirittura, incoraggiarli? La domanda ricorre ormai da anni a ogni riapertura di anno accademico e scolastico.
L’avvento della prima tavoletta di successo, l’iPad della Apple, ci sta aiutando a rispondere con più consapevolezza alla domanda. Il problema, infatti, non è tanto lo schermo in sé, ma il fatto che lo schermo sia spesso privato, cioè visibile solo agli occhi dell’utilizzatore e non anche a chi sta condividendo con tale persona uno spazio e uno scopo, come quello di fare insieme lezione. La tavoletta, invece, per l’inclinazione con cui la si usa è molto più facilmente condivisibile di un computer fisso o portatile.
Permette al docente di vedere, anche solo con la coda dell’occhio, se lo studente sta facendo o no qualcosa di connesso (o comunque di, in qualche modo, compatibile) con la lezione, per esempio, una consultazione di Wikipedia. Un risultato analogo si potrebbe ottenere anche con i normali computer tramite un software che, all’interno dell’aula, preveda la condivisione degli schermi con i compagni e col docente, realizzando così un ragionevole compromesso tra la libertà (e il piacere) di muoversi secondo traiettorie di apprendimento almeno in parte individuali e lo scopo comune di passare alcune ore insieme a imparare qualcosa in maniera strutturata.
Questo è solo un esempio di come sia possibile iniziare a dare un ordine, né proibizionista né supino, alla tecnologia, agli schermi della nostra vita. Sforzi analoghi sono necessari anche negli altri contesti, visto che gli schermi saranno inevitabilmente sempre più numerosi e sempre più potenti (si pensi solo all’imminente diffusione di massa della tecnologia 3D). Con la riflessione, individuale e collettiva, riusciremo a mettere al loro posto anche queste colorate tecnologie della comunicazione, per arricchirci, a tutti i livelli, senza farci troppo sedurre o sviare.
* docente al Politecnico di Torino (demartin@polito.it)
«La Stampa» del 6 settembre 2010

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