02 settembre 2010

In fondo all'estate della discordia venga un sì alla vita

Donne sole, consultori da riformare
di Marina Corradi
Nascerà a marzo. Si chiamerà Francesco. Ma già ha una storia alle spalle. In una mattina di lu­glio sua madre, sola, incinta, con una gravidanza a rischio, bussa all’ufficio di un’assistente sociale del Comune di Roma. Ha deciso per l’aborto in ospe­dale, poi le è mancato il coraggio e non si è pre­sentata. Chiede aiuto. La risposta, raccontata ieri dalla donna a Avvenire, è scoraggiante: non pos­siamo far molto, non abbiamo risorse, pensi a qua­li difficoltà va a affrontare… Il giorno dopo per te­lefono arriva una proposta di alloggio per due me­si, 'poi si vedrà'. Due mesi, e poi? La logica con­clusione della storia sarebbe un aborto. Invece la ragazza approda in un Centro di aiuto alla vita, di cui in Comune non le avevano parlato; ora è lì che, accompagnata, aspetta. In quell’ufficio comunale adesso minimizzano, negano. Però a nessuno è ve­nuto in mente di dare un indirizzo, che magari era a dieci minuti di strada. Tutto si giocava in una ma­no concreta, nella Roma calda e vuota d’agosto; u­na mano qui e ora per un figlio – e non per una pra­tica.
Non ci stupisce molto, questa piccola storia. Te­miamo anzi che ci sia, nella sua banalità, un po’ dello spirito del tempo. Una donna sola, una gra­vidanza a rischio, i soldi che mancano: che follia. Beh, se proprio insiste, per due mesi c’è un tetto, poi vediamo… Come dire: sei sola. A chi ti sta in­torno, quel bambino non interessa. Già parte ma­le: fin dalla culla, un precario. No, non è solo Ro­ma, e non è solo un’assistente sociale; è uno sguar­do condiviso, indifferente, convinto in fondo che un figlio, se non è voluto, se non nasce in una situa­zione garantita, non è un bene, ma un peso. Un o­nere che ti impedirà di lavorare, che ti renderà più povero, che ti costringerà ai suoi ritmi, cancellan­do quei sabati e week end che a molti sembrano l’u­nico tempo per vivere davvero. Un figlio da sola poi, e da una madre cardiopatica, assurdo. La solitudi­ne dei passi di quella donna, sui marciapiedi di Ro­ma, dopo. Il fatto è che venire al mondo non ci sembra più u­na cosa buona, buona comunque. Siamo molto prudenti, e preferiamo impegni a tempo determi­nato. Mentre un figlio è per sempre. Che incogni­ta, questa sola espressione, nel nostro mondo del precariato e dei divorzi veloci. 'Per sempre': fa qua­si paura. Così non stupisce che in una vigilia d’agosto e di fe­rie una donna si senta dare una risposta distratta. Che nessuno le dica almeno dove può andare. Che ritorni a casa con passi di piombo. Quante come lei, senza che nessuno ce lo venga a raccontare?
C’è sul tavolo del governo l’agenda bioetica. Po­trebbe essere una occasione per parlare di quei con­sultori in cui la parte preventiva della legge 194 non è mai stata davvero attuata. C’è una proposta di riforma del Forum delle associazioni familiari e del Movimento per la vita, che chiede che nei consul­tori venga offerta almeno una opportunità concreta per proseguire la gravidanza. La 194 non ne ver­rebbe toccata. Però sarebbe un segno, una scelta di campo: un 'fa­vor vitae', un affermare che ci interessa che i bam­bini nascano. Siamo così abituati a figli che a trent’anni non possono, o non vogliono, andarse­ne da casa e farsi una famiglia; così attenti a vez­zeggiare i sogni di ricche madri ultracinquantenni, in cerca di una maternità in natura impossibile. Siamo così prudenti, così curvi su noi stessi, così po­co coraggiosi. 'Inverno demografico', è l’espres­sione usata l’altro giorno dal cardinale Bagnasco; e vengono in mente gli inverni di un tempo, in cui si stava chiusi in casa a consumare il raccolto – fin­ché ce n’era. Quasi come noi; che crediamo garan­tito ogni diritto, e non pensiamo a come si vivrà, in un paese di vecchi.
Un giorno di fine luglio, caldo; l’indifferenza, la di­sattenzione. Una donna molto sola per le vie di Ro­ma. Poi un incontro, un destino diverso. Un bam­bino che nascerà. Ma quanti sareb­bero, se lo si volesse davvero? Sa­rebbe bello, darebbe coraggio, dopo un’estate di vuota discor­dia, un segno di favore alla vita; a quella di chi deve nascere, e in fondo alla nostra, di uomini che non vogliono lasciarsi dietro il vuoto.
«Avvenire» del 2 settembre 2010

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