13 luglio 2010

Il riciclaggio dei docenti: da antisemiti a democratici

Molti professori «ariani» conservarono il posto, mentre ai colleghi israeliti non fu restituito. Il saggio Giorgio Israel ricostruisce le tortuosità e le contraddizioni con cui l' Italia si liberò delle leggi razziali
di Paolo Mieli
La fine del fascismo non segnò la fine della persecuzione degli ebrei
Nel 1998 Giorgio Israel e Pietro Nastasi scrissero un libro, Scienza e razza nell’Italia fascista (Il Mulino), nel quale puntavano l’indice contro la «clamorosa insufficienza della storiografia» nel campo degli studi sulle leggi razziali del 1938. Riconosciuto a Renzo De Felice il merito di aver intrapreso, già all’inizio degli anni Sessanta, lo scavo sull’argomento con la sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi), i due autori si applicavano a temi che erano stati successivamente solo sfiorati. Infatti fino agli anni Novanta la materia era stata a lungo disattesa - con qualche eccezione come i saggi di Roberto Finzi L’università italiana e le leggi antiebraiche (Editori Riuniti) e di Michele Sarfatti Gli ebrei negli anni del fascismo. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi) - e meritava perciò molti approfondimenti. Poi, nel decennio successivo, nuovi libri (e nuovi documenti) hanno proiettato sul tema ulteriori fasci di luce. È il caso - per citare solo alcuni - di L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane (Zamorani) di Annalisa Capristo; di Scienza e fascismo (Carocci) di Roberto Maiocchi; de L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (Il Mulino) di Marie-Anne Matard-Bonucci; dell’assai interessante Leggi del 1938 e cultura del razzismo a cura di Marina Beer, Anna Foa e Isabella Iannuzzi; e di alcuni saggi pubblicati su «Nuova Storia Contemporanea» da Paolo Simoncelli (sul suicidio di Tullio Terni) e da Eugenio Di Rienzo; oltre a uno assai importante di Tommaso Dell’Era su «Qualestoria». C’era di che tornare sull’argomento ed è quel che ha fatto Israel (stavolta senza Nastasi) con Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, edito anche questo dal Mulino.
Il nuovo libro si sofferma meritoriamente sulla tortuosità e le contraddizioni con cui l’Italia, dopo l’uscita di scena di Mussolini, si liberò delle famigerate leggi. Il fascismo cadde come è noto il 25 luglio del 1943, ma nessuno si preoccupò di chiudere in tempi brevi la stagione dell’antisemitismo di Stato. Lo notò già Piero Calamandrei in una pagina del suo diario agli inizi dell’agosto di quello stesso 1943. Il padre gesuita Pietro Tacchi Venturi, a nome della Segreteria di Stato vaticana, intervenne addirittura nei confronti del governo Badoglio per suggerire cautela nell’abrogazione di quelle leggi. Al ministro dell’Interno Umberto Ricci, Tacchi Venturi fece presente che «secondo i principi e la tradizione della Chiesa cattolica» quella legislazione aveva «bensì disposizioni che vanno abrogate», ma ne conteneva «pure altre meritevoli di conferma». Così il processo di abrogazione delle leggi razziali fu, secondo Israel, di una «lentezza esasperante» e si dovette attendere il 20 gennaio 1944 (!) per la promulgazione di un testo organico abrogativo. Un testo, peraltro, «sofferto e insufficiente». Tant’è che per regolare le eredità degli ebrei deceduti in seguito ad atti di persecuzione ci fu bisogno di un’apposita legge del maggio 1947. Per l’estensione alle vittime delle leggi del ‘38 dei provvedimenti già emanati per i perseguitati politici si dovette attendere addirittura una legge del 10 marzo 1955. Per una serie di riconoscimenti agli israeliti colpiti dalla Repubblica sociale italiana si aspettò l’11 gennaio del 1971, quando erano trascorsi oltre ventisette anni dalla seduta del Gran Consiglio che provocò la destituzione di Mussolini. È quindi evidente, sottolinea l’autore, che «la caduta del fascismo non segnò per gli ebrei italiani un trionfale reingresso nella comunità nazionale». È altresì indubitabile che per alcuni decenni la sensibilità pubblica nei confronti di quel che era stata la persecuzione antisemita in Europa - e nella fattispecie in Italia - fu piuttosto tenue. L’atmosfera, in quel periodo del dopoguerra, era molto diversa da come la si ricorda oggi. C’è una lettera (1 luglio 1946) del fisico Enrico Persico al suo amico e collega Franco Rasetti che merita di essere citata: «L’epurazione», scrive Persico, «come forse saprai, si è risolta in una burletta, e fascistoni e firmatari del manifesto della razza rientrano trionfalmente nelle università. Ma basta con questi disgustosi argomenti». Persico aveva ragione: tranne rarissime eccezioni, tutti i «fascistoni» che avevano avuto a che fare con le leggi razziali andavano «trionfalmente» a costituire il «nuovo» corpo accademico dell’Italia postfascista. Per contro in quello stesso dopoguerra i professori ebrei conobbero nuove difficoltà e il loro reinserimento fu assai problematico. Un caso per tutti quello del giurista Guido Tedeschi, che quando erano entrate in vigore le leggi razziali stava per passare da professore straordinario a professore ordinario nell’Università di Siena. Nel ‘38 Tedeschi riuscì a emigrare a Tel Aviv e quando nel ‘44 chiese di far ritorno nell’ateneo senese gli risposero che, siccome i tre anni di straordinariato dovevano essere continuativi, avrebbe dovuto ricominciare daccapo l’iter accademico senza che fossero tenuti in alcun conto i motivi per cui si era data un’interruzione della sua carriera universitaria. Tedeschi restò a Tel Aviv. Più grave fu il caso del biologo Tullio Terni, epurato nel ‘38, riammesso nel ‘45 ma subito sottoposto a nuovo processo di epurazione con l’accusa di essere stato fascista. Quando fu definitivamente reintegrato - non senza essere stato però radiato dall’Accademia dei Lincei - il massimo responsabile dell’ateneo di Padova, temendo le annunciate reazioni della cellula comunista universitaria, gli scrisse: «Come Rettore ti dico di venire, come uomo ti sconsiglio di farlo». Il 25 aprile 1946, nel primo anniversario della Liberazione, Terni si suicidò con una fiala di cianuro che aveva conservato per il caso in cui, da fuggiasco, fosse stato catturato dai nazisti.
Ma i tormenti che patirono Tedeschi, Terni e molti altri docenti ebrei non furono tali per gran parte dei professori che dal 1938 in poi li avevano (più o meno direttamente) perseguitati. Anzi. Nel clima che contrassegnò un lunghissimo periodo del dopoguerra si formò negli ambienti accademici e universitari un solido blocco a difesa delle personalità compromesse. E secondo Israel «quell’andazzo» perdura anche adesso, cosicché «è assai facile trovarsi di fronte a reazioni virulente per aver soltanto osato ricordare i trascorsi razzisti di alcuni maestri di cui ancora oggi gli allievi, o gli allievi degli allievi, coltivano un’adorazione intatta!». È il caso dell’importante demografo Corrado Gini (di cui ha scritto Francesco Cassata ne Il fascismo razionale, pubblicato da Carocci) che nel 1951, riferendosi ai docenti ebrei costretti a emigrare alla fine degli anni Trenta, li definì persone «che hanno avuto la fortuna di trovare al momento propizio un rifugio in America» e far valere lì dei meriti che non erano stati loro riconosciuti nelle università europee. Un’osservazione apparentemente asettica che però, osserva Israel, «lascia di sasso per il suo irridente cinismo». Stessa situazione quella della più importante allieva di Gini, Nora Federici, che nel 1941 aveva definito il razzismo come uno dei capisaldi della politica demografica, aderendo alle idee imperanti in quel momento, scrive Israel, assieme a «tutti i grandi nomi della demografia, da Marcello Boldrini a Paolo Fortunati, da Franco Savorgnan e Livio Livi». Per quel che riguarda Livio Livi, va ricordato che suo figlio, Massimo Livi Bacci, ha sempre sostenuto che suo padre non fosse razzista, nonostante avesse accettato, proprio al momento del varo delle leggi razziali, di far parte del Consiglio superiore per la demografia e la razza. Comunque dalla seconda metà degli anni Quaranta, prosegue Israel, «tutta la demografia si difese compattamente senza il minimo accenno di autocritica» ed «è sorprendente e triste constatare che dopo quel che era accaduto tra il 1938 e il 1945 non si affacciasse almeno un embrione di spirito critico a determinare qualche riflessione e un processo di revisione». Non solo. Alla morte di Nora Federici - nel 2001 - Massimo Livi Bacci si compiacque del fatto che, dopo la caduta del fascismo, non le fossero state fatte pagare «colpe che non erano sue». «Erano colpe sue, eccome se lo erano», è il commento di Israel.
Lo stesso accadde tra i matematici. Né a Francesco Severi né a Enrico Bompiani fu chiesta ragione dei loro comportamenti al momento dell’estromissione dall’università di Tullio Levi-Civita, di Federigo Enriques, di Guido Castelnuovo. Tra l’altro, chiosa l’autore, la permanenza dopo il ‘45 di personaggi come Severi e Bompiani nei posti di comando «non fu un bene anche dal punto di vista scientifico».
Uguale il discorso per quel che riguarda le scienze biologiche. Qui finiscono nel mirino Giuseppe Montalenti e, soprattutto, Alessandro Ghigi, autore di «uno dei più imbarazzanti testi del razzismo fascista»; l’Istituto nazionale per la fauna selvatica prende il suo nome «senza che mai nessuno si sia dato la pena quantomeno di ricordare i suoi trascorsi e di prenderne le distanze». E al riguardo Israel fa notare «la diversità di trattamento riservata a Giovanni Gentile, di cui tutto si può dire salvo che si fosse compromesso attivamente con le politiche razziali, al quale non si può addebitare alcuno scritto razzista, che fu eliminato con un’esecuzione sommaria e poi persino accusato di compromissione con il razzismo mentre nulla del genere è stato mai fatto nei confronti di personaggi ben più gravemente compromessi». Israel giudica scandaloso il caso del matematico Mauro Picone, che in una lettera del 1939 arrivò a scrivere: «Urge che gli scienziati di razza ariana collaborino il più attivamente possibile per mostrare come la scienza possa egualmente progredire anche senza l’intervento giudaico». Nel dopoguerra Picone la fece franca e poté evitare di fare ammenda. Nel 1946, in ricordo di Guido Fubini, ebbe la sfrontatezza di scagliarsi contro «gli stolti, infami provvedimenti razziali», da lui a suo tempo applauditi e ora definiti «eterna vergogna». Nel 1958, in un necrologio per Guido Ascoli, Picone ritenne opportuno tornare sull’argomento con queste parole: «La sua (di Ascoli, ndr) vita universitaria ebbe, purtroppo, dal 1938 al 1945, ben sette anni di dolorosa interruzione, a causa di quegli insensati provvedimenti razziali che privarono l’Italia, in quel lungo difficilissimo periodo, dell’opera preziosa di cittadini di altissimo valore morale, spirituale ed intellettuale». Incredibile. Ma il caso più scandaloso, sostiene l’autore, fu quello del fisiologo Sabato Visco, la cui vicenda, assieme a quella di Nicola Pende, mette in luce, secondo Israel, «il carattere ingiusto e scomposto con cui fu condotta la transizione dal fascismo al postfascismo». Invece «di assolvere i peccati minori o commessi da persone di scarso rilievo e facilmente ricattabili, vi fu una corsa all’assoluzione dei personaggi più in vista e tra questi dei più potenti, che spesso erano proprio i più compromessi». Una corsa in cui si distinsero i principali partiti dell’Italia democratica, compresi i comunisti: «Faceva premio su tutto l’esigenza di accaparrare alla propria parte politica personaggi ritenuti capaci di garantirle un’egemonia culturale e istituzionale». Sabato Visco non solo aveva fatto pubblica professione di razzismo, ma era stato capo dell’ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop, membro del Consiglio superiore della demografia e della razza ed era stato persino in predicato di divenire direttore de «La difesa della razza». Dopo il 25 luglio del ‘43, Visco fu il più lesto di tutti a cancellare le impronte che aveva lasciato nella stagione delle leggi razziali. C’è una lettera del 7 settembre 1943, scritta da Sergio Sergi, allora direttore dell’Istituto di antropologia dell’Università di Roma nonché fidato uomo di Visco, in cui si chiede che la documentazione dell’Ufficio razza (appena sciolto) sia trasferita nel suo Istituto, per «evitare la dispersione» di quel «preziosissimo materiale scientifico». «Non è malizioso supporre», commenta Israel, «che Sergi si fosse prestato a rendere un servizio al preside della sua Facoltà (Visco, ndr) recuperando quel materiale - prezioso dal punto di vista della storiografia del razzismo, più che da quello della scienza - che poi sparì, come inghiottito nel nulla». E, grazie a quella sparizione, proprio nel periodo in cui Terni si suicidava, Visco «riuscì non soltanto a tornare alla sua cattedra universitaria, ma a riprendere gran parte delle precedenti posizioni di potere, soprattutto quelle che gli stavano più a cuore e cioè di preside della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali e di direttore dell’Istituto nazionale della nutrizione». Con un riferimento indiretto alla vicenda padovana di Tullio Terni, l’autore ricorda che Visco «non trovò alcuna cellula comunista a diffidarlo minacciosamente dal rientrare nell’Università e non subì neppure le contestazioni riservate a Pende; eppure tutti sapevano chi fosse e che cosa aveva fatto». L’autore mostra di conoscere in dettaglio la vicenda. Probabilmente - ma di questo nel libro non parla - perché suo padre, Saul Israel, allievo prediletto del celebre fisiologo Giulio Fano, era stato indotto alle dimissioni in seguito alle battute antisemite di Visco. Giorgio Israel però ha il merito di trattare questo caso, che riguarda da vicino la storia della sua famiglia, in modo asciutto, non dissimile da quello adottato per le altre vicende di cui si è detto. A titolo di ipotesi si rileva che «sicuramente troppe persone - incluse quelle che avevano testimoniato in suo favore (di Visco, ndr) - erano sotto ricatto e, ove avessero tentato di prendere le distanze da lui, avrebbero visto messe in luce le loro responsabilità». E ci si sofferma sulla sua abilità nel trovare appoggi sia all’interno della Democrazia cristiana che del Partito comunista italiano. Per quel che riguarda il Pci si ricorda come in un dibattito parlamentare dell’ottobre del 1957 il comunista Mario Alicata facesse ricorso alla testimonianza «autorevole» di Visco per contrastare l’allora ministro della Pubblica istruzione Aldo Moro. Di passaggio Israel nota come anche Alicata avesse dei trascorsi fascisti, che attraverso l’esaltazione di Visco contribuiva a «seppellire». Nel 1952, ricorda Israel, Visco riuscì a ottenere una cospicua dotazione annua per la sua «mediocre creatura», l’Istituto della nutrizione, a spese del grande Giuseppe Levi «che non ebbe i fondi sufficienti a ricostituire un centro in cui sviluppare le sue ricerche che avevano già raggiunto elevati risultati di livello internazionale». Nell’ambiente accademico internazionale, soprattutto tra gli italiani, non si era comunque persa memoria di chi fosse davvero Visco. Così nel 1954 quando alla morte di Enrico Fermi egli inviò a nome della Facoltà di scienze dell’Università di Roma un messaggio di cordoglio alla vedova, fuggita dall’Italia proprio per le leggi razziali, Emilio Segrè scrisse a Enrico Persico: «Tra i telegrammi ce n’era uno della facoltà di Roma firmato da Visco; ti comunico che mentre si ringrazia la facoltà, si trova che il firmatario non è gradito e che avrebbe fatto meglio a non farsi ricordare». A questo punto l’autore del libro si pone una semplice, inevitabile, domanda: era «possibile che coloro che erano riusciti a conservare le loro posizioni o addirittura ad acquisirne di nuove, entrando a far parte della nuova classe dirigente "democratica" del Paese, e che avevano tanti scheletri da nascondere, potessero favorire in qualsiasi modo una memoria fedele di quanto era successo?». O non erano questi ed altri personaggi «piuttosto interessati a contrastare una ricostruzione storiografica corretta degli eventi di cui erano stati colpevoli protagonisti?». È chiaro che un tale genere di studi merita di non essere trascurato. E speriamo che tra qualche anno possa essere messa a disposizione dei cultori della memoria delle persecuzioni antiebraiche una nuova edizione, ancor più arricchita, di questo testo.
«Corriere della Sera» del 15 giugno 2010

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