03 luglio 2010

E la vera medicina parlò tedesco

Camici bianche netti contro l'eutanasia
di Gian Luigi Gigli
Nella nostra società il medico corre il rischio di diventare mero esecutore di volontà altrui. Ma non sempre, e non necessariamente, tutti si adeguano: soprassalti valoriali e deontologici riemergono potentemente dal profondo dell’ethos professionale. È appena accaduto in Germania, a seguito della sentenza con la quale la Corte federale di giustizia (l’equivalente della nostra Corte Costituzionale) ha assolto nei giorni scorsi il legale che aveva incoraggiato la figlia di una paziente a staccare l’alimentazione che teneva in vita la madre. Sarà per i sensi di colpa che si riattivano quando vengono richiamati alla memoria i fantasmi storici dell’eutanasia – e ciò è tanto più vero in Germania –, ma è un fatto che per giustificare la sua decisione la Corte ha dovuto arrampicarsi sugli specchi ricorrendo a improbabili distinzioni tra eutanasia attiva e passiva. In realtà, l’intenzione era solo quella di accelerare la morte della paziente: si sarebbe dunque dovuto parlare semmai di eutanasia 'omissiva'. Alla base della decisione giudiziaria vi è invece, ancora una volta, una concezione estensiva e illimitata del diritto all’autodeterminazione del paziente. Peraltro, come già nel caso Englaro, non sembra vi fossero a disposizione dichiarazioni scritte ma solo una presunta manifestazione verbale di volontà, riferita dalla figlia. In questa situazione estremamente confusa, una parola di chiarezza è arrivata dai medici tedeschi. Sia la Marburger Bund (il sindacato ospedaliero) che la Federazione nazionale degli ordini dei medici hanno invitato a non dare per scontata l’equazione tra stato vegetativo e presunta volontà di morire da parte dei pazienti in quelle condizioni. I medici hanno anche ribadito l’assoluta preminenza del mantenimento in vita quando la volontà del paziente non possa essere accertata in modo inequivocabile, auspicando il pieno rispetto del diritto alle cure migliori anche per i pazienti con disturbi prolungati di coscienza. Infine, hanno invitato a mantenere netta la distinzione tra morte su richiesta e accompagnamento alla morte con cure palliative, sottolineando il dovere di assicurare queste ultime. Un simile orientamento culturale è testimoniato, nella pratica, dall’atteggiamento del personale cui era affidata la donna, che morì per altre cause dopo che le erano state ripristinate l’idratazione e la nutrizione interrotte dalla figlia. In Italia si è voluto invece che la vicenda di Eluana si concludesse per mano dei sanitari, nel tentativo di cambiare per sempre la fisionomia stessa della professione medica e delle istituzioni che la rappresentano. Una bella differenza di approccio.
Se nel nostro Paese affiorasse un nuovo caso emblematico, con ogni probabilità ben poche sarebbero le speranze di un esito diverso da quello consumatosi a Udine diciassette mesi fa, malgrado il documento del Comitato nazionale di bioetica del dicembre 2005 e la recente ratifica, da parte italiana, della Convenzione Onu sui disabili.
Per questo motivo è fondamentale che si concluda l’iter parlamentare del disegno di legge sulle disposizioni anticipate di trattamento nel rispetto dell’impianto uscito dal Senato oltre un anno fa.
Opportuno sarebbe anche un nitido pronunciamento della Corte Costituzionale, tale da riconoscere che il diritto all’autodeterminazione in sanità non può avere valore assoluto, come affermano anche i medici tedeschi. L’idratazione e la nutrizione, infatti, sono necessarie a ogni uomo, sia esso sano o gravemente disabile a causa di uno stato vegetativo. Riconoscere il diritto a interrompere l’alimentazione significherebbe ammettere l’esistenza di un inesistente diritto al suicidio. Tanto più se per sospendere la nutrizione è richiesto un intervento di altri soggetti, camici bianchi in primis: sarebbe omicidio del consenziente, sul quale il nostro Codice penale è tutt’altro che tenero. I medici tedeschi ci mostrano che fermare questa deriva si può e si deve.
«Avvenire» del 3 luglio 2010

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