30 settembre 2010

Tornano i cattivi maestri

di Luigi La Spina
Peccato. Sembrava che, dopo tanti anni, la parola, anche in Italia, si fossa liberata dalla prigione ideologica e linguistica che l’aveva costretta. Che si potesse ricostruire un periodo storico o analizzare un problema d’attualità senza i meccanici collegamenti mentali del pregiudizio e della semplificazione.
Che il cambio delle generazioni riuscisse a spazzar via, da una parte, il livore accusatorio di una memoria ferita e, dall’altra, l’ossessione giustificazionista di una memoria che ancora rimorde. Invece, colpisce ritrovare nelle parole, ancora di oggi, i vecchi stilemi che una volta potevano fare molta paura e che, ora, e speriamo di non illuderci, sembrano soprattutto suonare stonati e suscitare un moto di noia, ma anche un po’ di tristezza.
Ci riferiamo a piccoli e non tanto piccoli segni che sono ritornati a comparire sui nostri giornali, sulle tv dei serali tornei verbali, nelle giungle anarchiche degli sfoghi adolescenziali su Internet. Gli esempi sono numerosi e frequenti, ma partiamo solo dall’ultimo in ordine di tempo, forse il meno importante, il meno colpevole e, persino, il più trascurabile. Ma, proprio per questo, significativo della persistenza, nella medietà di certa comunicazione giovanile, di tic mentali di cui speravamo esserci definitivamente liberati. Si tratta dell’intervista, sulla «Stampa» di ieri, a Rubina Affronte, la ragazza che ha lanciato un fumogeno contro Raffaele Bonanni, durante la festa nazionale del Pd, a Torino. La giovane, che ha solo 24 anni, giustifica la negazione del diritto di parola nei confronti del sindacalista segretario della Cisl con queste motivazioni: «Era importante non farlo parlare. Non era impedire di parlare a una persona. Ma a chi, con quelle parole, mette in pericolo i diritti fondamentali di milioni di lavoratori».
Fa soprattutto un po’ di tristezza, lo ripetiamo, ritrovare su quella bocca, sulla bocca di una ragazza di 24 anni, la sintesi, magari confusa e certamente ingenua, dei tre fondamentali e perversi schemi mentali che, in anni speriamo lontani, provocarono tanti lutti e tante sciagure nel nostro Paese. Il primo riguarda la trasformazione di una persona in un simbolo; di un uomo, spogliato dalla sua concretezza fisica ed elevato a un tale livello di astrazione che lo priva della sua identità, per ridurla alla generica categoria di un nemico senza volto. Così, questa mutazione impedisce di avversare le sue idee con altre idee, come si fa nella vita reale, e induce alla contraddizione di violare un diritto concreto, quello della parola o della stessa vita di una persona, in nome di un diritto astratto che si presume conculcato a una generalità di altre persone. Con la possibilità di negare la responsabilità del gesto, perché sublimato nel cielo dell’incolpevole irrealtà.
Proprio qui scatta la seconda trappola di quel vecchio schema mentale: quella di pretendere, con arrogante autodafé, di rappresentare una intera categoria sociale senza averne avuto alcun mandato, né alcun motivo per presupporne il diritto. Si tratta di un vero esproprio, per nulla autorizzato, della volontà altrui, di cui, invece, ci si fa vanto di intuirne la necessità, persino quella che non si manifesta nella coscienza della categoria di cui si presume di anticiparne i desideri. C’è, infine, il terzo peccato mortale di quella antica e perversa logica: il semplicismo di chi collega fatti singoli, separati nello spazio e nel tempo, distinti nella concretezza della situazione storica, in una generica e comoda macchinazione unitaria, sapientemente eterodiretta da menti perverse, onniscenti e onnipotenti. L’esagerazione della potenza avversaria, singola eccezione in quella babele di volontà disperse, contraddittorie e multiformi che si agitano sul palcoscenico del nostro mondo globalizzato, serve a esaltare, in una patetica regressione infantile, la virtù salvifica di un solo gesto, quello del piccolo Davide, capace di vincere il gigante Golia.
Al di là del modesto esempio citato, queste catene linguistiche che non riusciamo a spezzare definitivamente imprigionano ancora le menti di molti giovani e meno giovani che si vorrebbero pensare ormai libere di giudicare le persone, nella loro responsabilità individuale e concreta e i fatti, nella loro specificità. Menti capaci di distinguere la realtà dei nostri giorni da quella degli Anni 70 e 80. Una distinzione quanto mai necessaria, proprio perché la memoria di quegli anni fa ancora male.
«La Stampa» del 30 settembre 2010

Emo, apericena, tankini: così cambia la lingua italiana nello Zingarelli

Gli aggiornamenti dell'edizione 2011 del celebre dizionario
s. i. a.
A rischio di estinzione parole come nefasto zuppo, abulico e intrepido. New entry shonen, patchanka
Apericena, archistar, arcisicuro, barbatrucco, cinecocomero, crunch, emo, enoturismo, gollonzo, impanicarsi, inguattare, pinocchietto, shonen, tankini: sono alcune tra le oltre 1.500 nuove parole che aggiornano l'edizione 2011 del Vocabolario della Lingua Italiana Zingarelli, la storica opera di consultazione pubbicata dall'editore Zanichelli, che conta in tutto 143mila voci e 377mila significati. Vanno invece da abulico a zuppo, passando per nefasto e intrepido, le 2.900 «Parole da Salvare» dell'italiano della memoria, parole ormai poco usate secondo l'Osservatorio di Zanichelli sulla lingua italiana segnalate nello Zingarelli 2011.
Fa il suo ingresso ufficiale nel dizionario «Resta di stucco, è un barbatrucco», la celebre formula-tormentone dei Barbapapà, popolari personaggi dei cartoni animati lanciati nella seconda metà degli anni Settanta. Ma è solo uno dei tanti esempi di come il costume, la cronaca, la società, la cultura hanno trasformato il linguaggio corrente, tanto da coniare neologismi degni da apparire nel vocabolario. Così lo Zingarelli 2011 registra il «gollonzo», nato dallo slang nelle trasmissioni della Gialappas ma adottato poi dal giornalismo sportivo per indicare il goal ridicolo, fortunoso. Anche la moda «Emo» (come la musica) ora è nel vocabolario, con il significato di «appartenente a gruppi giovanili che vestono di nero».
Esordiscono anche altre parole del mondo giovanile: «shonen» e «shoujo», che in giapponese indicano le riviste (Manga) e film (Anime) rispettivamente per ragazzi e ragazze; tra i nuovi generi musicali lo Zingarelli 2011 segnala il «patchanka». Massimiliano Fuksas o Renzo Piano, in quanto «architetti di grande successo e notorietà» si possono chiamare a buon diritto «archistar». Dal cinema, dopo il «cinepanettone» natalizio (già nello Zingarelli 2010) viene accolto il cinecocomero estivo. Voci sempre tipiche della stagione calda sono i «fantasmini» (calzini cortissimi che non escono dal bordo della scarpa) e il «pinocchietto», il pantalone «alla pescatora».
Nel repertorio lessicale del pret-a-porter dello Zingarelli 2011 entra anche il «tankini» (costume da bagno femminile costituito da slip più canotta). Con «sandalone» invece s'intende un sinonimo di «peplum», il film mitologico all'italiana anni '60. Sdoganati nuovi modi di dire, tra i quali «arcisicuro», «impanicarsi» (cadere in preda ad una crisi di panico), «inguattare» (termine usato nel significato di 'nasconderè).
Tra i neologismi 2011 debuttano nell'italiano ufficiale «nativo digitale»: nel linguaggio giornalistico chi è nato nell'era di Internet e quindi più aduso alle tecnologie dell«'immigrato digitale» che le ha imparate solo da adulto. Dal mondo dell'Happy Hour arrivano: «alcopop» (bevanda con poco alcol per giovani) e i più alcolici «chupito» e «shot» (o «shottino»), magari sorseggiati a un«'apericena» (aperitivo che sostituisce una cena).
Ad arricchire il menù dello Zingarelli 2011 ci sono poi pietanze come l'nduja calabrese, la cartellata pugliese, i friarielli napoletani, tajarin e cugnà piemontesi. E dopo, per «smaltire», si possono praticare le nuove discipline di fitness: acquaspinning, crunch, ginnastica dolce. O magari facendo la danza rituale maori haka.
«La Stampa» del 30 settembre 2010

Quote per portare le donne in quota

di Monica D'Ascenzo
«La legge non ha lo scopo di riportare l'equilibrio fra i sessi, nasce dal fatto che la diversità è un valore e crea ricchezza. Nella mia esperienza ho visto come sono scelti i membri dei board: vengono dallo stesso ristretto circolo di persone. Vanno a caccia e pesca insieme, sono amici». Parole del ministro dell'Industria norvegese, Ansgar Gabrielsen, promotore della legge sulle quote di genere (40%) in vigore dal 2006. Uomo e conservatore, due dettagli non trascurabili per la piega che prese il dibattito nel paese e l'accoglienza della legge. Ci sarà stato chi avrà posto dei dubbi sulle donne che sarebbero entrate nei cda.
È successo in Spagna, dopo la legge del 2007, che prevede una quota di genere al 40% in otto anni: in tanti puntarono il dito sulle "figlie di" come Sabina Fluxá, Ana Patricia Botín o le sorelle Koplovitz nei cda di società partecipate dalle loro famiglie. Non altrettanto scandalo fecero le nomine dello stesso Botín padre che sostituì il nonno o di José Manuel Entrecanales, famosi "figli di".
L'impressione è che quando si tratta di donne si tende ad alzare l'asticella prima che saltino. La Sda Bocconi ha confrontato i cv dei membri dei cda con quelli di selezionate professioniste: queste ultime hanno un livello d'istruzione più alto e contano esperienze in diverse aziende come gli uomini. Titoli che riescono a far valere in altri settori, come nelle professioni cui si accede per concorso. Lì sì che le donne aggirano le barriere e arrivano a conquistare una posizione. Una proposta: mettiamo le poltrone dei board a concorso? Al di là della boutade, in Italia la commissione Finanze della Camera ha approvato il progetto di legge Golfo-Mosca (una della maggioranza, l'altra dell'opposizione). Tocca al governo dare parere positivo perché la proposta approdi al Senato senza passare alla Camera. Sarà la soluzione alle discriminazioni? Tutt'altro. Che esistano barriere per le donne è certificato da Ue, Ocse e Wef. Siamo in grado di abbatterle con un cambio culturale? Se fosse così non si moltiplicherebbero i ddl: dalla tassazione differenziata del lavoro femminile alle detrazioni per le famiglie, dal congedo parentale obbligatorio per gli uomini alla conciliazione cura-lavoro. Se le quote di genere fanno tanto clamore, figuriamoci i ddl che puntano a riequilibrare i carichi di lavori domestici fra mogli e mariti per permettere alle donne di poter avere tempo ed energie per la carriera.
«Il Sole 24 Ore» del 30 settembre 2010

Il lato "positivo" dell’esistenzialismo

A vent’anni dalla morte, la lezione del filosofo resta attuale: le idee devono servire all’uomo, non viceversa. Il mondo accademico lo guardava con sospetto perché scriveva sui quotidiani
di Stefano Zecchi
Ho visto Nicola Abbagnano, l’ultima volta, in una riunione del Consiglio comunale di Milano. Eravamo alla fine degli anni ’80, quando non era stata ancora approvata la riforma delle amministrazioni locali, e le sedute dei consigli comunali erano interminabili. Abbagnano, scomparso vent’anni fa, si era generosamente prestato a ricoprire l’incarico di assessore alla Cultura, forse non immaginando quali fossero le incombenze della burocrazia gestionale dell’assessorato. Con la testa tra le mani, ascoltava paziente i consiglieri e i suoi colleghi. Ha resistito un anno, poi si è dimesso. Ma nella decisione di accettare quell’incarico amministrativo si poteva ritrovare la sua visione filosofica che non lo aveva mai estraniato dai problemi sociali.
Fedele a questa prospettiva culturale, era stato editorialista della Stampa e, poi, in seguito alla fondazione del Giornale nuovo di Montanelli, suo prestigioso collaboratore. E allora - siamo negli anni ’70 - un accademico che scriveva su un quotidiano o su un settimanale era considerato con il più profondo disprezzo dal corpo docente dell’università, una specie di pecora nera che si svendeva alla banalità della comunicazione giornalistica. E se proprio vogliamo dirla tutta, tra l’intellighenzia accademica di sinistra e radical chic, indiscutibilmente maggioranza, il Giornale di Montanelli e chi ci collaborava erano visti con molta sufficienza (per usare un eufemismo). Abbagnano, nei suoi interventi sulla stampa, proponeva un ideale diario laico di vita quotidiana, con acute osservazioni sulle modificazioni dei comportamenti, dei costumi, delle abitudini: interventi che corrispondevano con coerenza teorica alla sua ricerca filosofica.
Abbagnano si laurea a Napoli con il filosofo Antonio Aliotta sul problema delle radici irrazionali del pensiero. Dal maestro riceve sia quell’insegnamento contrario all’idealismo che veniva sempre più diffondendosi attraverso l’opera di Giovanni Gentile e Benedetto Croce, sia un orientamento che lo porterà a interessarsi alla filosofia esistenzialista. Abbagnano, per primo, fece conoscere in Italia quell’indirizzo filosofico, ma con una particolare caratteristica. In Germania il pensiero di Heidegger e Jaspers dominava nelle accademie e trovava anche in Francia un’elaborazione originale attraverso Sartre. Tuttavia, secondo Abbagnano, sia l’esistenzialismo tedesco che quello francese mostravano una caratteristica comune: erano entrambi attraversati da una profonda visione negativa. Abbagnano non poteva condividere questa deriva nichilista: era attratto dall’idea di una filosofia che abbandonava la grande e astratta speculazione metafisica per aprirsi alle questioni dell’esistenza, ma questo pensiero così attento alla quotidianità non doveva sprofondare, a suo giudizio, nel nichilismo. Elaborò quindi un’idea di filosofia esistenzialista positiva che ritroviamo soprattutto in un libro del 1939 che ebbe grandissima fortuna e diffusione: La struttura dell’esistenza.
Nel dopoguerra, quando la nostra cultura potè aprirsi a esperienze che provenivano dagli Stati Uniti, la sua idea di un esistenzialismo positivo ebbe importanti sviluppi. Studiò il pragmatismo americano di Dewey, affrontò i problemi della filosofia della scienza, del neopositivismo indirizzando il proprio pensiero verso quello che chiamerà «nuovo illuminismo». Rimangono tuttavia in lui le radici originarie della sua ricerca: quell’anti-idealismo che aveva preso dal suo maestro Aliotta. Nel dopoguerra italiano l’attacco all’idealismo crociano e gentiliano si era diffuso come il virus dell’influenza a tutte le dimensioni del sapere: veniva presa di mira la critica letteraria idealista, la ricerca idealista nelle arti e, ovviamente, la filosofia idealista. Per Abbagnano il pensiero che si richiama al pragmatismo e al neopositivismo è il modo più convincente per respingere il retaggio dell’idealismo. Tuttavia mantenne una misura che non lo portò mai a rifiutare la ricerca filosofica che affronti i temi classici della verità, della giustizia, del bene, cosa invece che fu prerogativa di alcuni suoi celebri allievi, i quali rifiutarono qualsiasi pensiero che non fosse aderente ai problemi concreti definiti dalla scienza.
Da questi estremi, che finiscono per relegare in soffitta come anticaglie le questioni classiche della filosofia, Abbagnano si tenne lontano, come confermano i suoi ultimi libri. Libri di estrema chiarezza, secondo l’aristotelica concezione che solo chi ha lucidità di pensiero ha semplicità d’espressione. Una testimonianza straordinaria è la Storia della filosofia: un testo facile e bello per seguire lo sviluppo del pensiero. Scritto negli anni ’50, nel tempo è stato rivisto e migliorato dal suo autore, e rimane di grande freschezza e profondità.
«Il Giornale» del 30 settembre 2010

Un libro dedicato agli scrittori apprendisti e brontoloni

Consigli per evitare di ritrovarsi tra le mani un romanzo scritto con i piedi
di Mariarosa Mancuso
Leggetelo. Soprattutto voi che avete il romanzo nel cassetto o sulla chiavetta Usb, e vi stupite perché gli editori non fanno a botte per pubblicarlo. Voi che alla prima lettera di rifiuto pensate che la conventicola letteraria si stia organizzando contro il vostro insopprimibile talento. Voi che i libri di regola non li leggete (perché non c’è mai tempo) eppure i libri li volete scrivere (come se per questo di tempo ne servisse meno). Voi che pensate “la mia vita è un romanzo”, e poiché amici e parenti già potrebbero recitarlo a memoria, pensate che sia il caso di allargare la cerchia dei fortunati. Voi che mandate manoscritti in visione – in busta gialla o tramite mail certificate – con il post it già appiccicato a pagina 69 (e un appuntino: “L’ho controllata, mi sento di poter dire che è riuscita particolarmente bene”).
Leggete per favore Come non scrivere un romanzo di Howard Mittelmark e Sandra Newman, appena uscito da Corbaccio. E poi riguardate il manoscritto. C’è il caso che uno o più dei 200 errori catalogati nella guida si sia insinuato nel vostro romanzetto. C’è il caso che tale errore sia già nelle prime dieci pagine, se non nella prima. C’è il caso che ce ne siano molti altri, da lì alla pagina finale, ed è per questo che gli editori non si sono ancora fatti avanti con l’anticipo. E’ un manuale di scrittura all’incontrario, utile e convincente perché oltre alla teoria porta gli esempi. Ognuno dei duecento errori si accompagna a un brano di prosa che Mittelmark e Newman (entrambi veterani dell’editing) hanno scritto con un’intenzione precisa: mostrare che effetto fanno al lettore le pagine a cui tenete di più. (Sì, è questa l’orribile verità, tanto vale che la sappiate subito: le pagine in cui avete messo il cuore sono le stesse considerate raccapriccianti da ogni lettore all’infuori di vostra madre).
Cominciamo dall’inizio, e dal fatto che uno scrittore dovrebbe aver qualcosa da raccontare, prima di mettersi a scrivere (“Il calzino perduto”, dicono i nostri, non è una trama). Se ha qualcosa da raccontare, ne deve far dono al lettore senza inutili preamboli: il difetto – etichettato come “Sala d’aspetto” – riguarda quei romanzi in cui ci dobbiamo sorbire la banalissima infanzia del protagonista (che forse non sarà neanche il protagonista) in attesa di qualcosa che forse succederà (e se succederà sarà drammatica quanto un calzino bucato). Trovata una trama non ovvia e un personaggio più interessante del cugino Gaetano – vuol dire: non caratterizzato attraverso quel che ha addosso, o una serie di gesti che prevedano la bollitura della pasta e una sosta in bagno per radersi – si passa all’annosa questione dello stile e delle metafore (noi l’abbiamo fatta breve, Mittelmark e Newman spiegano per filo e per segno perché certi cattivi dei romanzi, per esempio, non spaventano nessuno).
Ovvero: i punti dolenti di chi scrive per diletto, e in Italia anche degli scrittori che vanno in classifica. Già la regola “Scrivere non somiglia al pattinaggio artistico” ne toglierebbe di mezzo qualcuno. Come il capitolo che comincia con la frase “Gregor Samsa si svegliò un mattino e si trovò trasformato in un enorme simbolo”. Le magnifiche guide insegnano a non spiegare il significato della vita già nel prologo, e a curare i dialoghi. Non va bene, per esempio, se tutti i personaggi parlano con la stessa voce del narratore (“Il ventriloquo”). Se Pinco Pallo fa una battuta, si deve capire che è una battuta dalle parole tra virgolette. Se lo scrittore dopo le virgolette sente il bisogno di aggiungere “ironizzò Pinco Pallo”, la battuta – e anche il romanzo – sono venuti male.
«Il Foglio» del 28 settembre 2010

29 settembre 2010

La rete in gabbia

Il ridimensionamento del principio sulla neutralità di Internet era l'obiettivo della proposta di Verizon e Google. La mobilitazione dei mediattivisti ha causato il momentaneo dietrofront delle due imprese. Da qui la necessità di una regolamentazione del Web che limiti il potere delle corporation e garantisca il diritto di accesso alla Rete
di Mazzetta *
La discussione sulla regolamentazione della rete Internet è in agenda negli Stati Uniti da quando Comcast (una delle maggiori imprese di telecomunicazioni statunitensi) ha contestato l'autorità della Commissione Federale delle Comunicazioni (Fcc). La Fcc si è così trovata nella spessa posizione di Jon Postel nel 1997, quando una causa promossa dalla «Image Online Design» contro di lui e la Iana (l'autorità che assegna gli indirizzi di tutti i siti internet) rivelò al mondo dei profani che la Iana non era altro che un acronimo privo di autorità e personalità giuridica. Una sigla dietro la quale si nascondeva solo una parte del lavoro che da anni svolgeva Postel, uno dei creatori della rete che l'Economist definì l'unico plausibile «Dio della rete», con l'aiuto di qualche impiegato del ministero della difesa americano e di qualche ricercatore. Fu allora che la gestione delle reti americane passò da Postel alla Commissione Federale per le Comunicazioni, evitando però di completare l'opera con la produzione di una legge per la rete e dando alla Fcc i poteri per farla rispettare.
Internet è ancora oggi largamente priva di regole con forza di legge che ne stabiliscano il funzionamento, in linea di massima funziona ancora come l'hanno concepita i suoi inventori, come un enorme progetto di ricerca aperto. Nemmeno in Italia ci sono regole certe e se capita di pagare l'accesso alla pagina di un quotidiano quando si naviga con un telefonino e di non pagarlo con altre connessioni, è perché qualcuno ha infranto il principio della neutralità della rete (che non ha forza di legge) e vi sta discriminando in base alla connessione che impiegate.

Insostenibili pedaggi
Anche negli Stati Uniti la discussione sulla neutralità o meno della Rete ristagnava, fino a che non è arrivata la proposta elaborata da Verizon e Google. La proposta ipotizza il superamento del principio della neutralità della rete, che stabilisce che tutti i pacchetti di bit che viaggiano sulla rete devono essere trattati allo stesso modo. Il che significa che nessun operatore delle telecomunicazioni può in alcun modo e per nessun motivo discriminare il traffico rifiutando il passaggio ad alcuni dati o privilegiandone altri. Se si creano dei colli di bottiglia o delle questioni di precedenza devono essere risolti mantenendo la precedenza della prima richiesta sulle successive. L'accordo rappresenta lo stato delle pretese dei maggiori player, per i quali l'Internet del futuro dovrebbe essere un sistema con la precedenza assicurata ai contenuti a pagamento e con la possibilità per i fornitori dei servizi di discriminare i contenuti fino a vietar loro l'accesso alla rete. La rete non sarebbe più la stessa se si dovesse sottoscrivere un gran numero di servizi diversi e pagare infiniti pedaggi per goderne appieno o in alternativa rassegnarsi a una navigazione lenta, sempre a rischio di blocco per lasciare il passo ai contenuti a pagamento.
Si tratta di un tipico tentativo di appropriazione di un bene comune, per recintarlo e trarne una rendita senza troppa fatica. Tanto più che le reti sono state pagate dagli utenti e dai contribuenti e che lo stesso valore di Internet è dato dall'insieme dei comportamenti e del lavoro in rete della massa degli utenti, più che dalle geniali intuizioni delle corporation. Altrettanto tipico è che la proposta nel suo complesso peggiori l'ambiente (Internet) che si vuole predisporre allo sfruttamento economico.
Se oggi in poche ore la rete produce più d'informazione di quanta l'umanità ne abbia prodotto nella sua storia fino al 2000, è perché tra più di un miliardo di utenti della rete ce ne sono alcuni milioni che producono contenuti e perché tutti gli altri mettono comunque in rete i propri dati sensibili, frequentano e partecipano i siti e usano i servizi veicolati dalla rete. L'appropriazione e la messa a profitto di questo valore sono i fini della proposta Google-Verizon e lo hanno capito tutti, tanto che la proposta ha suscitato una rivolta che ha subito raggiunto i politici americani. Reazione rapida e ad ampio spettro, con un numero enorme di persone e siti mobilitati in poche ore.
Come spesso accade quando i media descrivono un confronto tra l'elite politica o economica e il resto del mondo, i sostenitori della neutralità della rete sono stati subito definiti estremisti, zeloti o utopisti, anche da molti di quelli che hanno ritenuto inguardabile la proposta di riforma. Media che faticano a mettersi in contrapposizione con i maggiori attori economici e che mai definirebbero i fautori del neoliberismo come zeloti o estremisti e che riservano l'uso positivo della definizione di utopisti ai promotori dei più clamorosi scandali e fallimenti finanziari, almeno fino a che non fanno il botto. Riformisti, moderati e fan del dialogo, diventano così strumenti del business, perché in nome del dialogo si nega la legittimità di pronunciare il no e si apre la strada alla validazione, almeno parziale, di qualsiasi richiesta dei principali soggetti economici. Un espediente fin troppo abusato. Il problema è che la neutralità della rete, come molti altri princìpi e regole etiche e democratiche, c'è o non c'è, si applica o non si applica.
Il problema è dunque binario e non si può giungere ad alcun compromesso che non conduca alla soppressione del principio stesso. Vale per i diritti e vale anche per tutte le regole sociali, non è una trattativa economica, anche se ne derivano conseguenze economiche. Nonostante queste rituali interferenze, la terrificante proposta Verizon-Google sembra aver ottenuto l'effetto contrario al desiderato, procurando soprattutto a Google grossi problemi di pubbliche relazioni. Non è piaciuto il voltafaccia di un'azienda che ha goduto del vuoto normativo negli anni della sua affermazione e che fino a pochi anni fa sosteneva con forza l'assetto della rete proposto dai suoi inventori e fondatori, tanto che Google nel 2006 assunse Vint Cerf (con Postel uno dei padri nobili della rete) per sostenere il principio di neutralità di fronte al Congresso.

La battaglia del Wi-Max
La reazione della rete ha riattivato il dibattito e costretto molti a prendere posizione, dai politici che temono di veder penalizzate le proprie campagne di comunicazione, fino alle aziende concorrenti che hanno potuto segnare qualche punto nella battaglia d'immagine contro Google senza troppa fatica. I blog di Google sono stati travolti dalle proteste e l'azienda non è riuscita a fornire risposte convincenti alle critiche, mentre molti esponenti politici sono stati costretti a schierarsi a favore della neutralità della Rete, lasciando soli Verizon, Google e qualche disperato sparso a sostenere il contrario. Pochi giorni dopo l'emersione della proposta, la Fcc ha finalmente trovato il coraggio di pronunciarsi a favore del principio di neutralità e recentemente ha annunciato che aprirà l'accesso alle frequenze per il Wi-Max: un accesso gratuito e senza privilegi per nessuno. Non che questo unanimismo rappresenti alcuna garanzia, ma si tratta pur sempre di un ostacolo che potrebbe sconsigliare l'investimento di milioni di dollari per convincere deputati e senatori a sostenere il contraio e di un ottimo punto di ripartenza per la discussione sulla regolamentazione delle reti.
* Il nickname di un mediattivista italiano
«Il manifesto» del 26 settembre 2010

Con due cuori dentro

di Massimo Gramellini
Fa’ come noi, Idil: respira. Perché è così che ti abbiamo accolto: con un respiro di stupefazione e di sollievo. Non era facile bucare la corazza del nostro cinismo: la nausea e il disincanto ci hanno reso insensibili alle cattive notizie e sospettosi davanti a quelle buone. Ma tu hai fatto il miracolo. Tu sei il miracolo. Sei nata da una donna che è morta un mese fa. Divorato dal male, il cervello di tua madre aveva sospeso per sempre le trasmissioni. Ma il suo cuore continuava ostinatamente a battere accanto al tuo. Due cuori che palpitano nello stesso corpo: questo fatto, talmente ovvio in un parto da averci fatto dimenticare quanto sia meraviglioso, diventava nel tuo caso una sfida apparente alle leggi di natura. Apparente, Idil, perché tu sei la natura nella sua essenza più profonda. Sei la vita che nasce dalla morte, in una staffetta incessante che a qualcuno sembra non avere scopo, soltanto perché la ragione non ha gli strumenti per coglierlo. La ragione ha altri compiti, altri meriti. Ha creato la scienza che ti ha permesso di nascere, trasformando il corpo spento di tua madre in un’incubatrice.
E ora sei qui, lontano da dove avresti dovuto essere. Con un padre vedovo, felice e disperato, e cinque fratelli in Somalia tenuti a bada dal più grande di 9 anni. Che la tua avventura abbia inizio, restituendo un po’ di energia anche alla nostra, dispersa in tante boiate. Adesso è in te che battono idealmente due cuori: la madre e la figlia, la morte e la vita. «Dov’è il principio, là è la fine». E viceversa. Grazie, Idil, per avercelo ricordato.
«La Stampa» del 29 settembre 2010

Sakineh dalla pietra alla corda

di Lucia Annunziata
Qualcosa si muove persino a Teheran. La condanna a morte per lapidazione inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna iraniana accusata di adulterio e omicidio, è stata commutata in condanna a morte per impiccagione. Ridicolo, certo, sostenere che si tratti di un passo avanti, eppure lo è. Lo è innanzitutto perché prova che l’indignazione internazionale viene sentita dal pure sprezzantissimo governo di Teheran.
Ma, proprio a questa svolta della vicenda, è bene riconoscere anche che, dopo che gli Usa hanno eseguito la condanna a morte per Teresa Lewis, il caso Sakineh ha assunto per noi un’ulteriore valenza. Il leader Ahmadinejad pochi giorni fa ha equiparato Stati Uniti e Iran di fronte all’uso della pena capitale, e questa similitudine ha lasciato una grande inquietudine nelle coscienze di molti cittadini delle nostre democrazie. Val la pena dunque di ribadire, esattamente ora che la storia umana di Sakineh può ancora svoltare, ora che si può ancora sperare di salvarla, perché non c’è parallelismo possibile, nemmeno davanti allo stesso strumento, la pena di morte, fra Usa ed Iran.
Sono contraria, come la maggior parte degli italiani (l’Italia è leader nella campagna contro la pena di morte) alla condanna capitale; ma i modi e i contesti della sua amministrazione sono rilevantissimi. Attraverso di essi infatti si rappresenta il sistema giuridico di cui tutti usufruiamo.
Non sono dunque indifferenti il percorso attraverso cui è stata condannata Sakineh né il tipo di morte.
La lapidazione è una antica forma di punizione, e fin dall’antichità ha sempre avuto caratteri legati a crimini che coinvolgono la sessualità: è la punizione per prostitute, adultere, omosessuali, oltre che apostati e assassini. Dunque, sia pur non esclusivamente, è punizione per eccellenza del sesso debole. Differenza che si sottolinea persino nell’esecuzione. Credo sappiate come avviene: il condannato viene seppellito in una buca nel terreno, fino alla vita gli uomini, fino al busto le donne, avvolto in un lenzuolo fino al capo: se è donna però il volto rimane scoperto. Chi abbia mai visto uno dei crudeli video di lapidazione che ogni tanto emergono dai Paesi in cui la punizione è praticata (o anche solo tollerata) sa che differenza fa vedere o meno le ferite profonde stamparsi sul volto di chi subisce il martirio. Non è un caso che i Paesi in cui questa pena capitale si pratica sono tutti musulmani: Iran, Nigeria, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Afghanistan e Yemen, dove vige un diritto strutturato intorno alla legge coranica. In Iran, ad esempio, la lapidazione è stata riammessa dopo la rivoluzione del 1983, ed è ancora oggi la nazione in cui è praticata da più lungo tempo, con una procedura studiata in modo che il decesso non avvenga a seguito di un solo colpo: la legge prevede infatti che «le pietre non devono essere così grandi da far morire il condannato al solo lancio di una o due di esse; esse inoltre non devono essere così piccole da non poter essere definite come pietre».
È in questa impostazione del processo, della visione del crimine, e del concetto di diritto individuale del cittadino/\a che è maturato il caso Sakineh. In una giustizia in cui vige la incertezza della difesa e l’abuso della forza di uno Stato rivestito di principio etico assoluto. Il processo subito dalla donna, le motivazioni della sua condanna, persino le prove di quel che ha fatto sono incerte - e se la lapidazione nella sua estrema brutalità rende evidente questo abuso del diritto, l’abuso del processo rimane anche ora che lo strumento della condanna diventa la corda e non la pietra. Del resto è questo il problema della giustizia in Iran - e lo abbiamo visto ripetutamente al lavoro negli ultimi anni nei confronti dei dissidenti: la disobbedienza è punita come principio, e la sua repressione non ha nessun limite se non la soglia che serve alla conservazione dello Stato. Che si usi poi la esecuzione per via di botte in carcere, la sparizione senza ritrovamento del cadavere, o la esecuzione in piazza via squadre speciali, è indifferente - i modi sono, appunto, il disvelamento della supremazia dello Stato/\religione sul diritto dell’individuo.
Possiamo dire altrettanto della giustizia in Usa? Non è perfetta, anzi è densa di discriminazioni di classe e di razza. Ma è un sistema che ruota intorno al pieno riconoscimento dei diritti del cittadino e ampio equilibrio di contrappesi perché essi vengano rispettati. Contrappesi interni - il tipo di processo -, ed esterni - la possibilità della opinione pubblica di sapere, conoscere, e dissentire.
Alla fine certo, una pena di morte è una pena di morte. Teresa Lewis e Sakineh hanno davanti a sé la fine della loro vita. Ma, almeno, ai nostri occhi rimarrà la differenza sul dubbio dell’innocenza, fra l’essere vittime o meno: per Teresa sappiamo che ha avuto la possibilità di potersi difendere, per Sakineh siamo certi di no. E siccome la giustizia garantisce (o meno) tutti noi, non è differenza da poco, per tutti noi, sapere di avere una certezza di giudizio nell’incerto mondo in cui viviamo.
«La Stampa» del 29 settembre 2010

Kierkegaard: e l’estetica fa pace con l’etica

di Cesare Cavalleri

Non finisco di sorprendermi, e di ringraziare, per come, con soli 8 euro, si possa disporre di «Saper scegliere», antologia kierkegaardiana a cura di Massimo Jevolella. Sia lode agli Oscar Mondadori che nella collana «Saggezze» offrono selezioni di pensieri attinti alle culture più diverse, da Agostino a Boezio, a Cicerone, Confucio, Gibran, Lao-Tzu, Montaigne, san Paolo, Platone, Plutarco, Tagore, Thoreau (spulciando dall’ordine alfabetico). Jevolella è un insigne arabista, esperto di religioni orientali, talvolta con un pizzico di sincretismo gnostico, che nell’Introduzione riesce a offrire una sintesi esauriente del pensiero di Kierkegaard attinto da «Aut-Aut», «La malattia mortale», «Timore e tremore», ivi antologizzati. La reazione di Kierkegaard (1813-1855) all’invadenza dell’idealismo hegeliano avviene nel segno della valorizzazione della persona e della sua libertà.
All’astrattezza dell’idea, egli contrappone la concretezza esperienziale dell’esistenza. Egli mostra che la vita «estetica», tesa alla ricerca del piacere, della soddisfazione momentanea, conduce inevitabilmente alla disperazione, attraverso la coazione a ripetere (Don Giovanni ne è emblema e vittima). All’opposto, la vita «etica» incomincia quando ci si mette di fronte a una scelta assoluta: «Il mio aut-aut non indica la scelta tra il bene e il male; indica la scelta colla quale ci si sottopone o non ci si sottopone al contrasto di bene e male. Non importa tanto scegliere di volere il bene o il male, quanto di scegliere il fatto di volere». Ancora: «Chi vive esteticamente non fa che vedere ovunque possibilità, queste costituiscono per lui il contenuto del futuro; mentre chi vive eticamente vede dappertutto compiti». Con ciò, Kierkegaard non intende ridurre la vita al senso del dovere, al doverismo. Anzi, chi si mettesse in un rapporto esterno col dovere, commetterebbe lo stesso errore dell’esteta che attende tutto da fuori, e «una vita per il dovere come questa è brutta e assai noiosa. Il vero individuo etico ha una calma e una sicurezza in sé, perché non ha il dovere fuori di sé ma in sé».
Da qui la definizione kierkegaardiana dell’etica: «Essa è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa. Essa non vuole che l’individuo diventi un altro, ma sé stesso: non vuole distruggere l’estetica, ma illuminarla». Con maggior rigore metafisico, Giovanni Paolo II declinava in varie circostanze e applicazioni, l’aforisma: «Uomo, diventa ciò che sei». È il riferimento all’oggettività della natura umana a fornire la chiave della distinzione (e quindi della scelta) fra bene e male, superando ogni relativismo. Ma l’itinerario non è ancora completo. La scelta etica radicale avviene finalmente nel confronto con l’assoluto, con Dio. Con parole di Jevolella: «Tutti i princìpi umani devono cedere di fronte al mistero divino, e il pensiero e la vita stessa devono convertirsi in preghiera, in atto di fede ardente». Kierkegaard giunge a una conclusione a prima vista sorprendente: «Vi sono molte qualità di amore, ma vi è anche un amore col quale amo Dio, e questo ha un’espressione sola nella lingua: il pentimento. Se non l’amo così, non lo amo in modo assoluto con tutto il mio essere più profondo. E se non vi fosse nessun’altra ragione perché l’espressione del mio amore per Dio fosse pentimento, basterebbe il fatto che egli mi ha amato per primo». Cercare di cogliere l’assoluto con la passione del pensiero è lodevole, ma per questa via l’amore per Dio diventerebbe necessario: «Ma non appena amo liberamente, e amo Dio, non posso far altro che pentirmi». Ecco perché Abramo, colui che ha portato fino in fondo «la speranza dell’impossibile», diventa il prototipo del giusto, dell’uomo di fede.

«Avvenire» del 29 settembre 2010

Kierkegaard: e l’estetica fa pace con l’etica

di Cesare Cavalleri
Non finisco di sorprendermi, e di ringraziare, per come, con soli 8 euro, si possa disporre di «Saper scegliere», antologia kierkegaardiana a cura di Massimo Jevolella. Sia lode agli Oscar Mondadori che nella collana «Saggezze» offrono selezioni di pensieri attinti alle culture più diverse, da Agostino a Boezio, a Cicerone, Confucio, Gibran, Lao-Tzu, Montaigne, san Paolo, Platone, Plutarco, Tagore, Thoreau (spulciando dall’ordine alfabetico). Jevolella è un insigne arabista, esperto di religioni orientali, talvolta con un pizzico di sincretismo gnostico, che nell’Introduzione riesce a offrire una sintesi esauriente del pensiero di Kierkegaard attinto da «Aut-Aut», «La malattia mortale», «Timore e tremore», ivi antologizzati. La reazione di Kierkegaard (1813-1855) all’invadenza dell’idealismo hegeliano avviene nel segno della valorizzazione della persona e della sua libertà.
All’astrattezza dell’idea, egli contrappone la concretezza esperienziale dell’esistenza. Egli mostra che la vita «estetica», tesa alla ricerca del piacere, della soddisfazione momentanea, conduce inevitabilmente alla disperazione, attraverso la coazione a ripetere (Don Giovanni ne è emblema e vittima). All’opposto, la vita «etica» incomincia quando ci si mette di fronte a una scelta assoluta: «Il mio aut-aut non indica la scelta tra il bene e il male; indica la scelta colla quale ci si sottopone o non ci si sottopone al contrasto di bene e male. Non importa tanto scegliere di volere il bene o il male, quanto di scegliere il fatto di volere». Ancora: «Chi vive esteticamente non fa che vedere ovunque possibilità, queste costituiscono per lui il contenuto del futuro; mentre chi vive eticamente vede dappertutto compiti». Con ciò, Kierkegaard non intende ridurre la vita al senso del dovere, al doverismo. Anzi, chi si mettesse in un rapporto esterno col dovere, commetterebbe lo stesso errore dell’esteta che attende tutto da fuori, e «una vita per il dovere come questa è brutta e assai noiosa. Il vero individuo etico ha una calma e una sicurezza in sé, perché non ha il dovere fuori di sé ma in sé».
Da qui la definizione kierkegaardiana dell’etica: «Essa è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa. Essa non vuole che l’individuo diventi un altro, ma sé stesso: non vuole distruggere l’estetica, ma illuminarla». Con maggior rigore metafisico, Giovanni Paolo II declinava in varie circostanze e applicazioni, l’aforisma: «Uomo, diventa ciò che sei». È il riferimento all’oggettività della natura umana a fornire la chiave della distinzione (e quindi della scelta) fra bene e male, superando ogni relativismo. Ma l’itinerario non è ancora completo. La scelta etica radicale avviene finalmente nel confronto con l’assoluto, con Dio. Con parole di Jevolella: «Tutti i princìpi umani devono cedere di fronte al mistero divino, e il pensiero e la vita stessa devono convertirsi in preghiera, in atto di fede ardente». Kierkegaard giunge a una conclusione a prima vista sorprendente: «Vi sono molte qualità di amore, ma vi è anche un amore col quale amo Dio, e questo ha un’espressione sola nella lingua: il pentimento. Se non l’amo così, non lo amo in modo assoluto con tutto il mio essere più profondo. E se non vi fosse nessun’altra ragione perché l’espressione del mio amore per Dio fosse pentimento, basterebbe il fatto che egli mi ha amato per primo». Cercare di cogliere l’assoluto con la passione del pensiero è lodevole, ma per questa via l’amore per Dio diventerebbe necessario: «Ma non appena amo liberamente, e amo Dio, non posso far altro che pentirmi». Ecco perché Abramo, colui che ha portato fino in fondo «la speranza dell’impossibile», diventa il prototipo del giusto, dell’uomo di fede.
«Avvenire» del 29 settembre 2010

Nel bello l’incontro con i gentili

Nel «cortile» dove s’incontrano credenti e non l’esperienza della bellezza può disporre a «pregare»
di Vittorio Possenti
La bellezza nutre profonda­mente le nostre vite. È un pa­ne senza di cui non potrem­mo continuare ad esistere: alimen­ta, sorregge, dà vita e speranza. La verità, il bene, la bellezza e perfino Dio si gustano in modo analogo a come si gusta una vivanda: il signi­ficato del gustare qualcosa si esten­de dall’ambito sensibile a quello spirituale. Inoltre tale verbo inclu­de un terzo significato traslato; il sapere come intelligenza, senno, sapienza, per cui il sapiente è colui che conosce, che ha gustato il sa­pore dell’essere, nel suo aspetto gioioso ed in quello deludente («Ecce in pace amaritudo mea amarissima»: il salmista ha gustato l’amarezza dell’esistenza). Il brutto uccide, infligge tristezza e depres­sione. L’uomo, anche quello di oggi così frettoloso e poco contemplati­vo, ha una profonda sete di bellez­za, spesso inappagata da quanto a prima vista ci assedia. Invece la bellezza fa uscire da noi stessi, co­munica una scossa che ci trasporta oltre il quotidiano e risveglia, a­prendo nuove dimensioni. Noi sia­mo nella gioia se viviamo in un mondo in cui la bellezza naturale e quella creata dall’uomo si congiun­gono (Roger Scruton). Un mondo in cui esistono cose belle è un mondo che rende possibile accet­tare di esistere, e sperare in una meta al di là di quanto appare. L’ar­te e la bellezza operano una corre­zione del mondo che noi avvertia­mo come manchevole, imperfetto, transitorio, e perfino sfigurato. La glorificazione della bruttezza e del cattivo gusto che da tempo accom­pagna il nostro cammino di uomi­ni postmoderni è un segnale di de­clino verso il disumano, verso ciò che sfigura l’uomo. Dobbiamo rea­gire a questa deriva educandoci e­steticamente e moralmente. Se è vero che Dio nella città secolare ap­pare lontano, diventa ancor più ne­cessario inseguire il bello e farne qualcosa la cui fruizione ricordi a che cosa siamo destinati. Ci ram­memori che nel sensibile è presen­te un richiamo all’oltre, all’aldilà del mondo, a ciò che ora appare in enigma ma che poi verrà: un tema che segna un filo rosso dai Greci a noi. Già nel Simposio platonico in­contriamo la profonda affinità tra la bellezza e il divino: «Mentre il brutto discorda rispetto a tutto ciò che è divino, il bello è con esso d’accordo». Analogamente Edgar Allan Poe, per il quale l’arte e la poesia non sono un semplice ap­prezzamento della Bellezza che è di fronte a noi, ma uno sforzo quasi selvaggio di raggiungere la Bellezza che è al di sopra di noi. «Ispirati da un’estatica prescienza delle glorie oltre la tomba, lottiamo per rag­giungere una parte di quella Ama­bilità i cui elementi stessi, forse, appartengono all’eternità sola. E così, quando per o­pera della Poesia ci trovia­mo sciolti in lacrime, non piangiamo allora per ec­cesso di piacere, ma per un certo dolore, petulante e impaziente, per la nostra incapacità di afferrare ora, interamente, qui sulla ter­ra, una volta per sempre, quelle gioie divine ed esta­tiche, delle quali attraverso la poe­sia o attraverso la musica non at­tingiamo che visioni brevi e impre­cise » (The Poetic Principle). A Poe fa eco Charles Baudelaire: «È esso, è questo immortale istinto del bello che ci fa considerare la terra ed i suoi spettacoli come un riflesso, come una corrispondenza del cie­lo » (L’Art romantique). Nella bellezza finita vi è dunque un presagio dell’infinito, un rinvio costante del­l’una all’altro, di cui dice meravi­gliosamente una poesia di William Blake: «Vedere un mondo in un granello di sabbia / E il cielo in un fiore selvaggio / Tenere l’infinito nel palmo delle tue mani / E l’eter­nità in un’ora». L’arte può evange­­lizzare, operando nel cortile dei gentili. «Io penso che la Chiesa do­vrebbe anche oggi aprire una sorta di 'cortile dei gentili' dove gli uo­mini possano in una qualche ma­niera agganciarsi a Dio, senza co­noscerlo e prima che abbiano tro­vato l’accesso al suo mistero». Con queste parole Benedetto XVI apre grandi orizzonti e tocca un nodo sensibile della situazione spirituale di oggi. Il tempio antico doveva es­sere casa di preghiera per tutti i po­poli, secondo la parola di Isaia ri­presa da Gesù (Mc 11, 17), che sgomberò l’atrio del tempio da af­faristi inopportuni in modo che i gentili proprio lì potessero pregare l’unico Dio. Altrettanto deve fare la Chiesa nel rispondere alla ricerca di Dio nella nostra epoca secolariz­zata e scientistica: aprire cioè un nuovo versante di attenzione verso agnostici ed atei, per i quali Dio è lontano, estraneo, irrilevante. Ora nel cortile dei gentili largo spazio dovrebbe essere destinato ad atti­vare l’esperienza del bello che con­duce ad ammirare e, distogliendo lo sguardo dal deforme e dal nega­tivo, dispone a pregare. Secondo Tommaso d’Aquino la bellezza è denotata da tre caratteri: integritas, consonantia, claritas (integrità, ar­monia, chiarità). L’integrità dell’in­tuizione artistica, l’armonia o con­sonanza delle parti nel tutto, e la claritas che è il risplendere di una forma su una materia ben propor­zionata sono sempre e dovunque gli immortali caratteri della Bellez­za. Essi depongono in noi anche un appello all’integrità morale, a quel­la armonia delle parti che conduce all’equilibrio, a quella chiarità di luce che richiama l’irraggiamento del bene.
Da Platone a Poe, da Baudelaire a Blake, non si contano gli esempi di quanti hanno colto il nesso profondo tra la gioia estetica e la forza morale
«Avvenire» del 29 settembre 2010

Quella forza misteriosa cha sa regalare la vita

Donna somala clinicaqmente morta ha dato alla luce una bimba
di Lucia Bellaspiga
Due donne, Idil ed Evelina. Non sapevano nulla l’una dell’altra fino a due settimane fa, quando le loro vite si sono incrociate nel reparto rianimazione di un ospedale torinese, dove Idil, donna somala di 28 anni, è giunta da Mogadiscio in stato avanzato di tumore al cervello. E con un feto nel grembo.
Un viaggio della speranza, quello di Idil, decisa a farsi curare il cancro che le cresceva dentro, ma ancor più a far nascere quella figlia che intanto viveva, e cresceva anche lei, più veloce del tumore. Una lotta tra il male e il bene, tra il tutto e il nulla. Una corsa contro il tempo che a Idil ha tagliato le gambe poco prima del traguardo, quando un elettroencefalogramma piatto ne ha decretato la morte. Ed è qui che Evelina, l’altra donna, primario di anestesia e rianimazione, entra in scena insieme ai colleghi: il corpo di Idil viene attaccato a una macchina, il suo cuore andrà avanti a battere, il suo sangue circolerà nelle vene, la sua linfa di madre continuerà a nutrire quel feto anche oltre la morte, fino al giorno in cui potrà vivere di vita propria.
L’epilogo è di ieri mattina, quando con parto cesareo dal ventre senza doglie è scaturito un pianto, l’esordio di ogni esistenza.
Racconta tutto con un filo di voce la dottoressa Evelina Gollo («Mi scusi, sono stata con Idil tutta la notte») e riassume quella che definisce «la più bella storia che abbia mai incontrato». E non è la stanchezza di una notte in bianco a renderne fragili le emozioni, ma una pietas che travalica anche il suo essere medico: «Lavoro qui da venticinque anni ma una storia così non l’avevo mai vista. È una vicenda che non dimenticheremo... Quel feto era precoce ma era già in grado di vivere, era un dovere morale farlo nascere». E ancor prima era la volontà di sua madre, e di un padre che si era aggrappato al suo camice bianco per guardarla negli occhi e supplicare: «Mi affido a voi, fate che nasca mia figlia, fate che viva». Pesa meno di un chilo, «ma è bella e vivace». Ce la farà. Parla, sorride e trascina la voce, la dottoressa, ora stanca e serena.
Intanto poco distante, in un’altra stanza, Idil è alle sue ultime ore. Sei, per legge. Passate le quali – prescrive sempre la legge – se l’elettroencefalogramma risulterà ancora piatto le macchine verranno spente. Solo in quell’istante il respiro cesserà, il sangue smetterà di scorrere, il cuore di battere e di Idil, «morta» da un mese, anche il corpo potrà riposare. E in una storia come questa può succedere di tutto, anche che un medico, rianimatore da venticinque anni, chieda scusa al giornalista se per un attimo esce dal suo ruolo e parla «al di fuori della mia professione», col camice addosso ma il cuore a nudo... Quello che ci vuol dire è solo un «sentimento», nulla di scientifico, ma non meno supremo: «Abbiamo scelto di interrompere le procedure di accertamento di morte per portare avanti quella donna fino alla ventottesima settimana di gestazione, era il termine che ci eravamo posti affinché la bambina vivesse, e che scadeva ieri. E proprio fino a ieri Idil si deteriorava ma resisteva, non c’era più ma restava qui a nutrirla. Quella donna ha lottato fino alla fine per far vivere sua figlia».
Mentre scriviamo le sei ore corrono. La vicenda terrena di Idil si conclude qui, con un dono supremo che la fa immortale. Sotto lo stesso tetto, in una incubatrice, una creatura raccoglie il suo respiro e lo perpetua. Le hanno dato il nome di sua madre.
«Avvenire» del 29 settembre 2010

28 settembre 2010

Usa: quale dignità davanti al boia?

Arriva in Italia il romanzo di Ernest J. Gaines che denuncia i processi di disumanizzazione dei condannati al braccio della morte
di Laura Badaracchi
Lo scrittore della Louisiana narra la vicenda di Jefferson, ragazzo nero condannato ingiustamente: per salvarlo davanti alla giuria di bianchi, il suo difensore l’aveva paragonato «a un maiale», a una bestia da soma buona solo per lavorare
Condannato a morte sulla sedia elettrica.
Un verdetto perentorio, che non lascia spiragli alla speranza, anche se l’imputato si è proclamato innocente. Ma due donne non si arrendono al dolore: una è la madre del ventunenne di colore che sta per finire tragicamente i suoi giorni, ed è comprensibile che sia così; l’altra è la zia di Grant Wiggins, un insegnante a sua volta afro-americano, che insegna ai bambini neri della piantagione, in una chiesa adibita a scuola nella Louisiana, sognando di abbandonare il paese e le sue radici. La richiesta al maestro è singolare: non può certo capovolgere la condanna già pronunciata, ma andare a far visita al ragazzo prima dell’esecuzione. «Non voglio che loro uccidano nessun maiale. Voglio che sia un uomo a sedersi sopra quella sedia, un uomo che si regge sui suoi due piedi», domanda la mamma per suo figlio.
Muove da qui Una lezione prima di morire, edito nel ’93 negli Stati Uniti e vincitore del National Book Critics Circle Awarde.
Tradotto finalmente in italiano da Mattioli1885, in uscita domani, il volume è il capolavoro di Ernest James Gaines, classe 1933, candidato al Pulitzer. La vena autobiografica attraversa le pagine in modo delicato: Gaines, nativo della Louisiana, è stato in prima persona testimone di molti episodi di razzismo, che ha subito a sua volta; nella terra delle sue origini è tornato a vivere con la moglie, in una casa costruita nella piantagione dove ha vissuto la sua infanzia. I suoi volumi sono stati tradotti in francese, tedesco, spagnolo, russo e cinese. Un successo planetario fondato sull’autenticità dei racconti, sulla voce dei personaggi che arriva dritta al lettore senza fronzoli. E fa pensare. Non si tratta di dividere il mondo in buoni e cattivi: l’autore evidenzia senza pudore le contraddizioni e le omissioni che caratterizzano bianchi e neri. Wiggins, il maestro, viene coinvolto quasi suo malgrado nella vicenda dall’ostinazione della zia, mentre la madre di Jefferson continua a ripetere come un ritornello: «Non è costretto a farlo». Lui si schermisce, dicendo che ormai il ragazzo «è morto. È solo una questione di settimane, forse un paio di mesi – ma è già morto. Nei ventuno anni passati abbiamo fatto tutto quello che potevamo per Jefferson. Ma adesso è morto. E io non posso resuscitare i morti. Tutto quello che posso fare è cercare di evitare che gli altri finiscano come lui. Ma lui ci ha abbandonati. Non c’è più nulla che io possa fare, nessuno di noi può più farci nulla». Ed è a questa rassegnazione che la madre di Jefferson si ribella: non tanto alla convinzione che «tanto le cose vanno sempre così», che «i diritti dei neri saranno sempre calpestati dai bianchi». Lei vuole restituire dignità al suo ragazzo prima che venga ucciso. Ingiustamente, questo si intuisce fin dalle prime righe e anche dalla lunga requisitoria dell’avvocato difensore.
Che però smentisce in tribunale la 'natura umana' del giovane, definito 'stupido' perché si è trovato in un bar al momento di una sparatoria, in cui sono rimasti uccisi i due ladri e il responsabile del locale.
Sarà accusato di rapina e di omicidio di primo grado.
Così l’avvocato, nel tentativo di salvarlo, arriva a paragonarlo a un maiale, un animale che è inutile uccidere. Rivolgendosi alla giuria, composta da dodici uomini bianchi, lo definisce «un essere fatto per tenere il manico di un aratro, per caricare le vostre balle di cotone, per scavare i vostri fossati, per tagliare la vostra legna, per raccogliere il vostro mais.
Questo è ciò che voi avete davanti, non una persona capace di pianificare un furto o un omicidio». Di razzismo si tratta, ma pure di togliere dignità umana a un condannato a morte, che invece arriverà con coraggio e 'in piedi' agli ultimi istanti, confidando: «Ho camminato diritto».
Una lezione di resistenza, quasi di ostinazione nel difendere la propria intrinseca umanità, oltre che la propria anima. Forse aspirano allo stesso traguardo gli altri detenuti che in tutto il mondo attendono l’esecuzione.
Solo qualche giorno fa, alle 21.13 del 23 settembre è stata uccisa con iniezione letale nel braccio della morte del Greensville Correctional Center, in Virginia, Teresa Lewis, la quarantunenne disabile mentale accusata di duplice omicidio. È la dodicesima donna ad essere giustiziata negli Usa dal ’76, anno in cui è stata reintrodotta la pena capitale; lo scorso anno cinquantadue persone sono state legalmente 'eliminate'. Di fronte a tante altre fini annunciate, la Giornata mondiale contro la pena di morte in programma il 10 ottobre invita a una riflessione, suggerita anche dal libro di Gaines: che diritto hanno alcuni uomini di togliere la vita ad altri? La giustizia pubblica può arrivare a privare per sempre dell’esistenza alcuni detenuti? Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, nel 2009 sono state messe a morte almeno 714 persone in 18 nazioni e condannate a morte almeno 2001 persone in 56 Paesi: un triste computo da cui è esclusa la Cina, dove queste informazioni restano ancora un segreto di Stato.
Dopo la condanna, in Virginia, di Teresa Lewis, una quarantunenne disabile mentale come il Jefferson di Gaines, la Giornata mondiale contro la pena di morte in programma il prossimo 10 ottobre rinnova l’interrogativo: fino a dove può spingersi la «giustizia»?
«Avvenire» del 28 settembre 2010

27 settembre 2010

La legge è dei forti

Il gioco di specchi tra pubblico e privato è la forma in cui la proprietà privata è eletta a principio universale del capitalismo globale. Un sentiero di lettura a partire da un libro di Ugo Mattei edito dalla manifestolibri
di Sandro Mezzadra
L'inganno giuridico della «rule of law»
Quello di Ugo Mattei è ormai un nome familiare alle lettrici e ai lettori del manifesto. Firma autorevole del giornale, Mattei è intervenuto negli ultimi anni sulle questioni dirimenti del dibattito politico, segnalandosi tra l'altro per la straordinaria generosità con cui ha contribuito a costruire la battaglia referendaria sull'acqua, ed è stato una presenza fissa nelle pagine culturali di questo quotidiano. Giurista (civilista e comparatista per formazione) di grande finezza teorica e di prestigio internazionale, ha svolto soprattutto in quest'ultima veste un ruolo fondamentale nel proporre, dall'interno del diritto, una critica rigorosa degli sviluppi giuridici globali degli ultimi decenni. Soffermandosi su questioni solo apparentemente tecniche - dalla class action alla soft law, dalle trasformazioni dell'arbitrato alla differenza tra standard e regole - Mattei ha tracciato con pazienza e maestria un quadro davvero convincente di quell'interpenetrazione tra processi giuridici e dinamiche globali che costituisce uno dei tratti salienti del capitalismo contemporaneo. Ed è davvero riuscito a «fare uscire il diritto dalla sua torre d'avorio», anche grazie a una scrittura tanto chiara quanto efficace negli esempi portati a sostegno delle tesi più teoriche.

La plasticità della norma
La raccolta in un volume edito dalla manifestolibri degli articoli da lui scritti negli ultimi anni per il manifesto (La legge del più forte, pp. 143, euro 22) rappresenta dunque un'ottima occasione per prendere visione del «quadro» nel suo insieme. E ripropone con forza i problemi politici di fondo che ne hanno guidato la composizione.
Al centro del lavoro di Mattei, in questo volume così come in quello da lui scritto con Laura Nader (Il saccheggio, Bruno Mondadori; ne ha parlato su queste pagine Toni Negri il 4 maggio di quest'anno), è la rule of law, variamente tradotta in italiano come «principio di legalità», «Stato di diritto», «regime di legalità». Tradizione veneranda, quella della rule of law, le cui radici sono indicate da molti nientemeno che nella Magna Charta! Ma al tempo stesso «"nozione plastica", in cui ciascuno vede i valori in cui crede». Ecco, qui sta il punto: Mattei mostra come nel corso degli ultimi decenni gli sviluppi normativi e quelli della dottrina giuridica abbiano interpretato selettivamente la «plasticità» della rule of law, riorganizzandone significati e funzioni attorno alla protezione univoca della proprietà privata. E questo vale tanto all'interno dei paesi «occidentali» quanto - e soprattutto - nella proiezione giuridica all'interno dei Paesi «periferici» dell'operato delle grandi agenzie internazionali (dal Wto alla Banca mondiale e all'Unione Europea): quando cioè la rule of law è posta come condizione per l'accesso al credito o a programmi di cooperazione. O quando - per riprendere l'esempio fatto da Mattei nelle ultime pagine del libro - vengono rescissi i contratti stipulati dai precedenti governi afgani per le forniture energetiche in quanto «non si fondavano su basi giuridiche civili». E la Unocal, gigante energetico californiano per cui ha a lungo lavorato Amid Karzai, l'attuale presidente dell'Afghanistan, può finalmente rientrare nel grande affare dell'oleodotto del Mar Caspio.
Si diceva che una delle traduzioni italiane di rule of law è «principio di legalità». Domanda: non sarà che le trasformazioni indicate da Mattei si sono infiltrate anche in quella «legalità» che costituisce l'ossessivo riferimento, una sorta di totem, della sinistra nostrana in tutte le sue variegate e litigiose componenti? Mi pare una domanda che varrebbe almeno la pena di porre - e che tuttavia nessuno pone. Non mancano certo le voci dei giuristi - anche di grandi giuristi - nel dibattito pubblico italiano attorno ai temi della «legalità». E tuttavia a me pare che problemi come quelli discussi da Mattei restino in larga parte estranei a questo dibattito, dominato - per riprendere l'espressione del grande giurista sovietico Evgenij Pasukanis - da un vero e proprio «feticismo giuridico», dall'idea che il diritto non possa che avere funzioni «positive» di tutela e garanzia (in primo luogo degli interessi dei più deboli). È da questo punto di vista che la critica del diritto praticata da Mattei si rivela davvero preziosa.

Il feticismo giuridico
Due precisazioni sono a questo riguardo necessarie. La prima è che la critica del diritto, pur non potendo che essere al contempo critica del «feticismo giuridico», non è certo cieca di fronte alle funzioni «positive» del diritto stesso. Guarda tuttavia a quest'ultimo dal punto di vista dei rapporti sociali che regola - o, ancora più radicalmente e ancora con Pasukanis, intendendo «il diritto come rapporto sociale». E coglie nella sua materialità un insieme complesso di funzioni, tra cui rientrano senz'altro - ecco il vero rimosso del dibattito contemporaneo - l'organizzazione e l'articolazione giuridica di rapporti di dominio. La seconda precisazione necessaria è che la critica del diritto non è necessariamente patrimonio dei rivoluzionari. Basti pensare, in questo senso al celebre saggio di Franz L. Neumann, Mutamenti della funzione della legge nella società borghese (1937), in cui si mostrava - in uno spirito analogo a quello di Mattei - come nella Germania di Weimar il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge fosse stato trasformato in un vero e proprio baluardo eretto a difesa della proprietà privata contro ogni estensione «sociale» della democrazia. A introdurre l'edizione italiana della raccolta di scritti di Neumann in cui quel saggio è stato pubblicato (Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, 1973), e a celebrarne la «"realistica" utopia democratica», fu un maestro del liberalismo nostrano, Nicola Matteucci.
Ciò detto, è giusto riconoscere che la critica del diritto praticata e proposta da Mattei è radicale, non teme anzi di tornare a nominare la rivoluzione come proprio complessivo orizzonte. È un'opzione meramente ideologica, o retorica, quella di Mattei? Non pare. Il fatto è che quell'opzione è imposta al suo ragionamento dal procedere stesso dell'analisi, dal rigore con cui quest'ultima viene concentrandosi sulle trasformazioni dell'istituto in cui viene riconosciuta la filigrana della rule of law: ovvero della proprietà privata. La sintesi di Mattei è senz'appello: nella proprietà privata si deve identificare «l'istituto giuridico maggiormente responsabile del privativo, della disuguaglianza e della dominazione tipici del modello di sviluppo dominante». Sotto il profilo analitico, tuttavia, il giudizio è ben altrimenti articolato. Cerco di darne conto in poche righe: nata con un preciso riferimento «soggettivo» - l'individuo - e «oggettivo» - i beni «materiali», in primo luogo la terra - la proprietà privata moderna si trasforma radicalmente via via che la grande corporation si sostituisce all'individuo come soggetto proprietario e i beni appropriabili vengono «smaterializzandosi» (cosicché «immagini, informazione, strumenti finanziari complessi, idee innovative» si sostituiscono alla terra come paradigma su cui il diritto proprietario si ridefinisce). Non sono, né l'uno né l'altro, sviluppi recentissimi. Ma è indubbio che nel contesto della globalizzazione capitalistica si sia varcata anche da questo punto di vista una soglia qualitativamente decisiva: e oltre quella soglia, aggiunge Mattei, la proprietà privata torna paradossalmente a presentarsi, come alle origini della modernità, strutturalmente avvinta alle dinamiche dell'appropriazione - ovvero dello spossessamento di enormi moltitudini di donne e uomini attraverso l'uso di vecchie e nuove «recinzioni» (tanto «materiali» quanto «immateriali»).
Ma c'è di più. Seguendo analiticamente questo «processo apparentemente inarrestabile di espansione dell'appropriabilità privata», Mattei mostra come la proprietà privata sia giunta a rompere l'equilibrio con il pubblico, con quello Stato che storicamente ne ha garantito l'organizzazione e la vigenza mantenendo tuttavia una propria autonomia: il pubblico appare ora interamente «colonizzato» dalle logiche della proprietà privata, ne subisce la temporalità breve (il «fare cassa» che si presenta come la traduzione istituzionale del tempo breve dei bilanci trimestrali delle grandi società per azioni) e riorganizza i propri «servizi» in base a principi economici di mera efficienza e profittabilità (uno degli esempi paradigmatici su cui Mattei si sofferma è l'università).

Oltre la miseria del presente
Rotto l'equilibrio tra pubblico e privato, quali alternative si aprono per una prassi politica che sappia ricominciare a tessere la trama di una critica efficace dell'esistente? Non mancano nel volume di Mattei riferimenti alla possibilità di «invertire la rotta» (per riprendere il titolo di un importante volume da lui curato nel 2007 per i tipi del Mulino insieme a Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà), di ripensare la proprietà pubblica in modo tale da restaurare l'equilibrio perduto tra privato e pubblico, nella prospettiva di un rinnovato «controllo democratico dell'economia». Molti sono in questo senso i rimandi a esperienze del passato (in Italia e altrove) che si potrebbero riprendere e adattare alle mutate circostanze. A me pare, tuttavia, che la logica stessa del ragionamento di Mattei lo conduca verso quella «rivoluzione copernicana» a cui fa pure più di un cenno, a investire cioè sulla spinta di nuovi movimenti sociali e politici che conducano «a rendere possibile ciò che oggi appare impossibile»: ovvero la produzione e la conquista di un comune sottratto alla specularità di pubblico e privato, inteso come base materiale di un'esistenza associata finalmente libera dallo sfruttamento. Si apre qui uno straordinario terreno di ricerca teorica e di sperimentazione pratica, in cui il lavoro del giurista può essere fondamentale. Non solo sotto il profilo critico, ma anche nei termini «positivi» dell'invenzione di un nuovo «diritto del comune»: e nel «mondo post-occidentale» in cui stiamo cominciando a vivere, potrà essere preziosa la ricostruzione - a cui Mattei dà alcuni contributi in La legge del più forte - degli «archivi giuridici» non occidentali. A questi ultimi si dovrà guardare non tanto per rinvenirvi «modelli» pre-confezionati, quanto esperienze e suggestioni da lasciare «risuonare» nel nostro presente globale.
È una posizione «rivoluzionaria», quella a cui si è fatto or ora riferimento? Certamente sì. Mi si permetta tuttavia di avanzare il dubbio che, finché non si comincerà a lavorare seriamente alla definizione di un orizzonte radicalmente alternativo alle miserie del presente (e dunque di un orizzonte rivoluzionario), anche le prospettive del «riformismo» rimarranno povera cosa. Non era Lenin del resto, era il vecchio e saggio Max Weber a ricordare che «il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l'impossibile». Chissà, forse anche Enrico Letta e il suo «pensatoio» potranno trovare utile la lettura del libro di Mattei. Anzi no, loro sicuramente no.
«Il Manifesto» del 21 settembre 2010

Tirannia intellettuale

Tragedie di un amore impossibile
di Roberto Ciccarelli
La pubblicazione dei testi e del carteggio sulla tirannide di due grandi teorici conservatori come Leo Strauss e Alexandre Kojève ruota attorno al rapporto del potere politico con i filosofi. E se i tiranni cercano l'amore dei dominati, i «migliori» li usano per sfuggire al disprezzo del popolo
Dopo avere fondato il Partito dell'Amore, Gerone riconosce che il popolo non può amare i tiranni. A differenza dei suoi colleghi Dionigi di Siracusa o Periandro di Corinto, per non parlare del Caimano che ci governa, Gerone vorrebbe trattare i sudditi come amici onorati e non come bambini obbedienti. Ma sa che questo è impossibile. La sua è la tragedia di un amore impossibile.
Nell'omonimo dialogo scritto da Senofonte, commentato nel 1948 da Leo Strauss e successivamente da Alexandre Kojève, oggi ripubblicato in un'edizione arricchita dalla corrispondenza che i due filosofi si scambiarono per un trentennio (Leo Strauss e Alexandre Kojève, Sulla tirannide, Adelphi, pp. 397, euro 48), Gerone confessa a Simonide, filosofo epicureo con tendenze socratiche, che il consenso popolare è un sorriso nel buio. Gli amici di oggi saranno i persecutori di domani. La tirannia può soddisfare just-in-time l'eros autoritario del Capo, ma per lui non ci sarà mai pace. Anche se fugge all'estero, verrebbe raggiunto dai suoi giudici. Gerone odia se stesso. La cosa migliore che un tiranno può fare è impiccarsi.
Il dialogo ha un risvolto comico. Senofonte separa il personaggio Gerone dal suo ruolo politico di tiranno, lo spinge a mettere in scena una verità che mai confesserebbe in pubblico. In questo modo la sua diventa la più dura requisitoria che un tiranno abbia prodotto contro se stesso prima della Resistibile ascesa di Arturo Ui dedicata da Brecht a Hitler.
Strauss e Kojève sostengono che Simonide è il vincitore del dialogo con Gerone perché impone la sua superiorità morale del filosofo sul tiranno. È comprensibile che Senofonte, scrivendo questo dialogo, si sia preso la rivincita contro il tiranno che lo esiliò. È lo stesso motivo che spinge Strauss e Kojève a scrivere i loro commenti non privi di fascino. Il primo fuggì da Hitler negli Stati Uniti, il secondo da Stalin in Francia. Ma che siano sufficienti l'altruismo, l'amore socratico per un dialogo ben regolato o la passione per la conoscenza affinché un politico si convinca a farsi educare dal filosofo è un'idea quasi più comica dell'esistenza della tirannide. Come lo è quella per cui Simonide abbia rinunciato a prendere il posto del tiranno solo perché la sua vocazione per la vita filosofica non lo permette. Dunque, il vero protagonista del dialogo è il Gerone che si annida in Simonide, il tiranno che il filosofo vorrebbe essere, ma che non sarà mai. Il tema è l'impotenza del pensiero politico, non la superiorità della filosofia sulla politica.

La scienza dei migliori
Le ragioni che hanno spinto due intellettuali liberal-conservatori come Kojève e Strauss a preferire quest'ultimo tema sono note. Di nobili origini, ma non di facile consumo, la filosofia non ha mai goduto di grande popolarità tra le masse. Il pensiero conservatore è ossessionato dal timore di non riuscire a trovarle una collocazione nella divisione moderna del lavoro intellettuale. Per questa ragione, Strauss attribuisce alla filosofia il ruolo di «scienza» che interpreta la saggezza dei classici per parlare in codice del presente. Una scienza che servì a rivelare le antinomie della filosofia politica.
In questa idea di filosofia si riconosce una precisa scelta politica dell'intellettuale: la condanna della modernità che non ammette l'esistenza di un Bene superiore, distrugge i valori della «ragione» e della «civiltà», preferendogli il consumismo, i piaceri dell'effimero, il nichilismo delle filosofie desideranti. Per Strauss il governo dei migliori - gli aristoi - è l'unica soluzione contro queste illusioni del progresso. Critico del liberalismo, in quanto prodotto della modernità, ma liberale per convinzione, egli difese le ragioni della democrazia americana. Una contraddizione, visto che quel modello democratico non è certamente il governo dei migliori e, al contrario, rafforza la modernità capitalistica. La stessa contraddizione ricorre in pensatori come Isaiah Berlin, nei teorici del totalitarismo e tra le losche baionette dei neoconservatori americani. Per buona parte del XX secolo essa ha alimentato la guerra antilluminista, anticomunista e infine quella antislamica.
Nel suo commento al Gerone di Senofonte, Kojève fornisce tutt'altra rappresentazione della modernità. Non condanna l'illuminismo, il suo storicismo e il suo relativismo, ma pensa che la società si costruisca con uomini privi della coscienza dei vincoli sacri e sia guidata da soggetti spinti dal desiderio di essere riconosciuti dall'Altro. Kojève sostiene che i filosofi sono tiranni del pensiero attratti dalla tirannide politica. Sempre con lo sguardo alle lancette dell'orologio, i filosofi elargiscono consigli ai politici, ma non vedono l'ora di farla finita con la politica. Ogni minuto è tempo rubato alla passione erotica della loro vita: il pensiero. Il tiranno deve ascoltare ciò che di buono hanno da consigliare i custodi delle idee eterne e provvedere rapidamente alla riforma dello Stato.
Nel 1945 sarà stata grande la soddisfazione di Kojève nel passare dalla precaria occupazione di riconosciuto filosofo maudit a quella di tecnocrate al servizio degli affari economici europei del nazionalista De Gaulle. Troppo poco, forse, per realizzare la sua profezia di uno «Stato omogeneo universale», quella singolare visione della tecnocrazia globale che avrebbe dovuto coniugare l'uguaglianza comunista con la produzione capitalista. Ma abbastanza perché questo esercizio filosofico orwelliano entrasse in sintonia con l'illusione platonica della filosofia alla guida dello Stato o con la tentazione del rettore Heidegger di sussurrare il messaggio dell'Essere all'orecchio di Hitler. È quanto basta per convincere Strauss a siglare con Kojève una tregua in nome dell'antica egemonia della filosofia sulla politica. Caro Kojève, scrive Strauss, abbiamo parlato della Tirannide, ma non abbiamo fatto altro che parlare dell'Essere. All'ultima riga a pagina 235 di questo costoso hard cover adelphiano, ecco scattata l'istantanea dell'intellettualità europea prima che la secolarizzazione la sottraesse all'ultimo pasto a base di «Valori Assoluti».
Nulla, poi, è stato come prima. La rottura del gentlemen's agreement tra la filosofia e la politica operata dai totalitarismi moderni prima e dall'economia capitalistica della conoscenza poi, l'annientamento del ruolo sociale della filosofia, l'elezione del mercato editoriale a unico giudice del Bene e del Male, non hanno tuttavia convinto i filosofi a rinunciare al Gerone che è in loro. Hanno inventato nuove religioni, quella dell'Essere è la più ricorrente, si sono proposti nelle vesti di guru accademici, uomini di mondo o di azione, convinti di essere liberi dai tiranni che governano la città degli uomini perché nessuno può mettere in discussione il loro potere nella città delle idee.
Di questo complesso di Gerone Strauss e Kojève offrono due interpretazioni: per il primo, il filosofo è un «saggio» disinteressato cultore delle verità eterne che rendono affidabile il suo desiderio di educare gli uomini. Per il secondo, il filosofo è un intellettuale che partecipa al progetto pedagogico dello Stato moderno, ne è il principale interprete e - in qualità di amministratore regolarmente retribuito - lavora come mediatore tra le masse e il potere.

Il disprezzo del popolo
In entrambe le versioni, l'intellettuale elabora una professione di fede liberale a beneficio dei suoi principali avversari: il tiranno e il popolo. Sia nell'antica versione di consigliere del tiranno, sia in quella più moderna di specialista della pedagogia statale, l'intellettuale non è interessato al consenso. La tirannide dell'intellettuale si basa su una forma di auto-ammirazione per le idee che professa e non ha bisogno di alcuna conferma per sapere che esse sono ragionevoli. Amante delle passioni ben ordinate, e custode delle idee che permettono di comprendere il Bene, l'intellettuale non è costretto a parlare con tutti. A differenza del tiranno, egli può permettersi di inventare un linguaggio in codice e conversare amorevolmente solo con chi rispetta le sue idee. Una pretesa che genera nel popolo diffidenza, se non proprio disprezzo, dal quale l'intellettuale può sottrarsi chiedendo protezione al tiranno al quale però deve concedere una parte della sua sovranità.
Il complesso di Gerone avrebbe potuto riscuotere un certo successo in una società in cui le esigenze della produzione fossero state temperate dalla naturale moderazione di un governo di saggi o di tecnocrati umanisti. Così non è mai stato nel trentennio in cui, mentre Strauss e Kojève si scambiavano considerazioni su Senofonte, l'industria fordista arrivava al suo apogeo, la guerra fredda colpiva e la lotta di classe era matura. E lo è ancora meno in una società come quella attuale che nutre disprezzo il lavoro intellettuale.
Il complesso di Gerone che Strauss e Kojève pensavano di avere imbrigliato nella vita privata del filosofo oggi si è riversato nelle piazze. La generalizzazione del cesarismo tra i tiranni, gli intellettuali e il popolo a cui assistiamo è la loro pena del contrappasso. Le prerogative che i filosofi pensavano di avere riservato a Simonide, nelle società del cesarismo avanzato assicurano il prestigio sociale. Con gli strumenti che garantiscono la persuasione, ma non la convinzione, ci viene detto che tutti, nessuno escluso, vorrebbero essere amati e farsi amare dal «pubblico»; incutere rispetto negli amici e nei nemici con la forza delle idee, l'importante è che siano le proprie; liquidare la penosa razza degli «specialisti» e degli «estremisti» e far coincidere il bene comune con quello personale.

In nome della moderazione
Rispetto a questa instancabile ricerca dell'unanimismo e della moderazione degli opposti, il timido impegno liberale che Strauss e Kojève profusero nel tentativo di garantire il conflitto tra il filosofo e la polis, tra gli intellettuali e il potere, sembra una lontana utopia sovversiva. Il primo pensava che il filosofo dovesse sottrarre la verità alla politica, mentre il secondo sperava di liquidare la filosofia per rendere eterno lo Stato. Ma ad uno sguardo meno influenzato dalle differenze di gusto che oppongono i liberal-conservatori al populismo contemporaneo, non è difficile scoprire ciò che accomuna il complesso di Gerone degli uni e degli altri. Poco importa, infatti, che per i liberali la verità sia nascosta agli occhi del popolo e dei tiranni mentre per i populisti essa è esposta agli sguardi di tutti. Per entrambi la verità è proprietà di qualcuno, degli intellettuali oppure del consenso.
Ciò che era intollerabile nella polis di Gerone, e resta intollerabile in quella dei nuovissimi Cesari, è che la verità non è quella privata o quella ufficiale, ma il risultato di un «esame di se stessi e degli altri»" che tutti possono intraprendere, non solo i filosofi e i tiranni. Socrate fu condannato per questo invito all'esercizio generalizzato dell'autonomia e della conoscenza e la sua venne interpretata come una sfida alle «repubbliche delle lettere» e alle «sette accademiche» esistenti nella polis. Tronisti di successo, o reticenti specialisti dell'anima, gli «intellettuali» non avranno pace fino a quando troveranno normale coltivare gli stessi desideri dei vecchi tiranni e di quelli nuovi.
«Il Manifesto» del 24 settembre 2010

Le quote rosa fanno male alle donne

di Alessandro De Nicola
Gli uomini prudenti, per paura di sembrare avversari del progresso, non scrivono mai articoli di questo genere e allora ho deciso di farlo io.
L'argomento sono le quote rosa nei consigli d0amministrazione. Pendono in parlamento varie proposte di legge tutte orientate in tal senso e questa settimana il commissario Ue alla giustizia, Viviane Reding, ha minacciato che se non ci saranno "progressi" anche l'Europa prenderà iniziative in tal senso. In precedenti discorsi la signora lussemburghese ha fatto capire di considerare il 40% una soglia ragionevole, la stessa in vigore da inizio 2006 per le società quotate norvegesi.
Il ragionamento alla base di tutto è che eguaglianza nei posti di lavoro vuol dire anche eguale rappresentanza e che senza l'autorità della legge il mondo maschile non fa spazio alle donne. E comunque, si sottolinea, le società con più rappresentanti del gentil sesso in consiglio hanno migliori performance.
Vediamo di capirci qualcosa. È vero che un maggior numero di signore aumenta l'efficienza? In Norvegia non sembra proprio. Nel primo semestre di quest'anno gli indici della borsa di Oslo sono stati negativi, con una performance peggiore di tutti i paesi scandinavi, piazzandosi 46ª sulle prime 56 borse mondiali. Negli anni precedenti, poi, Oslo si è distinta per un'aurea mediocritas (- 57% della capitalizzazione nel 2008 e + 30% nel 2009 in linea con la media mondiale e comunque peggio dei cugini scandinavi), ancor più strabiliante poiché la Norvegia, grazie al petrolio, ha avuto solo una mini-recessione e quindi un'economia molto più in salute degli altri paesi avanzati.
Gli studi che cercano di correlare presenza di donne nel board e qualità della prestazione della società non danno risultati univoci, ma anche quando la correlazione è positiva si tratta di scelte volontarie degli azionisti, non d'imposizioni del governo. Potendo scegliere, gli stessi consigli norvegesi a forte presenza femminile nominano come amministratori delegati nel 98% dei casi degli uomini.
È ozioso discutere se le donne fanno bene al bilancio della società; le manager brave sì, quelle scadenti o inadatte no. Sicuramente non sarà una qualunque burocrazia in grado di determinarlo. Avete mai visto la politica premiare il merito piuttosto che la convenienza elettorale? C'è un solo motivo, oltre la popolarità politically correct, per il quale si vuole forzare ciò che semmai sarà il frutto naturale dell'evoluzione dei costumi e della società? Quarant'anni fa le donne non potevano fare i magistrati, eppure oggi costituiscono più di metà degli ingressi. Anche avvocati e medici sono sempre più in rosa e stiamo parlando di professioni sofisticate e remunerative per le quali, evidentemente, l'esclusivismo maschilista non ha funzionato.
La quota rosa è controproducente sotto altri profili: fa considerare le signore prescelte delle semplici "raccomandate" e crea una piccola casta di "gonne dorate" come vengono chiamate in Norvegia. Essendoci poca scelta, la percentuale di manager rosa che siedono in più di 4 board è quadrupla rispetto a quella degli uomini.
Un conto è togliere le barriere legali e sociali che impediscono alle donne di scegliere una determinata carriera (e quindi aumentarne la libertà di scelta), un altro è che un qualche Leviatano stabilisca come, in che tempi e quale carriera esse debbano fare.
«Il Sole 24 Ore» del 26 settembre 2010

La coppia senza fine

Le
di Massimo Gramellini
Negli
Ieri Sandra Mondaini e Raimondo Vianello hanno finito di morire. Avevano cominciato cinque mesi fa, quando si era esaurito il polo maschile della coppia.
Da quel momento la conclusione era nota: nessuna pila può funzionare con un polo solo. La salute precaria dell'attrice ha accelerato l'opera di ricongiungimento, altrimenti dovremmo concludere che chi sopravvive al proprio coniuge non lo abbia amato davvero. Eppure molti di noi conservano nell'album di famiglia una storia simile. Nel mio c'è una nonna romagnola che comandava il marito a bacchetta ed era così anticonformista nei gesti e autonoma nei giudizi che quando il nonno se ne andò a poco più di sessant'anni, tutti pensarono che per lei sarebbe stato l'inizio di una seconda vita. Invece l'anno dopo lo aveva già raggiunto nel paradiso dei borbottoni. Evidentemente era quell'uomo a trasmetterle l'energia che le serviva per tiranneggiarlo, ma anche per amarlo con una purezza che di rado mi è poi capitato di riscontrare altrove.
Sandra e Raimondo - i veri divi televisivi non possiedono cognomi - hanno recitato a beneficio di un intero popolo la storia autentica dell'Amore Possibile, che non è mai un'emozione violenta e fuggevole, come nelle pubblicità, ma un sentimento lento, difficile, a tratti noioso («che barba che noia!») e però capace di creare una realtà nuova. Il Noi. Occorre fare chiarezza su questo punto, perché il romanticismo deteriore lo ha spolpato di senso. Creare il Noi di una coppia non significa distruggere i due Io che la compongono, annullandoli fino all'abbrutimento. Anzi, il Noi cresce e si fortifica solo in quelle unioni dove le individualità conservano intatta la loro forza. Il Noi non sostituisce gli Io. Li affianca. E' una terza entità autonoma e non va confusa neppure con i figli, tanto è vero che prospera in moltissime coppie sterili: Sandra e Raimondo ne sono una prova.
Gli amici dell'uno o dell'altro osservano il Noi dall'esterno e ne danno quasi sempre un giudizio negativo. Sembra loro che nella fusione i due Io ci abbiano rimesso troppo. Gli estimatori di Hillary Clinton, per esempio, considerano Billary (il Noi) una zeppa messa lì per rallentarle la vita. E quelli di Vianello imputavano a Sandra & Raimondo (il Noi) la mortificazione professionale dell'attore, destinato a diventare il Peter Sellers italiano se l'incontro con una donna che era l'esatto opposto della milanese radical-chic non ne avesse deviato il talento verso i facili denari della televisione berlusconiana. Ma è sbagliato giudicare il prossimo imprestandogli le proprie nevrosi. Se una coppia resiste nel tempo, specie in un tempo come questo governato dal demone della precarietà, significa che ha trovato un equilibrio sano. Ha sublimato le sue emozioni in sentimenti. Lungo le montagne russe della convivenza, quella coppia potrà litigare, tradire. Potrà persino lasciarsi. Ma non troppo a lungo e mai fino al punto di spezzare il cordino invisibile che la tiene insieme: il Noi che le tradizioni spirituali, religiose e no, indicano come il traguardo verso cui tendono naturalmente tutti gli esseri umani. Anche quando lo negano. Perché l'unità di Uomo non è l'uomo. E' la coppia. E nel loro piccolo, che poi tanto piccolo non è, gli sketch di Sandra & Raimondo saranno sempre lì a ricordarcelo.
«La Stampa» del 22 settembre 2010

L'apparenza non inganna

di Massimo Gramellini
Noi cultori della davantologia - convinti che la verità non si nasconda in un cassetto ma, come la lettera rubata di Edgar Allan Poe, sia in bella vista sulla scrivania - salutiamo con un ghigno di malcelata soddisfazione l’arresto dell’ex arbitro ecuadoriano Byron Moreno, pizzicato all’aeroporto di New York con sei chili di eroina nelle mutande. Quando Moreno apparve nella nostra vita, ai Mondiali coreani del 2002, ci bastò la sua faccia porcina via satellite per capire che avrebbe espulso Totti e annullato agli azzurri un gol regolare. Il resto fu una conseguenza inesorabile: la crociera-premio, l’improvvisa agiatezza culminata nel ripianamento di debiti ancestrali e nell’acquisto di una Chevrolet particolarmente sgargiante, i 12 minuti di recupero regalati alla squadra della città di cui intendeva diventare sindaco, l’ospitata triste in uno show di Raidue con Carmen Russo. E adesso le mutande strafatte. Uno così non poteva che finire così. O vi immaginavate di trovarlo in qualche baracca di Haiti a espiare i suoi peccati soccorrendo terremotati?
L’apparenza non inganna. Bisogna imparare a darle retta. Hitler, per dire, aveva già raccontato lo sterminio degli ebrei nel Mein Kampf. Troppo spesso mettiamo la sordina al nostro intuito infallibile per smarrirci fra le trappole della dietrologia. Invece le cose e le persone sono come appaiono. Quel politico, capufficio o aspirante fidanzato che vi sembra un bugiardo, mentre gli altri vi dicono che è un sognatore, fidatevi, novantanove volte su cento è un bugiardo. La centesima anche peggio.
«La Stampa» del 23 settembre 2010

Innamorarsi è l'occasione per conoscersi nel profondo

di Francesco Alberoni
La persona innamorata sopravvaluta il suo amato. Gli psicologi ci spiegano che vi proietta i suoi desideri, gli psicoanalisti ci dicono che ritorna bambina e vede in lui i genitori. Inoltre nell'innamoramento noi siamo ottimisti troviamo tutti più buoni e il mondo ci appare più colorato e luminoso. Ma l'innamoramento non è solo illusione, è anche conoscenza.
Noi conosciamo il nostro io più profondo solo attraverso un altro essere umano. Lo facciamo con i genitori nell'infanzia, poi nell'amicizia, ma soprattutto nell'innamoramento. Allora vogliamo sapere tutto del nostro amato, fino a voler essere stati al suo fianco, averlo amato ed essere stati ricambiati da sempre. Lo vediamo non solo com’è ora, ma come è stato da bambino, da giovane, ripercorriamo tutte le esperienze, anche i suoi amori. E lo stesso fa lui con noi.
Di lui perciò non conosciamo solo le nostre proiezioni. Ma anche le sue azioni, le sue qualità, le sue virtù, le sue debolezze, i suoi errori e le sue potenzialità nascoste, come un regista che vede già la stupenda attrice nella ragazza ancora rozza che ha davanti.
Questo straordinario processo di conoscenza è possibile solo a due condizioni. La prima è che ciascuno, nel raccontare la sua vita, dica la verità. Solo chi è sincero sul suo passato apre il suo cuore e il suo animo all'altro e può fondersi con lui senza perdere la propria identità. L'altra condizione è la libertà. Ciascuno deve esser libero di esprimere se stesso, di chiedere all'altro ciò che ci piace e dirgli ciò che non ci piace. L'innamoramento è una grande occasione per conoscere i propri desideri profondi senza farsi schiacciare da limiti, vincoli, tabù, abitudini che ci frenano. Molte persone però non hanno il coraggio di lasciar emergere il sé più profondo, si inibiscono, tacciono, mentono o mostrano solo gli aspetti che pensano possano piacere all'amato.
Invece è solo la continua progressiva conoscenza reciproca che fa durare l'amore. Perche l'essere umano ha mille volti, mille potenzialità e quando ci liberiamo dei freni e ci abbandoniamo fiduciosi le facciano sbocciare, per cui ogni incontro diventa nuovo e stupefacente. Paragonerei gli innamorati a due artisti che si fanno migliaia di fotografie cogliendo ogni volta immagini diverse del loro amato e di se stessi. Immagini che sono prodotti della loro fantasia ma, nello stesso tempo, reali. Questo è il conoscere dell'amore, così simile a quello dell'arte.
«Il Corriere della Sera» del 27 settembre 2010

26 settembre 2010

Fatta l'Italia, abbiamo fatto anche l'italiano?

L'alfabeto quotidiano
di Elisabetta Rasy
Nell’onda di notizie – tante, eterogenee, dal macabro al futile – che la cronaca ogni giorno ci butta addosso obbligandoci a un non facile esercizio di selezione, ogni tanto si creano delle associazioni contraddittorie o dei cortocircuiti: qualcosa, nel collegamento tra una notizia e l’altra, non funziona, c’è un contrasto. Mi è successo qualche giorno fa: in una pagina la buona notizia, una mostra speciale intitolata 'L’Italia dei libri', che sarà allestita al prossimo Salone di Torino in occasione dei centocinquant’anni dell’Unità e dedicata alla grande trasformazione della produzione editoriale nella nazione unita; qualche pagina più in là, invece, la cronaca di un grido di dolore: linguisti, pedagogisti e anche esperti di statistica denunciavano la scarsa o scarsissima padronanza della lingua italiana da parte delle giovani generazioni.
Quando, nel febbraio del 1861, si riunì il Parlamento della nuova nazione non bisognava soltanto «fare gli italiani», secondo la celebre espressione che da allora divenne un refrain della nostra storia unitaria. Bisognava anche «fare l’italiano», costruire cioè la lingua unita del nuovo Paese. Ma in questo ambito non si partiva dal vuoto: c’era un patrimonio linguistico nazionale che non aveva nulla da invidiare alle bellezze naturali e al retaggio artistico della nuova patria. Con un senso forte della tradizione (pensiamo a Italo Calvino che rilegge le fiabe italiane, a Giorgio Manganelli che rilegge Pinocchio) e, fino a un certo punto, con i nuovi mezzi di commercio e comunicazione quel patrimonio si è mantenuto e arricchito. Poi il boomerang – come altro chiamarlo? – cioè degrado, miseria, sciatteria, maleducazione verbale. Ma si sbaglierebbe a pensare che il lamento sullo stato della lingua sia il vezzo di una élite di puristi o di esteti dei quartieri alti del mondo culturale. Gli esperti che hanno valutato i temi degli studenti degli ultimi esami di maturità hanno soprattutto suonato l’allarme su un aspetto: non la sintassi, la grammatica, neppure il lessico – povero e incerto – ma l’incapacità di costruire e sostenere un ragionamento. Intonare una lingua significa infatti intonare un pensiero e anche intonare un’etica: per questo ha un senso celebrare i libri dell’Italia unita come parte essenziale del processo di integrazione nazionale. E per questo lasciare andare in rovina una lingua ha lo stesso effetto di devastazione che hanno l’incendio di un bosco, l’avvelenamento di un fiume o la rovina di un celebre monumento: non una questione puramente estetica, ma una questione umana e morale. Se la lingua che parliamo diventa qualcosa di simile a una discarica del vero italiano, in che razza di inquinamento vivranno le nostre menti?
Probabilmente – auspicabilmente – per i centocinquant’anni dell’unità d’Italia ci saranno altre manifestazioni dedicate al tema del patrimonio linguistico. È inutile prendersela sempre con la scuola o con gli insegnanti o con la tv, se istituzionalmente non si ha e non si manifesta l’orgoglio di una memoria e il senso di un pericolo da combattere. Speriamo dunque che celebrando la storia di questi centocinquant’anni si celebri anche e molto quella sua essenziale componente che è la lingua. E certamente la mostra al salone di Torino è fin da ora un buon segnale. A meno che. A meno che la parola anniversario non finisca con l’assumere quell’ambiguo senso che le attribuì una volta uno che di lingua se ne intendeva, il già citato Manganelli. «È possibile – scriveva nel 1974 (ora nel volume Adelphi Il rumore sottile della prosa) – che nel nostro bizzarro amore per i centenari si nasconda un che di simile al rimorso». Con timori anche peggiori, cioè che «quei periodici armistizi che sono i centenari» non finiscano col rappresentare soltanto «una sorta di compromesso» nei confronti di un passato concepito come «un tenebroso guardaroba colmo di oggetti mortificati e taciturni». E la nostra tradizione linguistica non assomiglia sempre di più a quel genere di guardaroba?/span>
«Avvenire» del 26 settembre 2010