25 giugno 2010

Sull’Ararat alla ricerca dell’Arca (e di se stessi)

di Luigi Mascheroni
A-ra-rat. Una parola magica, e una montagna misteriosa. I turchi la chiamano Agri Dagi, i curdi Agirî, gli armeni, per i quali rappresenta la «casa spirituale», Masis. Alta 5.165 metri, si erge nella Turchia orientale, in una terra che storicamente fa parte dell’Armenia. Da millenni punto di incontro fra la placca continentale eurasiatica e quella arabica, da secoli linea di frattura tra Islam e Cristianesimo, e per cinquant’anni, durante la guerra fredda, «frontiera di roccia» tra la democrazia occidentale e il comunismo sovietico, l’Ararat è da sempre al centro di mondi che cozzano uno contro l’altro. È di tutti, e di nessuno.
Sull’Ararat - la «Montagna Madre», il «Luogo creato da Dio» - si sono arrampicati esploratori, avventurieri, uomini di chiesa e uomini di scienza, archeologi e arca-ologi, monaci, pellegrini, biologi, spie, vulcanologi, astronauti. Qualcuno cercava prove dell’esistenza di Dio, qualcun altro dell’esistenza dell’uomo, altri ancora dell’esistenza di se stessi. Tutti alla ricerca di risposte che sembrano irraggiungibili, come la vetta della montagna - sulla quale l’Arca si arenò dopo il Diluvio universale - eternamente coperta dalle nuvole e dal mito.
Ora a riprendere il filo di tutte le domande, senza pretendere risposte ma anzi seminando la sua personale ascesa spirituale di molti dubbi necessari, è Frank Westerman, olandese di Emmen, 46anni, giornalista freelance: studi scientifici alle spalle, inviato per anni a Belgrado e poi dal 1997 al 2002 corrispondente da Mosca, nel 2005 ha deciso di salire sulla montagna, scendendone con un bellissimo romanzo-reportage nello zaino: Ararat (Iperborea), presentato oggi al festival LetterAltura, la manifestazione cultuale dedicata alla montagna ideata quattro anni fa da Lorenzo Scandroglio nella cittadina di Verbania, sul Lago Maggiore.
A metà tra il diario di viaggio e il saggio storico-antropologico, in parte guida spirituale e in parte manuale scientifico, il libro di Westerman nasce come «indagine» sui risultati delle discipline fisico-matematiche che hanno trasformato l’Ararat in un laboratorio naturale e sui racconti mitologici che ne fanno un imponente custode di storie fantastiche. Ma con il volgere delle pagine Ararat diventa qualcosa di più: una riflessione sui grandi temi che agitano le coscienze di tutti noi, come il rapporto fra Fede e Scienza; e sui conflitti politici e religiosi che scuotono quella zona cruciale del pianeta, come la questione armena o l’incontro-scontro fra cristiani e musulmani.
Sono molte e inquietanti le figure che attraversano il libro, percorrendo le vie dell’Ararat: dal mitico «Noè mesopotamico» Gilgamesh al medico tedesco Friedrich Parrott, che nel 1829 dopo una scalata al monte scriveva che «tutti gli Armeni sono fermamente convinti che l’Arca resti tuttora sulla cima della montagna e che, allo scopo di preservarla, nessun essere umano è autorizzato ad avvicinarsi»; dagli scienziati che ancora in pieno Ottocento sostenevano la teoria del Diluvio universale all’astronauta americano James Irwin che dopo aver camminato sulla Luna guidò negli anni Ottanta ben sei spedizioni alla ricerca dell’Arca; fino allo scrittore turco Orhan Pamuk, che nel 2002 ambientò il suo romanzo Neve a Kars, alle pendici dell’Ararat, un tempo prosperosa città commerciale e oggi avamposto dell’integralismo islamico.
Sorta di «Giobbe al contrario», come si definisce lui stesso, cresciuto leggendo le Sacre Scritture ma abituato a non metterle mai al di sopra della ragione, Westerman sale sulla “Montagna del Dolore” alla ricerca delle prove della inesistenza di Dio - «La fede comincia là dove si smette di fare domande. E questo non è proprio il tuo forte», gli fa notare la moglie prima di partire - e ne scende senza certezze religiose, ma neppure scientifiche. Sull’Ararat l’Arca forse non c’è. Ma al di sopra delle sue nevi eterne qualcosa di indefinibile, probabilmente sì.
«Il Giornale» del 25 giugno 2010

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