08 luglio 2010

La cricca dei critici ignora i buoni libri

Risposta di un editor al film di Andrea Cortellessa che mette alla berlina l’industria del bestseller: "Siete snob. E ciechi"
di Alice Di Stefano *
Il mio piccolo, limitato e personalissimo contributo alle polemiche (o «risse intellettualoidi») di questi giorni si giustifica, forse, in quanto frutto di riflessione di una persona che dall’università, dove insegnava letteratura contemporanea, è entrata a far parte - per vie strane, casuali, anche un po’ buffe - del turbinoso, capitalistico mondo dell’editoria. Quello che mi ha colpito, e molto, è stato notare come, in un documentario per lo più appuntato sull’edizione 2009 del premio Strega (Senza scrittori, di Andrea Cortellessa), la letterarietà, i meccanismi editoriali e il rapporto con la critica, proprio uno dei libri finalisti quella sera a Villa Giulia, caso letterario oltre che editoriale con 30mila copie vendute, vincitore del premio Campiello opera prima, con recensioni eccellenti e una rassegna stampa impressionante, non sia stato neanche nominato.
Parlo naturalmente e con il rischio di essere tacciata di faziosità (visto che l’autrice era mia madre) de L’ultima estate di Cesarina Vighy. Cosa è successo? Perché proprio chi io (forse ingenuamente) ritenevo in grado di apprezzare un testo del genere tace (e ha taciuto)? Perché si è fatto finta di niente concentrando l’attenzione - per poi denigrarli - sul duetto (e il teatrino inscenato da) Scarpa-Scurati (alias Pennacchi-Avallone)? La prima cosa che mi viene in mente è che il libro in questione, un romanzo fin troppo letterario ma pubblicato da un editore con una capacità limitata di voti allo Strega (che però non è minimum fax), non sia stato neanche aperto - non dico letto - altrimenti un accenno, una parola, sarebbe venuta naturale, anche per mero dovere di cronaca. Oppure, mi potrebbe sfiorare l’idea che il romanzo sia stato scambiato - sempre a scatola chiusa - per l’ennesimo libro-verità scritto in condizioni disperate da una persona malata, pubblicato solo grazie al legame con me (che in casa editrice sono responsabile della narrativa italiana) e quindi istintivamente da evitare perché noioso nonché «ricattatorio» (ho sentito anche questa), memoir privo di spessore nonché bieco parto di ingegnose trovate dell’ufficio comunicazione.
Come unica via d’uscita a questa alternativa posso pensare che nella torre d’avorio in cui c’è spazio solo per pochi e in cui spesso i libri non vengono recapitati gratis dagli uffici stampa (medi), proprio quel libro non sia mai arrivato, nessuno dei suoi fortunati abitanti si sia mai accorto della sua esistenza. Se è andata così, come penso, se la distrazione di chi è troppo concentrato su se stesso o sulla letteratura (quale?) che dir si voglia ha prevalso, se le categorie con cui si è guardato dall’esterno e con un’ottica parziale a un mondo brutto e cattivo come quello dell’editoria hanno impedito di cogliere la presenza di ciò che si ricercava da anni (qualità e sperimentazione), c’era pur sempre una seconda chance: si tratta, guarda caso, di Cesarina Vighy che prima di morire, pochi mesi fa, ha lasciato una grande testimonianza epistolare (genere tra l’altro non estraneo alla nostra letteratura) con il suo raffinato ed elegante Scendo. Buon proseguimento, testo inclassificabile, sicuro esempio di bello scrivere, che mescola in modo personale diario, conversazione, poesia, non solo per dire il proprio dolore, ma anche per parlare di argomenti universali.
L’anomalia di un libro del genere, però, non è stata colta o non ha interessato nessuno di coloro che quotidianamente rivendicano la mancanza di vera letteratura dichiarando a intervalli regolari la morte del romanzo. Che sia io ora a ricordare i due libri, questo no, non è elegante, ma lasciatemi fare il mio spot, che non è sempre una parolaccia. Sì perché sono qui a scrivere in maniera forse un po’ naîve, e con un piglio magari un po’ troppo severo, per l’esperienza felice ultimamente maturata in una casa editrice dinamica, vivace e slegata dai rigidi meccanismi descritti in questi giorni per bollare un sistema sì vizioso e avvitato su se stesso per quel che riguarda soprattutto la durata media di un libro, la sua promozione e distribuzione, l’egemonia dei grandi gruppi e delle librerie di catena, l’affannosa ricerca del best seller, ma ancora capace di offrire buona narrativa stando magari al passo con i movimenti culturali non così malridotti come sembra e paradossalmente invisibili proprio a chi si ritiene maggiormente in grado di coglierli.
Proprio chi dovrebbe difendere e aiutare, sostenendola, una letteratura per pochi, infatti, si chiude e si arrocca in cricche, cricchette, lobby, consorterie, gruppetti, ecc. spesso posti gli uni contro gli altri e alla fin fine ben allineati con pochi marchi editoriali (basta contare i voti allo Strega). In più, un editore in carne e ossa alla Valentino Bompiani mi ha fatto e mi fa giornalmente da esempio per un’editoria coraggiosa, florida seppure - vi assicuro - poco vincolata al budget, che si lancia, sperimenta, spazia da libri di 1000 pagine sulla poesia contemporanea (come quello pubblicato dallo stesso Cortellessa per Fazi, appunto) a libri come quelli di Stephenie Meyer.
Quando Elido (Fazi) mi esortò a lasciare l’università, secondo lui mondo chiuso, polveroso, anacronistico, fuori ormai da ogni logica di mercato, assolutamente incapace di giudicare i libri, mi opposi difendendo una categoria di studiosi dedita con coraggio alla salvaguardia delle buone lettere (e letture). Adesso, dopo aver conosciuto l’editoria dall’interno con tutta la sua filiera (che mi affascina e mi costringe ogni giorno a pensare bene a quello che scelgo avendo attenzione per i lettori) testimonio qui di un mondo divertente, allegro, pieno di persone entusiaste e fiere di ciò che fanno, un mondo soprattutto autentico, vivo, legato alla realtà. Ora che vedo le cose in maniera diversa, a esempio, il marketing mi sembra un gioco, un mezzo come un altro per far arrivare un libro buono al grande pubblico. Inoltre, sono contenta di essermi allontanata da un luogo frenato da un’ottica limitata e limitante, ferma a decenni fa, un ambiente caratterizzato da regole arcaiche, snob che, nella sua ottica illusoria, rischia di diventare discriminatorio oltre che senza senso.
Col proporre a Elido i libri di mia madre volevo provare soprattutto che la qualità (con l’aggravante, in più, del tema difficile e poco «vendibile» della malattia) non è sempre slegata dalla commerciabilità. L’esperimento è riuscito, mi sembra, anche senza l’appoggio di chi ritenevo capace e soprattutto voglioso di sostenere un’operazione del genere. Probabilmente, per qualcuno è meglio continuare a lamentarsi che agire tentando, magari dall’interno e con chi offre la possibilità di coniugare qualità e mercato, di cambiare il sistema.
* editor della narrativa Fazi
«Il Giornale» dell'8 luglio 2010

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