16 luglio 2010

I forzati dei farmaci e il business delle cavie umane

Ogni anni 1500 volontari sani rispondono al richiamo delle case di produzione in Svizzera, Francia, Austria. Chiusi per quattro giorni, si sottopongono ai test delle medicine. Prendono fino a 1200 euro in contanti, esentasse. "E' come una vacanza, ti fanno gli esami gratis, con i soldi mi sono comprato la tavola da surf"
di Michele Bucci
Il corpo come un laboratorio, una pagina bianca su cui scrivere il nome delle medicine di domani. La pasticca buttata già con l'acqua e poi i prelievi, le provette, i saltelli dell'elettrocardiogramma. Le chiamano cavie umane, sono persone che non hanno paura di prendere per primi un farmaco sconosciuto, che accettano di restare chiuse in una clinica tre giorni, aspettando di capire se il loro organismo reagirà e come. Italiani che vanno all'estero, soprattutto in Svizzera: studenti di medicina di Milano e Varese, giovani disoccupati con troppo tempo libero, intere famiglie in difficoltà economica, persone dirette dai parenti in Germania che si fermano qualche giorno in clinica nel Ticino.
"Perché farlo? Per soldi". Chi c'è passato non ha dubbi: non è la prospettiva del progresso della medicina a motivare ma il denaro. Come spesso accade. La ricerca farmaceutica ha bisogno di loro, dei volontari sani. In questo settore di studio l'Italia è molto indietro: il quinto paese per consumo di farmaci al mondo, in Europa è tra gli ultimi come numero di ricerche svolte sui medicinali. Finisce che non contribuiamo a testare ciò che usiamo in grande quantità. Manca soprattutto la cosiddetta Fase 1, che serve a capire se un medicinale fa male. Anche i passaggi successivi degli studi in questo settore non sono molto diffusi da noi.
Esportiamo cavie. E allora per raccontare chi sono e a cosa servono questi volontari sani bisogna partire proprio dalla Svizzera. Ogni anno circa 750 italiani attraversano il confine con il Canton Ticino per fornire i corpi su cui sperimentare i farmaci delle multinazionali. Il numero va almeno raddoppiato se si tiene conto di chi si reca in Francia e in Austria, altri paesi che fanno molta Fase 1. Si arriva così a circa 1.500 forzati delle sperimentazioni che ogni anno espatriano. E negli altri paesi quanti sono i volontari sani che si sottopongono alle sperimentazioni? Molti di più, visto che gli studi sono assai più diffusi. Esiste anche un database online (volterys. it) dove centri di ricerca europei e cavie si possono incontrare. Al momento sono iscritte 41 mila persone, soprattutto francesi. Si tratta per la maggior parte di ventenni. Negli Usa si stima che ben 4 milioni di uomini e donne abbiano partecipato almeno ad una sperimentazione, ma in questo dato sono compresi anche malati.

"I MIEI GIORNI DA CAVIA"
Nel Ticino c'è un centro, di proprietà della Cross Research, che da solo conduce anche 25 studi su volontari sani ogni anno. Un'altra clinica privata nella stessa zona ne affronta 15. In una piccola regione d'Europa, da 300mila abitanti, si fanno almeno il quadruplo delle Fasi 1 su volontari sani di tutta Italia, meno di 10. "Una quota tra il 75 e l'80% di chi si presenta da noi proviene dal vostro paese", dice Giovan Maria Zanone, capo dell'Ufficio del farmacista cantonale e presidente del Comitato etico. Il compenso? Circa 250 euro al giorno. Più o meno un terzo dei nostri connazionali sono "clienti abituali" cioè ritornano con frequenza variabile.
Andrea (il nome vero non lo vuole dire) ha 30 anni e lavora come giardiniere. Vive nella provincia di Varese ed è stato due volte in Ticino a fare la cavia. Glielo hanno consigliato alcuni amici, giovani della sua zona, di Como, piemontesi che partecipano anche a tre sperimentazioni in un anno, il numero massimo a cui ci si può sottoporre. "Sono stato a maggio dell'anno scorso - racconta Andrea - Prima ero andato quattro anni fa. L'ultima volta abbiamo sperimentato un sale. Quattro giorni e quattro notti. Mi hanno dato circa 1.200 euro". Pagamento? In contanti. "Sì, i soldi te li consegnano subito. La prima volta ho preso i 550 euro per due giorni e mi sono comprato la tavola da surf". Il protocollo da seguire durante il ricovero è ben definito. "Devi bere almeno 2 litri d'acqua al giorno, non si può fumare né bere il caffè. Ci facevano prelievi a intervalli regolari, prendevano la pressione e il battito cardiaco". Il centro svizzero è pulitissimo. "È tenuto molto bene, non è grande, il personale è professionale e simpatico. Ti fanno sentire a tuo agio. Non si può mai uscire dalla struttura, una volta lo permettevano ma ci sono stati problemi con persone che prendevano i farmaci e andavano a dormire a casa. Ci sono stanze da due, tre, cinque e sette letti".
La prima volta Andrea ha provato un gastroprotettore. "Tra l'altro ti fanno tutti gli esami gratis. Io comunque non ho avuto problemi di salute con i farmaci sperimentati. La seconda volta sono andato perché ero inserito nel loro database e sono stato chiamato. L'ho preso come un periodo di vacanza dal lavoro, quattro giorni di relax in clinica: si dorme, perché ti mandano a letto presto, si fanno giochi di società. Io ho sempre incontrato solo italiani. Ci sono soprattutto persone fino ai 40 anni. Una volta c'erano due sorelle sessantenni simpaticissime. E poi si instaurano bei rapporti anche con chi lavora lì. Ti aiutano, quando ti prelevano il sangue non ti fanno male". Ma a fare questa vita, anche per pochi giorni, ci si sente davvero come una cavia? "Certo, la prima cosa che dici è: vado a far la cavia in Svizzera. Quando sei lì poi ti rendi conto che lo hai voluto tu. Perché ti stanno dando dei soldi". Va bene, ma anche l'idea di dare un contributo per la nascita di un farmaco che può aiutare dei malati dovrebbe essere di stimolo. "Uno ci va per i soldi. Almeno secondo me. Non credo proprio che ci siano persone che dicono: aiuto a sperimentare, se non mi pagano non fa niente". Andrea rifarebbe il volontario, come i suoi amici. "Sì, sì. Se mi chiamano e posso liberarmi ci torno".

I TEMPI PER PRODURRE UN FARMACO
Senza quelli come Andrea, sui nostri comodini non ci sarebbero le pasticche per l'emicrania o il mal di stomaco. Ma perché un farmaco arrivi in casa nostra il viaggio dura molto di più di quei pochi giorni trascorsi dalle cavie nelle cliniche svizzere, inglesi, tedesche. Si parte dall'invenzione del principio attivo in laboratorio, poi viene avviata la sperimentazione sugli animali. Se tutto fila liscio si passa all'uomo. Arrivati a questo punto le aziende farmaceutiche non possono ancora cantare vittoria e iniziare a pensare agli enormi incassi che faranno: solo una molecola su sei arriverà in fondo alla sperimentazione. Le altre cinque saranno scartate perché identiche a prodotti già in commercio o inefficaci. La Fase 1 riguarda poche persone, tra venti e quaranta e difficilmente costa più di un milione di euro alle industrie farmaceutiche. È molto delicata, chiarisce subito se quel farmaco fa male. Si fa su persone sane o su malati, prevalentemente oncologici. I primi percepiscono un compenso come rimborso spese, i secondi no, ma è facile comprendere cosa li spinga a prestare il loro corpo alla ricerca. In molti casi si fanno studi di bioequivalenza, cioè su vecchi principi attivi che devono passare una nuova verifica per finire sul mercato come generici. Dalla Fase 2 si iniziano ad arruolare più persone, e ci vogliono i malati perché si inizia a valutare se la medicina funziona. Quando si arriva in fondo alla Fase 4 e si presenta il dossier con la richiesta per l'autorizzazione all'Emea, l'agenzia europea per i medicinali, possono essere passati anche 10 anni dal momento in cui ricercatori hanno individuato la molecola. Quanto costa mettere un nuovo farmaco sul mercato? Oltre 1 miliardo di euro. Parte di quei soldi vanno ai centri di ricerca, in Italia sono pochi ma solo pubblici. All'estero sono prevalentemente privati.

VOLONTARI MA PAGATI, ECCO I RISCHI
Il loro ruolo è il più delicato di tutto il percorso di produzione delle medicine. Il tema dei volontari sani è spinoso, a partire dalla questione del compenso. Lo chiamano rimborso spese quasi ovunque, nessun paese occidentale vuole che sembri una retribuzione eppure in Svizzera, ad esempio, quei soldi vengono tassati, al 10%. Nei paesi anglosassoni i cosiddetti volontari si possono reclutare anche con annunci sui giornali, cosa da noi impensabile. Lavoro o contributo alla scienza che sia, non è a rischio zero. Proprio in Inghilterra nel 2006 c'è stato un episodio inquietante: quattro persone sane che si erano sottoposte alla sperimentazione di un anticorpo monoclonale sono finite all'ospedale in gravi condizioni.
Gli incidenti avvengono. Talvolta sono gravi, spesso provocano solo pochi danni ai volontari. Si capisce perché le industrie non ci tengano troppo a pubblicizzarli. Dopo aver investito molti milioni di euro e aver lavorato anni per mettere una nuova molecola sul mercato, dover bloccare tutto e perdere l'investimento alle multinazionali non piace. Per questo servono forti agenzie di controllo statali, per questo le nuove frontiere della sperimentazione come Cina, India, paesi dell'Europa dell'Est mettono paura. Talvolta i loro centri di ricerca non danno certezze sui protocolli adottati.
"Da noi in una decina d'anni di sperimentazioni di Fase 1 ci sono stati 16 o 17 eventi avversi - dice il capo della farmaceutica svizzera Zanone - Solo un caso è stato grave, una ragazza a cui sono venuti calcoli biliari. È stata operata a spese della clinica dove aveva fatto il test". Marco Scatigna, direttore medico e scientifico di Sanofi Aventis Italia spiega che ormai le sperimentazioni sono sicure. "I protocolli sono stringenti, i problemi sempre più rari. E anche i controlli per evitare che le persone partecipino a più studi trasformando il volontariato in lavoro sono più attenti". In rete ci sono blogger statunitensi che raccontano della loro vita in giro per gli Usa, a sperimentare farmaci. "È una cosa del passato - dice sempre Scatigna - Non può più succedere perché gli archivi dei centri di ricerca sono in rete e devono passare un certo numero di mesi tra due studi a cui si partecipa". Si chiama periodo di "wash out" e in Svizzera è di 3 mesi, in altri paesi europei di 4 e in Italia di 6.

L'ITALIA INDIETRO NELLA RICERCA
Come altri settori della ricerca, anche quello farmaceutico è rimasto fermo a lungo nel nostro paese, forse in maniera irreparabile. Secondo il registro dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), l'unica autorità nazionale europea che pubblica i dati ogni anno, nel 2008 si sono fatti 46 studi di Fase 1, prevalentemente su malati oncologici. Meno di 10 hanno riguardato volontari sani. Se si tiene conto anche delle Fasi 2, 3 e 4, che coinvolgono molte più persone, di solito affette dalla patologia che si vuol curare, il numero sale a 850. Sempre molto basso. Paesi come l'Inghilterra e la Germania, o comunque nordeuropei, superano abbondantemente i 200 studi di Fase 1 sui volontari ogni anno. La piccola Svizzera ne fa circa 150.
I centri che da noi conducono il primo passo della sperimentazione sull'uomo sono pochi: Verona, Chieti, Cagliari, Pisa, Catania e presto anche Sacco e San Raffaele di Milano. Quello più importante per quanto riguarda i volontari sani sta all'ospedale di Verona ed è diretto da Stefano Milleri. Perché nel nostro paese la ricerca farmaceutica è rimasta così indietro? "Scontiamo il fatto che l'Università italiana ha sempre puntato sulla ricerca di base preclinica - dice il ricercatore - Abbiamo meno strumenti. Basta considerare che un centro come il nostro, tra i più grandi in Italia, ha 14 letti, contro i 24 del più piccolo inglese o tedesco, dove normalmente i posti sono 60. Dobbiamo muoverci se non vogliamo perdere l'ultimo treno. Sono già partiti a fare Fase 1 paesi come India o Cina, la cui sicurezza dei protocolli lascia molti dubbi". Secondo qualcuno potrebbero esserci anche questioni di bioetica dietro il rallentamento di questo tipo di ricerca, che riguarda persone sane. "Forse ci sono anche quelle, ma secondo me ha pesato molto l'impostazione della nostra Università. Comunque da noi i controlli sono rigorosi. A Verona facciamo a tutti i volontari test della personalità per capire cosa li spinge a prestarsi alla sperimentazione. Non vogliamo persone motivate dai soldi. Quanto denaro gli diamo? Viene deciso insieme al comitato etico. Di solito circa 200 euro al giorno come mancato guadagno, partendo dal presupposto che chi viene in clinica non può fare nient'altro".
«La Repubblica» del 16 luglio 2010

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