08 luglio 2010

Ma questo silenzio non può dire tutto ciò che va detto

Domani la protesta della stampa
di Marco Tarquinio
Redazioni in sciopero. In Parlamento nuove ipotesi
Stare in silenzio per un giornale è sempre un controsenso. E anche se è vero che al­cuni silenzi sono inevitabili e altri possono di­mostrarsi 'parlanti', stavolta non so franca­mente immaginare che cosa riuscirà a dire l’evitabilissimo silenzio che a maggioranza i giornalisti italiani hanno deciso di autoim­porsi in polemica con la 'legge sulle inter­cettazioni' all’esame del Parlamento. Anche i giornalisti di Avvenire la pensano a mag­gioranza così e, ieri, ne abbiamo dato conto a pagina 2 . Io ho profondo rispetto per la lo­ro opinione e condivido molte delle preoc­cupazioni di quasi tutti coloro che nel nostro Paese si occupano di mass media. Ma ne ho qualcuna in più, e – per fortuna – non sono solo.
Ho già scritto e riscritto che fatico a protestare per norme che non mi piacciono e che spe­ro e voglio vengano giustamente ricalibrate, ma ritengo che la stretta di legge – ormai co­munque incombente – sia anche il pesante frutto di un modo sbagliato e guardone di fa­re giornalismo. Un modo che ad Avvenire ab­biamo cercato di contestare autoregolando­ci (prendendo cioè sul serio l’articolato co­dice etico che i giornalisti italiani si sono da­ti negli anni) e tenendoci lontani (proprio perché fedeli all’ispirazione di questa te­stata) da ogni tipo di conflitto di interessi. A cominciare da quello che nasce dal cozzo di due doveri: onorare il diritto dei cittadini a essere liberamente e a­deguatamente infor­mati e garantire a que­gli stessi cittadini uno sguardo sobrio e puli­to sulle azioni di giu­stizia.
Per questo, nell’era del 'grande orecchio', pur senza rinunciare a dar conto di tutto ciò che era davvero importante, non ci siamo mai avvolti in 'lenzuolate' di intercettazioni. E non ci siamo mai assolti a priori, dicendo a noi stessi e ai lettori che sono altri – in toga – a decidere nel momento in cui infilano car­te in un qualche faldone se certo materiale d’indagine sensibile (e, magari, penalmente irrilevante) merita di entrare o no in articoli e titoli di giornale. I giornali li fanno i gior­nalisti non i magistrati dell’accusa e nean­che gli avvocati difensori. Siamo noi a dare la caccia alle notizie e a noi tocca l’onere di decidere se certe notizie sono importanti e pubblicabili oppure sono carta straccia o, persino, polpette avvelenate. Avvenire, i no­stri lettori lo sanno, non ha mai giocato con polpette e veleni. Ma di piatti all’arsenico ne sono stati cucinati non pochi in questi anni, con e senza intercettazioni di contorno, e qualcuno è stato usato anche contro fior di galantuomini.
Ci sono regole che vengono prima della leg­ge, anche nel nostro lavoro. E il nostro im­pegno è e resterà quello di fare un’informa­zione libera e responsabile, con sereno ri­spetto della verità dei fatti e dell’essenziale azione contro reati e crimini svolta da ma­gistratura e forze dell’ordine, ma anche con acuta consapevolezza di quel principio di civiltà che è la «presunzione d’innocenza» e, prima ancora, della indiscutibile dignità delle persone che sono protagoniste di un qualunque evento di cronaca. Mai silenzi servili, mai processi mediatici a chicchessia, mai aggressioni casuali o – peggio – preme­ditate.
Non sono affatto convinto che il nostro si­lenzio di domani riuscirà a comunicare tut­to questo. E allora lo dico oggi. Ma dico an­che un’altra cosa che non riesce neppure ad affiorare nei fiumi di retorica fatti correre per difendere libertà di stampa e molteplicità di voci e accenti. L’insidia più grave, a mio giudizio, contro la libera stampa è rappresenta­ta oggi dall’agonia procurata di un gran nu­mero di testate giornalistiche, soprattutto (ma non solo) locali, soprattutto (ma non so­lo) d’ispirazione cattolica. Tre mesi fa, in un incredibile disinteresse, sono state colpite fe­rocemente e ingiustificatamente dalla deci­sione di cancellare le tariffe postali speciali. E in queste ore le Poste rigirano il coltello nel­la piaga. Se ci può essere un grido nel silen­zio di oggi, il mio è prima di tutto per questo.
«Avvenire» dell'8 luglio 2010

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