28 luglio 2010

Eighties, la sostenibile leggerezza della creatività

Sono il decennio più etichettato e sbertucciato del secolo. Ma sotto la buccia dei luoghi comuni c'è molta polpa
di Luigi Mascheroni
Dicono lo yuppismo, il riflusso, il disimpegno, il rampantismo. Dicono l’edonismo, l’individualismo, il culto dell’apparire, il cinismo. Dicono di tutto sugli anni Ottanta, il decennio più vituperato e sottovalutato del nostro Novecento: l’età di plastica, la società del Drive In, il craxismo della «Milano da bere».
Certo, furono anni di illusioni, di egoismi, di frivolezze. Un’epoca che ebbe come miti l’avido e amorale Gordon Gekko di Wall Street (1987) e l’arido e anaffettivo Richard Gere di American Gigolò (1980). Ecco, allora, la filosofia degli anni Ottanta nell’immaginario collettivo: fare soldi senza costruire nulla, fare sesso senza amare nessuno. Un decennio di «passaggio», che per sfortuna non ha lasciato tracce nella Storia. Ma anche un decennio rivoluzionario, che per fortuna non ha lasciato morti sulle strade. Almeno dicono.
Eppure gli anni Ottanta, così miseramente asettici (secondo molti) nel campo della politica e dell’«azione», furono straordinariamente esplosivi in quelli della creatività e della fantasia, un momento di svolta segnato dalla molteplicità dei linguaggi e dalla ricchezza dei mezzi espressivi: anni trasgressivi, irriverenti, divertenti, «leggeri». Nella moda, nella musica, nel cinema, nella televisione, nell’arte, nel design. E nella letteratura. Dove, non a caso, per la prima volta si suggerì il valore della «leggerezza» in senso calviniano (le Lezioni americane escono, postume, nel 1988) e si impose il fenomeno del «minimalismo» in senso carveriano (la raccolta di racconti Cattedrale - libro culto del decennio - appare negli Stati Uniti nel 1983, l’anno successivo in Italia): e così, quasi per caso, scopriamo che il decennio diventato ingiustamente famoso per il suo look eccentrico ed eccessivo fu proprio quello in cui silenziosamente si lavorò con più disciplina - come mai era accaduto prima - nel levigare e «semplificare», riducendola all’essenziale, la scrittura. Per raccontare (e capire) il mondo non servono «grandi» parole.
Il decennio condannato per l’insopportabile inconsistenza dell’apparire intuì perfettamente l’insostenibile leggerezza dell’essere. Pacifici senza essere pacifisti, pieni di idee senza essere ideologici, ricchi senza essere cafoni, movimentati senza essere rivoluzionari, addirittura romantici - anzi new romantic - senza essere mielosi, gli anni Ottanta furono invero inguaribilmente ottimisti e «progressisti».
Un decennio così tanto moderno che tutto ciò che venne «dopo» fu definito «post-moderno», qualsiasi cosa l’espressione significhi. Anzi: un lungo Week-end post-moderno, come titolò le sue «Cronache dagli anni Ottanta», chiudendo il decennio che aveva aperto con Altri libertini (1980), l’autore-icona dei favolosi Eighties all’italiana: Pier Vittorio Tondelli (1955-91), fratello maggiore (ora amato ora odiato, sempre invidiato, comunque imitato) di tutti i successivi narratori Under 25, e spesso persino over. Anche se si è soliti indicare la pubblicazione - e il grande successo nazionale e internazionale - del romanzo di Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore (uscito nel 1979) e soprattutto del megaseller Il nome della rosa di Umberto Eco (1980) come gli eventi-spartiacque che inaugurano una nuova stagione per la letteratura italiana, in realtà fu proprio Tondelli a tracciare il solco più profondo fra il «vecchio» e il «nuovo», condensando in se stesso e nella sua opera quella che si dice la poetica dell’intera decade. Pensiamoci bene: lo scrittore di Correggio è un outsider, in tutti i sensi, che scrive e riflette nella diffidenza e nell’estraneità della cultura ufficiale, al di là e al di fuori di qualsiasi manifesto programmatico, esterno a ogni gruppo o scuola, senza aver bisogno di maestri e senza per forza dover lasciare degli allievi, con così tanti modelli (e così trasversali) da non sceglierne né imporne nessuno, tanto coraggioso da mettere al bando ogni sperimentalismo per riguadagnare il massimo grado di leggibilità della lingua parlata. E capace di rappresentare sulla pagina i sentimenti come davvero li si provano, il sesso come davvero lo si fa, gli amici come davvero sono, la musica come la si sente e la vita come davvero la si vive. Non è più (neo)realismo. Semplicemente, concretamente, l’esperienza quotidiana del reale.
E dietro, o accanto, e persino davanti a Pier Vittorio Tondelli, ecco avanzare in ordine sparso lungo il decennio dell’anti-avanguardia i «nuovi» narratori solitari, sui quali decide di puntare l’editoria nazionale (fino a quel momento abituata fin troppo bene a vivere di rendita, traducendo a man bassa dalla letteratura europea e latino-americana soprattutto): ecco il coltissimo, epico, iperrealistico Aldo Busi, ecco il riflessivo, raffinatissimo, evocativo Daniele Del Giudice, ecco il calviniano, «leggerissimo», sentimentale Andrea De Carlo, ecco il «minimale», misterioso, metafisico Antonio Tabucchi, ecco il riservato, «provinciale», filosofico Gianni Celati... Il tutto mentre, appartati, i grandi vecchi della poesia - Caproni, Sereni, Luzi... - iniziano a ricapitolare i punti fermi dei loro (capo)lavori.
Un critico ha scritto: «Estranei a ideologie letterarie, a scuole e a correnti, i narratori degli anni Ottanta hanno tutti la convinzione di non appartenere a una tradizione, di non avere maestri nel romanzo italiano del Novecento e di ripartire, per un aggiornamento del discorso letterario, quasi da un punto zero». Anzi, verrebbe da dire - vista la tabula rasa lasciata dietro di sé da una certa avanguardia e dagli incendiari anni Settanta - da «meno di zero». Less than Zero.
E intanto dagli Stati Uniti muovono verso di noi, la provincia dell’Impero, vecchi giganti del romanzo e nuovi mostri di scrittura: Philip Roth, Don DeLillo, Saul Bellow (John Fante ci metterà un po’ di più ad attraversare l’oceano...); Bret Easton Ellis, David Leavitt, Jay McInerney... Le mille luci dell’America, che si riverberano anche sulle nostre città, sulle nostre province, sui nostri quartieri. Gli Ottanta sono il primo decennio in cui non esistono più distanze, né frontiere, né gradi di separazione tra le due sponde dell’Atlantico, il primo decennio in cui il mondo diventa più piccolo, pronto per connettersi alla Rete... Sta nascendo una nuova parola: globalizzazione. Quello di Berlino non è l’unico muro abbattuto negli anni Ottanta.
Sì, è vero. Da noi si leggeva Lara Cardella, si proclamava Sposerò Simon Le Bon, si ascoltava Marina Ripa di Meana raccontare I miei primi quarant’anni. Però si traducevano anche Thomas Bernhard e il Vasilij Grossman di Vita e destino (il libro più importante del decennio?), c’era ancora spazio per l’ultimo Parise e l’ultimo Sciascia, ma pure per scrittori «non-allineati» come Cancogni, Pomilio e Sgorlon, c’è tempo per la seconda prova di D’Arrigo, esplode il fenomeno-tormentone Kundera... L’alto e il basso. Il plebeo e il savant.
Del resto gli anni ’80 che dal punto di vista sociale furono l’apoteosi della modernizzazione (la nascita del virtuale, la tv 24 ore su 24, un canale televisivo ciascuno, il videoregistratore per dare forma a una memoria frammentata, un bancomat per pagare senza soldi, le lampade per essere abbronzati a pezzi e ricchi integrali, il walkman per portarsi la libertà della musica in testa e soprattutto la rivoluzione digitale che dal Commodore 64 ci avrebbe teletrasportato all’iPad), dal punto di vista creativo furono disordinati. Un momento unico in cui è potuto accadere, a suggello di dieci fantastici anni di citazionismo e contaminazioni culturali, che Roberto d’Agostino e Federico Zeri scrivessero un libro insieme, per di più intitolato Sbucciando piselli: un ex disc-jockey passato alla televisione in veste di lookologo accanto a un sapiente dal talento leonardesco capace di passare con disinvoltura da Caravaggio alla fenomenologia delle barzellette. Questione di stile. Virtù che in quegli anni abbondò.
«Il Giornale» del 28 luglio 2010

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