13 luglio 2010

Ende: «Ma la mia Fantàsia non è apolitica»

di Michael Ende
Di fatto è la cosa più facile del mondo, esattamente come giocare con un bambino a cucinare pasticcini di sabbia, si tratta di un gioco del «come se»: se l’adulto chiede al bambino di provare ad assaggiarne uno, questi verosimilmente si soffermerà su qualche particolare riguardante il sapore e così l’altro dovrà fare «come se» aggiungesse del sale o dello zucchero nell’impasto o magari anche un paio di uvette. In questo modo l’adulto diviene parte del gioco e il bambino prende il tutto assolutamente sul serio. Nel momento in cui però l’adulto si mettesse in bocca un pasticcino di sabbia, il bambino si metterebbe a ridere dicendo: «Ma che fai? Mica puoi mangiarlo. È di sabbia!». È un procedimento simile a quanto accade a teatro. Nel nostro caso il bambino non fa alcuna fatica a tenere assolutamente distinti i due piani.
Invece l’adulto di oggi che ha completamente disimparato a giocare e non sa prendere sul serio il gioco tende a confonderli. Con quello dell’immaginario poi gli si presentano i problemi più grossi, quelli che per il bambino assolutamente non si pongono. Costui infatti sa salire al livello dell’immaginazione con un tale senso di pienezza da dimenticare temporaneamente la realtà esterna senza però mai confondere i due piani. È solo l’adulto privo di fantasia che crede di dovere preservare il bambino dal rischio di confonderli, perché in realtà è proprio lui a non sapere più comprendere la realtà «altra» della fantasia [...]. Il fatto che la gente sia diventata così cerebrale e che non riesca a tenere più distinti i piani è uno degli aspetti più inquietanti del nostro secolo. La realtà umana è costituita da molti livelli, ma le teste piatte non vogliono ammetterlo, perché ammetterlo significa riconoscere di dover avere a che fare all’occorrenza anche con quelli più bassi. Durante la mia vita dei sapientoni dello stesso genere mi hanno continuamente rimproverato di essere un autore apolitico. Per loro letteratura apolitica equivaleva a letteratura d’evasione, a una forma di art pour l’art, a un’attitudine all’escapismo. Ultimamente qualcuno ha notato che in questa semplificazione qualcosa non funziona, dato che gran parte della gente che ha manifestato per la pace di recente a Bonn portava sottobraccio Momo o La storia infinita. E questo è davvero un bel rompicapo. Su una rivista un certo dottor Kuby ha espresso in seguito a questo avvenimento forti preoccupazioni per il futuro della Germania. In realtà, per lo stesso motivo, dovrebbe averne anche per molti altri Paesi, dove con i miei libri si è verificato qualcosa di simile. Il fatto è che negli ultimi trent’anni e forse anche prima – e mi riferisco qui a prima del nazismo – si è consolidata da noi l’idea che uno scrittore o un artista politico sia un autore nelle cui opere debba comparire qualche elemento che ha a che fare direttamente con la politica. Io mi sono spesso scagliato contro questa insulsaggine. Basta solo chiedersi quale significato abbia ad esempio il quadro I girasoli di Van Gogh che stando ad una simile concezione dell’arte sarebbe «socialmente irrilevante». Al di là dei girasoli non c’è nient’altro su quella tela, eppure quel quadro in Europa ha presumibilmente cambiato le coscienze più di quanto non abbiano fatto tutti i manifesti contro la guerra in Vietnam messi insieme. Non è facile far capire ai sapientoni che un mutamento della coscienza generale può essere generato da un quadro.
Van Gogh ci ha donato un nuovo modo di vedere, un nuovo concetto di bellezza e conseguentemente anche nuovi contenuti e nuove forme per la nostra coscienza. Chi ha un orizzonte di pensiero ristretto non arriva lontano abbastanza da comprendere che tutto ciò, anche se attraverso una mediazione, sfocia anche in nuove forme politiche, in nuove forme di vita comune, in nuove forme in cui si distingue ciò che è umano da ciò che è disumano. La relazione tra cultura e politica viene percepita dalla nostra intelligentia come un qualcosa «o così o così». E invece tra questi due territori ci sono ben altre regioni. Io sono dell’opinione che se vogliono adempiere davvero a una funzione politica, arte e letteratura devono parlare di cose diverse rispetto a contenuti immediatamente politici.
Arte e letteratura devono creare forme e contenuti per le coscienze che successivamente attraverso l’agire degli uomini si concretizzano anche politicamente. Non voglio dire con questo che nell’arte e nella letteratura non debba esserci per forza nulla di politico. Anche questa sarebbe una semplificazione. Molte opere teatrali di Shakespeare trattano di politica, o romanzi come Guerra e pace o i quadri di George Grosz. Ma l’arte o la poesia sono il tutto, perché qualcosa di molto più universale sta alloro centro: l’umano. Questo è un concetto che rimane vuoto se non viene ininterrottamente riformulato.
L’uomo deve da se stesso darsi una forma perché non la possiede una volta per sempre come l’animale. La coscienza generale di un popolo non è data dalla natura, ma è questione di sviluppo storico, è un dato di cultura che viene creato dagli uomini. Nelle forme politiche e nelle aspirazioni politiche si riflette questa coscienza e lì assume una conformazione sociale anche se non è quello il suo luogo d’origine.
Davvero la scrittura è «impegnata» solo se parla esplicitamente di contenuti sociali?
Dall’autore de «La storia infinita» un secco «No!» «Se vogliono sul serio 'fare politica', arte e letteratura non devono avere temi immediatamente politici: il loro obiettivo è invece creare forme e contenuti per le coscienze che poi, attraverso l’agire degli uomini, si concretizzano»
«Avvenire» del 13 luglio 2010

Nessun commento:

Posta un commento