di Luigi La Spina
Peccato. Sembrava che, dopo tanti anni, la parola, anche in Italia, si fossa liberata dalla prigione ideologica e linguistica che l’aveva costretta. Che si potesse ricostruire un periodo storico o analizzare un problema d’attualità senza i meccanici collegamenti mentali del pregiudizio e della semplificazione.
Che il cambio delle generazioni riuscisse a spazzar via, da una parte, il livore accusatorio di una memoria ferita e, dall’altra, l’ossessione giustificazionista di una memoria che ancora rimorde. Invece, colpisce ritrovare nelle parole, ancora di oggi, i vecchi stilemi che una volta potevano fare molta paura e che, ora, e speriamo di non illuderci, sembrano soprattutto suonare stonati e suscitare un moto di noia, ma anche un po’ di tristezza.
Ci riferiamo a piccoli e non tanto piccoli segni che sono ritornati a comparire sui nostri giornali, sulle tv dei serali tornei verbali, nelle giungle anarchiche degli sfoghi adolescenziali su Internet. Gli esempi sono numerosi e frequenti, ma partiamo solo dall’ultimo in ordine di tempo, forse il meno importante, il meno colpevole e, persino, il più trascurabile. Ma, proprio per questo, significativo della persistenza, nella medietà di certa comunicazione giovanile, di tic mentali di cui speravamo esserci definitivamente liberati. Si tratta dell’intervista, sulla «Stampa» di ieri, a Rubina Affronte, la ragazza che ha lanciato un fumogeno contro Raffaele Bonanni, durante la festa nazionale del Pd, a Torino. La giovane, che ha solo 24 anni, giustifica la negazione del diritto di parola nei confronti del sindacalista segretario della Cisl con queste motivazioni: «Era importante non farlo parlare. Non era impedire di parlare a una persona. Ma a chi, con quelle parole, mette in pericolo i diritti fondamentali di milioni di lavoratori».
Fa soprattutto un po’ di tristezza, lo ripetiamo, ritrovare su quella bocca, sulla bocca di una ragazza di 24 anni, la sintesi, magari confusa e certamente ingenua, dei tre fondamentali e perversi schemi mentali che, in anni speriamo lontani, provocarono tanti lutti e tante sciagure nel nostro Paese. Il primo riguarda la trasformazione di una persona in un simbolo; di un uomo, spogliato dalla sua concretezza fisica ed elevato a un tale livello di astrazione che lo priva della sua identità, per ridurla alla generica categoria di un nemico senza volto. Così, questa mutazione impedisce di avversare le sue idee con altre idee, come si fa nella vita reale, e induce alla contraddizione di violare un diritto concreto, quello della parola o della stessa vita di una persona, in nome di un diritto astratto che si presume conculcato a una generalità di altre persone. Con la possibilità di negare la responsabilità del gesto, perché sublimato nel cielo dell’incolpevole irrealtà.
Proprio qui scatta la seconda trappola di quel vecchio schema mentale: quella di pretendere, con arrogante autodafé, di rappresentare una intera categoria sociale senza averne avuto alcun mandato, né alcun motivo per presupporne il diritto. Si tratta di un vero esproprio, per nulla autorizzato, della volontà altrui, di cui, invece, ci si fa vanto di intuirne la necessità, persino quella che non si manifesta nella coscienza della categoria di cui si presume di anticiparne i desideri. C’è, infine, il terzo peccato mortale di quella antica e perversa logica: il semplicismo di chi collega fatti singoli, separati nello spazio e nel tempo, distinti nella concretezza della situazione storica, in una generica e comoda macchinazione unitaria, sapientemente eterodiretta da menti perverse, onniscenti e onnipotenti. L’esagerazione della potenza avversaria, singola eccezione in quella babele di volontà disperse, contraddittorie e multiformi che si agitano sul palcoscenico del nostro mondo globalizzato, serve a esaltare, in una patetica regressione infantile, la virtù salvifica di un solo gesto, quello del piccolo Davide, capace di vincere il gigante Golia.
Al di là del modesto esempio citato, queste catene linguistiche che non riusciamo a spezzare definitivamente imprigionano ancora le menti di molti giovani e meno giovani che si vorrebbero pensare ormai libere di giudicare le persone, nella loro responsabilità individuale e concreta e i fatti, nella loro specificità. Menti capaci di distinguere la realtà dei nostri giorni da quella degli Anni 70 e 80. Una distinzione quanto mai necessaria, proprio perché la memoria di quegli anni fa ancora male.
Che il cambio delle generazioni riuscisse a spazzar via, da una parte, il livore accusatorio di una memoria ferita e, dall’altra, l’ossessione giustificazionista di una memoria che ancora rimorde. Invece, colpisce ritrovare nelle parole, ancora di oggi, i vecchi stilemi che una volta potevano fare molta paura e che, ora, e speriamo di non illuderci, sembrano soprattutto suonare stonati e suscitare un moto di noia, ma anche un po’ di tristezza.
Ci riferiamo a piccoli e non tanto piccoli segni che sono ritornati a comparire sui nostri giornali, sulle tv dei serali tornei verbali, nelle giungle anarchiche degli sfoghi adolescenziali su Internet. Gli esempi sono numerosi e frequenti, ma partiamo solo dall’ultimo in ordine di tempo, forse il meno importante, il meno colpevole e, persino, il più trascurabile. Ma, proprio per questo, significativo della persistenza, nella medietà di certa comunicazione giovanile, di tic mentali di cui speravamo esserci definitivamente liberati. Si tratta dell’intervista, sulla «Stampa» di ieri, a Rubina Affronte, la ragazza che ha lanciato un fumogeno contro Raffaele Bonanni, durante la festa nazionale del Pd, a Torino. La giovane, che ha solo 24 anni, giustifica la negazione del diritto di parola nei confronti del sindacalista segretario della Cisl con queste motivazioni: «Era importante non farlo parlare. Non era impedire di parlare a una persona. Ma a chi, con quelle parole, mette in pericolo i diritti fondamentali di milioni di lavoratori».
Fa soprattutto un po’ di tristezza, lo ripetiamo, ritrovare su quella bocca, sulla bocca di una ragazza di 24 anni, la sintesi, magari confusa e certamente ingenua, dei tre fondamentali e perversi schemi mentali che, in anni speriamo lontani, provocarono tanti lutti e tante sciagure nel nostro Paese. Il primo riguarda la trasformazione di una persona in un simbolo; di un uomo, spogliato dalla sua concretezza fisica ed elevato a un tale livello di astrazione che lo priva della sua identità, per ridurla alla generica categoria di un nemico senza volto. Così, questa mutazione impedisce di avversare le sue idee con altre idee, come si fa nella vita reale, e induce alla contraddizione di violare un diritto concreto, quello della parola o della stessa vita di una persona, in nome di un diritto astratto che si presume conculcato a una generalità di altre persone. Con la possibilità di negare la responsabilità del gesto, perché sublimato nel cielo dell’incolpevole irrealtà.
Proprio qui scatta la seconda trappola di quel vecchio schema mentale: quella di pretendere, con arrogante autodafé, di rappresentare una intera categoria sociale senza averne avuto alcun mandato, né alcun motivo per presupporne il diritto. Si tratta di un vero esproprio, per nulla autorizzato, della volontà altrui, di cui, invece, ci si fa vanto di intuirne la necessità, persino quella che non si manifesta nella coscienza della categoria di cui si presume di anticiparne i desideri. C’è, infine, il terzo peccato mortale di quella antica e perversa logica: il semplicismo di chi collega fatti singoli, separati nello spazio e nel tempo, distinti nella concretezza della situazione storica, in una generica e comoda macchinazione unitaria, sapientemente eterodiretta da menti perverse, onniscenti e onnipotenti. L’esagerazione della potenza avversaria, singola eccezione in quella babele di volontà disperse, contraddittorie e multiformi che si agitano sul palcoscenico del nostro mondo globalizzato, serve a esaltare, in una patetica regressione infantile, la virtù salvifica di un solo gesto, quello del piccolo Davide, capace di vincere il gigante Golia.
Al di là del modesto esempio citato, queste catene linguistiche che non riusciamo a spezzare definitivamente imprigionano ancora le menti di molti giovani e meno giovani che si vorrebbero pensare ormai libere di giudicare le persone, nella loro responsabilità individuale e concreta e i fatti, nella loro specificità. Menti capaci di distinguere la realtà dei nostri giorni da quella degli Anni 70 e 80. Una distinzione quanto mai necessaria, proprio perché la memoria di quegli anni fa ancora male.
«La Stampa» del 30 settembre 2010