08 settembre 2010

Il lettore che dirige i giornali

di Vittorio Sabadin
Molti giornalisti ed editori cominciano a pensare che c’è un modo semplice per aumentare le tirature e raccogliere più pubblicità: pubblicare finalmente quello che vogliono i lettori. Ma il direttore del «New York Times», Bill Keller, non è d’accordo: «Il nostro giornale - ha detto - non sarà mai un reality show».
Sapere che cosa vogliono i lettori non è complicato, nell’era di Internet. Basta contare quanti utenti si sono soffermati su di un argomento consultando le pagine web del giornale per avere una classifica delle loro preferenze. Alcune redazioni hanno cominciato a prendere queste statistiche, così immediate e facilmente realizzabili, molto sul serio. La riunione del mattino al «Wall Street Journal» comincia con l’elenco degli argomenti che hanno generato più traffico su wsj.com
, e al centro della redazione del «Washington Post» un gigantesco tabellone luminoso indica come sta andando la lettura degli articoli sulla versione web del quotidiano.
In fondo che male c’è? Ogni industria vuole sapere come vengono giudicati i suoi prodotti dal pubblico ed è pronta ad accoglierne i suggerimenti. Ma l’industria dei giornali ha caratteristiche diverse, ha spiegato Bill Keller, in polemica con i rivali del «Wall Street Journal». «Noi non permettiamo alle statistiche - ha detto - di dettarci l’agenda della giornata, perché pensiamo che i lettori vengono da noi per conoscere il nostro giudizio sugli avvenimenti, non il giudizio della folla». Anche Jean-Marie Colombani, quando era direttore di «Le Monde», ripeteva che il compito dei giornali è quello di fare riflettere l’opinione pubblica, non di seguirla. Un quotidiano deve esprimere i suoi punti di vista sulle cose del mondo e creare un legame con lettori che ne apprezzino la qualità e la serietà anche quando non sono d’accordo con quello che leggono.
Dare retta alle preferenze espresse online può essere fuorviante e pericoloso. Il «Washington Post» ha fatto un’ottima copertura delle elezioni in Inghilterra, che hanno ricevuto pochissima attenzione dai suoi utenti web. La maggiore quantità di traffico è stata invece generata da un servizio sulle ciabatte di gomma Crocs. Il «Post», per fortuna, non ha richiamato i suoi inviati da Londra per concentrarli sulle ciabatte. A dare retta alle classifiche di quello che si guarda di più online, bisognerebbe infatti destinare maggiori risorse alle sfilate di Victoria’s Secret, ai reality show o alla copertura delle storie d’amore delle celebrità, sottraendole alla politica e all’economia.
Qualcuno l’ha già fatto. Dovendo affrontare le conseguenze di una riduzione del personale di circa il 50 per cento, la redazione web del «Los Angeles Times» ha impiegato i pochi giornalisti rimasti sugli argomenti che i lettori seguivano di più, tralasciando gli altri. Gli esperti del settore editoriale ritengono che i giornali rischino di fare la stessa fine della televisione generalista, che da quando ha cominciato a misurare il gradimento dei programmi è progressivamente peggiorata. Lo stesso è accaduto alla politica, in particolar modo in Italia: l’ossessione dei sondaggi fa in modo che chi deve governare segua il sentire comune, invece che fare scelte che comportino l’assunzione di responsabilità e magari l’impopolarità.
La tentazione offerta dalle nuove tecnologie è molto forte. Internet permette non solo di sapere quali argomenti vengono preferiti, ma anche quanta attenzione hanno generato sulla pubblicità che li accompagna. Alle prese con una crisi davvero seria, molti amministratori di giornali stanno facendo un po’ di ragionamenti sui vantaggi del dare retta alla folla. In fondo, fare soldi con l’informazione non è difficile. E’ più difficile salvare il giornalismo.
«La Stampa» del 7 settembre 2010

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