22 giugno 2010

Test Invalsi: insegnanti sotto esame

di Andrea Gavosto
La scorsa settimana le prove Invalsi di italiano e matematica sono entrate a far parte dell’esame di terza media. Dopo le sperimentazioni degli anni passati, per la prima volta in tutte le scuole e a pieno titolo: i risultati delle prove contribuiscono, infatti, all’esito finale.
Dal 2012 ciò avverrà anche per l’esame di maturità, come ha annunciato il ministro Gelmini.
Si tratta di un passaggio e di un segnale importanti per la scuola italiana. Le stesse prove vengono, infatti, proposte a tutti i ragazzi in contemporanea e la loro struttura permette valutazioni standardizzate, cioè, confrontabili in modo ragionevolmente oggettivo. È quindi possibile valutare i risultati di una singola classe all’interno della scuola, di un singolo istituto all’interno di un territorio, di una singola regione all’interno del Paese. In un’Italia in cui i divari territoriali negli apprendimenti sono drammatici, conoscere i punti di debolezza del sistema è il primo passo per correggerli.
Per una volta, tutto bene, dunque? Quasi.
Nel momento in cui le prove Invalsi diventano la consuetudine in tutte le scuole e in diversi snodi cruciali del percorso scolastico, è necessario garantirne l’effettiva oggettività e confrontabilità. Sappiamo dagli esperimenti passati che talvolta gli insegnanti - di nuovo, in maniera diversa a seconda dell’area geografica - tendono a aiutare i ragazzi, falsando così gli esiti delle prove standardizzate. Rafforzare il controllo esterno è necessario, anche se comporta costi non indifferenti.
Inoltre, la reazione a caldo alle prove Invalsi per la terza media è stata di preoccupazione per la loro difficoltà. Se, da che mondo è mondo, questo è normale per gli studenti, lo è meno che la protesta sia venuta da molti insegnanti. E mette in luce un difetto della nostra scuola o, meglio, un’incomprensione: i test sono stati interpretati come la misura di ciò che i ragazzi avevano studiato e si è sovente sentito dire che il contenuto dei test «non era nei programmi». O, peggio, si sono prese le prove Invalsi un po’ come i quiz per la patente, nei quali bisogna sapere che si dà la precedenza a destra, che il motore ha quattro cilindri ecc. Questo strabismo è testimoniato indirettamente dall’immediato proliferare di un mercato delle ripetizioni e di pubblicazioni in stile Bignami, le une e le altre orientate al superamento dei test.
In realtà non è così. La valutazione delle conoscenze specifiche acquisite nel ciclo di studi e la loro aderenza ai programmi svolti spetta alle altre prove di esame. Se si guarda, invece, alle prove Invalsi, disponibili sul sito www.invalsi.it e in parte pubblicate dai quotidiani, si vede come la grande maggioranza dei quesiti richieda la comprensione di un testo oppure la capacità di analizzare e risolvere un problema, spesso formulato nei termini della vita quotidiana (ad esempio, sapere leggere un grafico su un giornale). Per affrontarli con successo servono, dunque, null’altro se non una buona conoscenza delle regole base dell’italiano e dei rudimenti dell’algebra e della geometria, ciò che ci si dovrebbe potere attendere dopo otto anni o più di scuola. Ma, prima di tutto, serve un minimo di capacità logica. Spesso, infatti, le risposte sono - letteralmente - già contenute nelle domande: basta leggerle con attenzione e, appunto, ragionarvi sopra. Ma forse è proprio ciò che la scuola non abitua i nostri ragazzi a fare, limitandosi a un’accumulazione di nozioni, che - parafrasando il filosofo - senza il ragionamento sono «cieche». Fra l’altro, la capacità di comprendere un testo o un problema è tanto più importante oggi, in quanto Internet induce nei ragazzi una lettura veloce, superficiale, approssimativa. Un limite che i loro insegnanti dovrebbero sapere correggere. Se così avverrà, se in futuro e con una maggiore abitudine le lamentele lasceranno il campo a un ripensamento delle priorità dell’insegnamento, le «difficili» prove Invalsi avranno favorito una non piccola rivoluzione scolastica.
*Direttore Fondazione Giovanni Agnelli

«La Stampa» del 22 giugno 2010

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