15 settembre 2010

«La barbara ferocia è apparsa mite»

Agosto 410
di Lorenzo Cappelletti
Così sant’Agostino nel De civitate Dei I, 7 accenna al Sacco di Roma dell’agosto 410
Fra i tanti centenari che ricorrono quest’anno, c’è anche quello del cosiddetto Sacco di Roma dell’agosto 410. Un avvenimento fatidico. Era la prima volta, dopo secoli e secoli, che le mura di Roma venivano violate. Ma non è per questo suo carattere epocale che ce ne occupiamo. Piuttosto per alcune suggestioni che offre al nostro presente e al nostro passato prossimo.
Per cominciare sgombriamo il campo da un possibile equivoco che peraltro, in sede scientifica, è stato chiarito fin dalla storiografia settecentesca: quell’intrusione non avvenne secondo le coordinate immaginarie di un attacco di alieni che depredano per pura malvagità (cfr. il recente Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’Impero romano di Alessandro Barbero). I barbari che saccheggiarono Roma «erano stati fino a poco prima una legione romana, a cui avevamo concesso dei diritti dopo averli vinti, a cui avevamo dato campi e case», scrive Claudiano (In Eutropium), poeta pagano contemporaneo.
E non erano neppure nemici del cristianesimo.

L’antefatto
Alarico, il protagonista del Sacco del 410, era un capo goto di fede cristiana («quidem christianus sed professione haereticus», scriverà Isidoro di Siviglia nella sua Historia Gothorum) che fin dal 375 viveva da federato, cioè legato da un patto con l’Impero, e come tale aveva combattuto nell’esercito di Teodosio contro gli eversori (loro sì) dell’autorità imperiale impegnati in una lotta per il potere in Occidente. Era uno dei tanti ufficiali barbari che avevano contribuito alla salvaguardia dell’Impero. Come Butheric, il magister militum barbaro dell’Illirico (gli odierni fatidici Balcani), l’uccisione del quale a Tessalonica, nel 390, aveva determinato la cruenta rappresaglia di Teodosio.
Teodosio, d’altronde, morendo nel gennaio del 395, lasciava l’Impero ai due figli giovanetti Onorio e Arcadio ponendoli sotto la tutela carismatica di Stilicone, anch’egli un generale semibarbaro che in qualche modo doveva vegliare su di loro e sulla loro unione.
È proprio per questo che costui crede suo dovere intervenire nell’Illirico in quello stesso anno a fronte di una minacciata devastazione dei visigoti di Alarico, non contenti evidentemente del rispetto dei patti da parte dell’Impero. Ma l’azione di Stilicone viene sconfessata dalla corte orientale, che, rinnegando la politica del compromesso, dà vita ora a una decisa e autonoma reazione antibarbarica.
Reazione che si scarica sulla parte più debole dell’Impero. Alarico, infatti, dopo aver devastato la Grecia, si affaccia sul Triveneto e nel 401 giunge a minacciare Milano dove risiedeva Onorio.
Stilicone sconfigge più volte Alarico, ma non annienta il suo esercito. Non solo. Non potendo combattere su troppi fronti (nel frattempo anche il confine sul Reno cedeva e la Britannia veniva abbandonata dalle legioni), cerca un accordo con lui, facendo approvare dal Senato una consistente indennità da versargli e offrendogli la magistratura militare dei controversi Balcani: la morte di Arcadio nel 408, infatti, sembrava riaprire la strada a una possibile guida unitaria dell’Impero a partire da Occidente. Ma sono ora Onorio e i suoi consiglieri milanesi a opporsi, sicuri che qualunque movimento di pedine non avrebbe mai destabilizzato il tavolo di gioco. «Subornate dalla propaganda “milanese”» – come scriveva Santo Mazzarino in quella miniera di informazioni e di intuizioni che resta L’Impero romano – le truppe imperiali si ribellano a Stilicone e fanno fuori sotto gli occhi di Onorio tutti i funzionari stiliconiani. A Stilicone non rimaneva altra via che la guerra civile: scagliare le legioni di federati a lui fedeli contro l’esercito imperiale romano. Non la percorse. Accettò di rimetterci la testa nell’agosto di quello stesso 408, dopo che lo si trasse fuori da una chiesa a Ravenna dove aveva chiesto asilo. Più barbaro l’atto di chi lo subì. Salviano, un monaco marsigliese, scriverà qualche decennio dopo: «Si cerca presso i barbari l’humanitas romana; non si sopporta più infatti la barbara disumanità che vige presso i romani» (De gubernatione Dei).
La morte di Stilicone provoca però come contraccolpo la defezione di molti barbari federati e soprattutto la rottura con Alarico, trattato dalla corte di Onorio come un nemico.
Ecco l’antefatto.

Il Sacco di Roma
L’assedio e la presa di Roma scaturiscono da qui. Non sono altro che una forma diretta di pressione e di ricatto su Onorio da parte di Alarico, che si sviluppa in tre fasi fra l’estate del 408 e quella del 410.
In un primo momento, sceso rapidamente lungo la Flaminia, Alarico, impadronitosi di Porto e del Tevere, blocca i rifornimenti che giungevano a Roma via mare dall’Africa del Nord.
Nella città assediata c’è un patetico ricorso ai riti pagani suggerito da alcuni indovini provenienti dalla Toscana, per il quale paradossalmente, peraltro, si chiede il permesso a papa Innocenzo, che lo consente. Laddove a Ravenna, dove si erano trasferiti, Onorio e i suoi consiglieri sono intenti a perfezionare una politica integralmente “cattolica” (cfr. Le Sac de Rome di André Piganiol), preoccupati principalmente di punire gli eretici e di escludere i “non cattolici” da palazzo, lasciando Roma al suo destino. C’è modo e modo di essere cattolici: sfumatura censurata da Giorgio Falco nel suo classico La Santa Romana Repubblica, dove al capitolo III, “Germani. Stilicone e Alarico”, il termine “cattolico” viene usato solo per designare il tiers parti.
Alla fine, costretti dalla fame e da un’epidemia, i romani pagano ad Alarico quell’indennità che aveva atteso invano da Onorio. L’Urbe così è di nuovo libera e riprendono le trattative con la corte imperiale a Ravenna. Ma nonostante che Alarico limiti ora le sue pretese alla possibilità di stanziamento per il suo popolo fra l’Austria e la Carinzia, non si giunge ad alcun accordo. Roma allora viene di nuovo assediata e, per alzare il livello della minaccia, Alarico crea un antiimperatore nella persona di Attalo: un pagano battezzatosi ariano per l’occasione, di cui Alarico si serve solo per farsi elevare alla carica di capo di tutto l’esercito imperiale, mentre costui coltiva sogni di gloria pensando di essere l’eroe della riscossa di Roma. Ma, da parte di quegli stessi funzionari che avevano fatto fuori Stilicone e che avevano ricevuto per questo l’Africa, si affama di nuovo Roma, questa volta contro Alarico e il suo imperatore fantoccio. (La decisiva importanza strategica dell’Africa, per Roma, fa capire – sia detto fra parentesi – perché Alarico, dopo il Sacco di Roma, si muoverà verso sud trovando alla fine la morte in Calabria, da dove sperava passare in Sicilia e poi appunto in Africa). In più Ataulfo, cognato di Alarico, viene attaccato a tradimento da altre milizie germaniche al soldo di Onorio. C’è modo e modo di essere ariani e goti.
A questo punto, nella notte del 24 agosto 410, Alarico lascia che i suoi entrino a Roma e saccheggino per tre giorni la città. Una notte di San Bartolomeo ante litteram? No. Certo con numerose vittime, fra cui la matrona Marcella, la cui morte «visualizza bene quel legame fra aristocrazia cristiana e sorti di Roma stessa, costantemente mantenuto», scrive Emanuela Prinzivalli nel suo contributo al recente La comunità cristiana di Roma. La sua vita e la sua cultura dalle origini all’Alto Medioevo; con cattura di ostaggi, fra cui la sorella stessa di Onorio, Galla Placidia; con degli stupri; con qualche incendio; e grandi spoliazioni a opera soprattutto di quegli schiavi, e non solo, che dopo il primo assedio erano usciti da Roma e si erano uniti in migliaia ad Alarico. Scrive Le Goff nelle prime pagine de La civiltà dell’Occidente medievale: «La verità è che i barbari hanno beneficiato della complicità, attiva e passiva, della massa della popolazione romana. La struttura sociale dell’Impero, dove gli strati popolari erano schiacciati sempre più da una minoranza di ricchi e di potenti, spiega il successo delle invasioni barbariche».

È avvenuto però qualcosa di nuovo
Le violenze furono comunque eccezioni e non regola. La differenza in fondo è tutta qui, e la fecero le disposizioni precise date da Alarico innanzitutto riguardo alla salvaguardia della vita delle persone e poi riguardo alla intangibilità delle basiliche. Tanto che Orosio, nelle Historiae adversus paganos, pochi anni dopo, poté dire che a Roma non era successo praticamente niente: «nihil factum». Se questa è un’esagerazione retorica e retorico l’impianto letterario dell’episodio da lui narrato di una vergine che, richiesta da un barbaro di oro e argento, gli mostrò i vasi sacri del culto dell’apostolo Pietro, cosicché poté salvarsi lei, i vasi di Cristo (così Orosio chiama i cristiani) e anche i pagani unitisi al corteo che sotto scorta riportò fino in Basilica tutti quegli ori – niente affatto retorico, ma biblico (tanto veterotestamentario, cfr. Gen 18, 17-33, che neotestamentario, cfr. Rm 9, 22-33) e cattolico, è l’imprevisto convergere verso la salvezza di romani, cristiani e pagani, e barbari. Un convergere che non escludeva nessuno perché operato al momento buono dalla misericordia di Dio che faceva sì che ciascuno giocasse la sua parte: «Perché fosse protetto, il pio corteo venne circondato da ogni parte da spade sguainate; cantando insieme, romani e barbari fecero risonare pubblicamente un inno a Dio; la tromba della salvezza echeggiò lontano nell’eccidio dell’Urbe, invitò e sospinse tutti, perfino coloro che si erano rintanati in nascondigli; i vasi di Cristo [i cristiani] accorsero da ogni parte verso i vasi di Pietro e moltissimi pagani si mescolarono ai cristiani, se non nella fede, nella professione di essa: e proprio per questo, quanto più si confondevano tanto più al momento buono si sottraevano al pericolo; più i romani cercavano rifugio radunandosi in gran quantità, più i protettori barbari si spargevano numerosi attorno ad essi. O scelta sacra e ineffabile del giudizio divino!» (Historiae adversus paganos VII, 39).
La stessa apologia che Agostino fa della fede cristiana di fronte all’accusa dei pagani di essere essa all’origine del disastro di Roma (che è l’occasione da cui scaturisce il De civitate Dei) va compresa così. Non come una risposta dialettica e ideologica. Si rilegga il libro I, dove Agostino manifesta l’intenzione dell’opera. Esso è tutto impostato sul contrasto fra la vanità degli dei di Roma che hanno bisogno, anzi esistono in quanto sono affidati agli uomini, e il nome di Cristo che agisce in proprio proprio attraverso quei barbari che, benché feroci, possiedono l’umiltà («misericordia et humilitas etiam immanium barbarorum»), la virtù propria, assieme alla fede («ex fide vivens»), della città di Dio pellegrina sulla terra, che non attribuisce a sé ciò che viene da Dio.
Agostino non nega che quel che è avvenuto a Roma sia stato rovinoso, ma si sofferma sul fatto che, in mezzo a tutte le devastazioni possibili, è apparso qualcosa di nuovo che risale direttamente a Cristo: «Nella recentissima disfatta di Roma, tutte le rovine, le uccisioni, i saccheggi, gli incendi, le desolazioni sono stati prodotti da ciò che avviene abitualmente in guerra, ma quel che è avvenuto di nuovo, il fatto cioè che la barbara ferocia, in modo inusitato, sia apparsa mite a tal punto che basiliche spaziosissime sono state scelte e designate per essere riempite di gente da salvaguardare, dove nessuno fosse ucciso, nessuno catturato, dove tanti potessero essere portati da nemici pietosi per essere liberati, dove nessuno potesse essere preso e fatto prigioniero neppure da nemici crudeli – questo non c’è chi non veda che va attribuito al nome di Cristo […]; è lui che ha mirabilmente ammansito, frenato, placato animi tanto truculenti e crudeli, lui che predisse già tanto tempo prima per bocca del Profeta: “Punirò con la verga le loro iniquità e con flagelli i loro peccati, ma da loro non distoglierò la mia misericordia”» (De civitate Dei I, 7).
«La misericordia ha sempre la meglio nel giudizio», scrive san Giacomo. Anche in quello storico, scriviamo noi.
«30 Giorni» di luglio 2010

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