14 luglio 2010

La politica che non sa (o non vuole) contrastare il malumore dei cittadini

Dopo Gallli Della Loggia
di Michele Salvati
L'articolo di Ernesto Galli della Loggia «Un Paese senza politica» (Corriere, 7 luglio) intreccia due temi. Il primo ricorda il famoso libro di Oswald Spengler sul tramonto dell'Occidente, scritto subito dopo la prima guerra mondiale. «L'Occidente, l'Europa stessa stanno pian piano svanendo. E con loro svanisce la sensazione di forza, quasi di invincibilità, che per tanto tempo essi hanno incarnato»: questa frase è di Galli della Loggia, ma potrebbe essere di Spengler. Il secondo tema riguarda un piccolo pezzo di Occidente, l'Italia: come il tramonto si rifrange sul nostro bel Paese, sulla sua società e sulle sue istituzioni. Sono due temi diversi. Il primo riguarda gli esiti della straordinaria trasformazione nel regime economico e politico internazionale che gli Stati Uniti hanno provocato a partire dai primi Anni 80 del secolo scorso, smantellando il regime keynesiano dei trent'anni successivi alla seconda guerra mondiale - quelli che videro la grande crescita del reddito, dell'occupazione e del welfare state nei Paesi europei - e imponendo il regime neoliberale nel quale siamo vissuti sino ad oggi. Sono passati altri trent' anni. È in questo secondo periodo che il primato della crescita economica si è trasferito in altre parti del mondo, che tre miliardi e mezzo di persone si sono aggiunte al miliardo che ne aveva goduto nel trentennio precedente, che «compaiono nuovi giganti mondiali che però avvertiamo lontanissimi da noi, indifferenti ai nostri modi e alle nostre esigenze». Questo nuovo regime è in crisi aperta da più di due anni. Già durante il suo massimo sviluppo si era prodotto un peggioramento relativo nelle condizioni di vita dei lavoratori, c'era stata una «vittoria del capitale sul lavoro», come dice l'economista marxista Andrew Glyn, autore del più bel confronto tra i due trentenni, «Capitalismo scatenato», edito da Brioschi. Oggi, la crisi di quel regime peggiora ulteriormente le condizioni di precarietà e insicurezza di una buona parte della popolazione, la induce a pensare che i figli avranno un destino peggiore dei padri, che «è finita per sempre la speranza di un lavoro ragionevolmente sicuro nel tempo». Da qui insicurezza, sconforto, pessimismo. In misura maggiore o minore questo è l' umore di fondo di molti Paesi europei, accompagnato dalla consapevolezza che individualmente essi non sono in grado di opporsi alle grandi tendenze internazionali prima accennate, e che però neppure sono in grado di unirsi politicamente in uno slancio collettivo, in quell'Unione Europea che era stata il grande progetto del primo trentennio. Insomma prevale la sensazione che la politica nazionale, costretta dall'esterno, sia impotente. Come però osservavo, questo tramonto si rifrange in modo diverso sulle singole nazioni europee. A gestire il tramonto, negli altri Paesi, è lo stesso sistema politico che si era consolidato nel trentennio postbellico, laburisti e conservatori, socialdemocratici e democristiani: prevalgono di questi tempi i partiti conservatori e, quando le elezioni portano al potere le opposizioni, queste sono prigioniere dei vincoli economici e dell'egemonia culturale neoliberale imposti da questa fase politica. Da noi le cose sono andate diversamente, ed è questo il secondo tema di Galli della Loggia. Unico Paese europeo, il passaggio di fase ha anche coinciso con una rottura politica drammatica, con la scomparsa dei partiti che altrove si alternano al governo e all' opposizione, con l'emersione di nuovi soggetti sul lato destro dello schieramento politico, che sono riusciti rapidamente a imporre la loro egemonia politica e culturale. Al di là dei modi in cui ciò è avvenuto e del populismo usato in quantità massicce, anche nei ceti più consapevoli, anche in una parte delle nostre élite, questa piccola rivoluzione aveva suscitato la speranza che questa nuova destra riuscisse a dare quella scossa liberale di cui il nostro Paese ha bisogno per riprendere lo sviluppo. L' articolo che sto commentando registra con amarezza il crollo di questa speranza. Registra che, oltre ai vincoli esterni che imbrigliano le politiche nazionali, queste sono soprattutto frenate da vincoli interni, dall'incapacità dei governi di imporre alla società un disegno di riforme adeguate alla gravità della crisi. La sinistra è in affanno e dell'originario liberalismo berlusconiano non rimane traccia. La stessa idea che la politica possa «imporre» qualcosa - che possa esercitare una egemonia sulla società, oltre a proteggere gli interessi di chi governa - sembra appartenere alle illusioni del passato: egemonia è una parola da «comunisti». Si vincono le elezioni lisciando il pelo agli elettori, assecondandone le pulsioni, i pregiudizi, gli interessi immediati, non preannunciando riforme impopolari. Il guaio è che non si governa lisciando il pelo. Se è necessario si governa contropelo, contrastando lo spontaneo andamento di una società avviata al declino, anche al costo di compromettere l'immagine ottimistica con la quale si sono vinte le elezioni. Questo è difficile in ogni Paese. Sarebbe altrettanto difficile per la sinistra quanto lo è per la destra. È fisiologicamente impossibile per Berlusconi, grande uomo di campagne elettorali, ma non di governo.
«Corriere della Sera» del 10 luglio 2010

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