27 giugno 2010

Mounier: il ’900 e il tradimento degli intellettuali

«Molti, sotto il pretesto della 'purezza' e della 'autonomia dello spirito', fuggono semplicemente il loro dovere di individui in un mondo in angoscia Io diffido di questo gruppo di astensionisti, 'apolitici' di ogni specie: vi sono tra essi troppi disertori» L’ultima intervista del pensatore cattolico francese, di cui ricorrono i 60 anni della morte
di Emmanuel Mounier a colloquio con Hübert de Ranke
Emmanuel Mounier, che ha concesso a «Cronache Sociali» questa intervista, raccolta da Hübert de Ranke, è nato a Grenoble nel 1905. Fondatore della rivista «Esprit» (1932) insieme a un gruppo di giovani intellettuali, Mounier approfondì in quegli anni la dottrina oggi conosciuta sotto il nome di «personalismo ». È del 1936 il suo libro più noto: «Le manifeste au service du personnalisme», ormai tradotto in sette lingue. Nel 1940, dopo la disfatta della Francia, «Esprit» continuò a pubblicare alcuni fascicoli in zona non occupata, ma il Governo di Vichy la vietò nel 1941 come espressione dell’«Opposizione intellettuale». Arrestato nel 1942, Mounier passò l’anno in diverse prigioni: più tardi, liberato e quindi nuovamente ricercato, si unì ai gruppi della Resistenza armata. Dopo la Liberazione, «Esprit» ha ripreso le pubblicazioni.
Poiché l’eco delle ricerche spirituali di oggi giunge spesso deformata al di là delle frontiere, e ciò che muore si distingue spesso con difficoltà da ciò che nasce, vorrebbe darmi una veduta di insieme sul clima spirituale della Francia del 1949, specialmente per quel che concerne la gioventù?
«Lei mi interroga senza dubbio sulla gioventù intellettuale. Non bisogna mai dimenticare la triste condizione che dappertutto divide la gioventù in due mondi: una gioventù imprigionata nelle necessità della vita e che non ha altra possibilità che cercare di farsi, attraverso il lavoro, il posto migliore che a lei sia permesso; e una gioventù intellettuale che si pone dei problemi.
Quest’ultima tenta di pensare per tutti, ma non lo può: le sue condizioni di vita in parte la isolano e non sempre la pongono al centro dei problemi comuni.
Così, spesso, la sua voce non è che parzialmente rappresentativa. Se metto da parte l’internazionale degli indifferenti e dei realisti, di quelli per i quali l’optimum del successo individuale è il solo significato della commedia della vita, distinguerei tre gruppi nella gioventù intellettuale francese: i gratuiti, gli stoici e i credenti. Ci si libera un po’ troppo presto dei primi dicendo che essi scelgono l’evasione, la fuga.
Non si mette in luce che l’aspetto più superficiale di questo gruppo; bisogna invece scoprirvi un movimento più profondo. Dopo il 1930, intellettuali, scrittori e artisti si sono accorti di una certa frattura fra le loro attività e i grandi drammi del mondo contemporaneo. Da quel momento, già molto prima della guerra, noi ci siamo messi a parlare su Esprit di un engagement, di un impegno necessario. Dopo la Liberazione, Sartre ha ripreso il tema. Ma esso comincia a stancare nella misura in cui è rimasto, troppo spesso, un tema verbale senza effetti pratici, e d’altro canto ha fornito il pretesto a irreggimentazioni in cui l’intellettuale abdicava ogni dignità. È in reazione a questo abuso che le nuove generazioni sentono talvolta il bisogno di ritrovare il mondo dell’arte pura, del pensiero disinteressato, della letteratura senza arrières pensées : donde il grande successo della pittura detta 'astratta', il tentativo di ripresa del 'surrealismo' e il declino di quelli che son stati chiamati i 'poeti della Resistenza'».

La spiegazione di questa reazione, non sarebbe il bisogno di proteggersi da un mondo che sembra di giorno in giorno sempre più oppressivo?
«Sì e no. Il dramma dell’epoca, trasposto, penetra in queste regioni apparentemente eteree. Crede lei che le figure slegate di Picasso non esprimano, allo stesso modo che le allucinanti fotografie dei campi di concentramento, l’ossessione e lo scherno di un mondo che irride il volto dell’uomo? E la resistenza del nostro pittore al 'realismo', il suo provvisorio rifiuto della forma immediatamente visibile, simile a una fuga, traduce forse un atteggiamento di rispettosa discrezione davanti al mondo che nasce, un rifiuto di molestare la sua creazione con il già­visto.
Ma solo una indiscutibile potenza creativa giustifica questo ritratto dello spirito; molti, che non sono che dei consumatori di cultura, sotto il pretesto della 'purezza', della 'autonomia dello spirito', della 'fedeltà all’Eterno', fuggono semplicemente il loro dovere di uomini in un mondo in angoscia. Io diffido di questo ultimo gruppo di astensionisti, 'apolitici' di ogni specie: vi sono tra essi troppi disertori».

E chi chiama lei «stoici»?
«Io penso a Sartre e agli esistenzialisti della sua scuola (bisogna mettere completamente a parte gli esistenzialisti cristiani; accade che il loro esistenzialismo tolga qualche peso al loro cristianesimo, ma il loro cristianesimo dà molti pesi al loro esistenzialismo). Il mondo, per essi, ha perduto ogni significato. Ma essi hanno una certa disperata aristocrazia del cuore. Essi cercano allora, nell’universale assurdità, una filosofia o più esattamente una morale e una pratica che abbiano del vigore. Li si considera come dei demoralizzatori. Ma non è affatto questa la questione. La loro filosofia senza speranza demoralizza, in effetti, nel senso che essa mina tutti i sostegni tradizionali della vita morale; ma solo una piccola frazione tra di essi – i Boris Vian, i Jean Genet – si compiace nel gettare l’avvilimento e la derisione su questo volto disperato dell’uomo. I più si esercitano (come Sartre in questo momento) a creare una 'morale del rischio'. Soltanto ci si domanda su che cosa essi possono fondarla, se non su una decisione arbitraria, che potrebbe con tutta tranquillità orientarsi altrimenti. Non dimentichiamo che è lo stesso genere di disperazione che ha spinto la gioventù tedesca all’ubriachezza nazional­socialista. Se non vi è niente di costante nell’uomo, niente di irriducibile, niente di sacro, dove passerà e chi dirà qual è la frontiera dell’inumano?».

Quelli che lei chiama i credenti sarebbero dunque quelli che non sono soddisfatti né del solo gioco dello spirito né del solo coraggio della disperazione, ma che hanno fede in un destino razionale e orientato, e ben orientato anche?
«Sì, e la fede nell’uomo si polarizza oggi in due termini contrapposti, e quasi soltanto in questi: il comunista e il cristiano. Al di fuori non vi è che mera opinione, umorismo, ironia, salvo dei piccoli gruppi molto isolati anche se vigorosi, vestigia di antiche grandi famiglie di spiriti in via di scomparsa.
Non dico, d’altro canto, che questa situazione sia definitiva, e io auspico per mio conto la rinascita, al loro posto tradizionale, di altre famiglie umanistiche. Ma in questo momento, soli, Comunismo e Cristianesimo rappresentano, specialmente presso di noi, la speranza degli uomini. Il primo, soprattutto attraverso i suoi elementi giovani, tenta di riagganciare la vecchia tradizione operaia francese, e di scongiurare il destino che ha fatto dell’Urss il primo Paese socialista. È certo che molti dei giovani francesi che hanno partecipato al movimento della Resistenza o rientrati dai campi di concentramento sono andati al comunismo non come a un conformismo ma con la volontà di rinnovarlo. Quanto al cristianesimo, esso è, presso le nostre élites, in piena vitalità. Da gran tempo non si erano avute tante iniziative di pensiero e di struttura per riconsiderare la situazione del cristianesimo nel mondo e i problemi completamente nuovi che si pongono adesso».

Il Cristianesimo e il Comunismo sembrano essere due metafisiche incompatibili. Si può pensare a un contatto tra quelli che lei chiama i «due gruppi di credenti»?
«Come stanno le cose, io non ne vedo la possibilità. La Chiesa ha proprio ora ricordato ai 'cristiani progressisti' sparsi nei diversi Paesi, specialmente in Francia e in Italia, che la confusione non aiuta in nulla questi problemi. Ma non vi è da disperare che dei cristiani possano riprendere eroicamente la direzione del movimento di emancipazione e di giustizia sociale: e ciò cambierebbe molte prospettive».


Già molto prima della guerra, ci siamo messi a parlare su «Esprit» di un «engagement», di un impegno necessario per gli uomini di cultura Dopo la Liberazione, Sartre ha ripreso il tema. Ma esso comincia a stancare nella misura in cui è rimasto, troppo spesso, senza effetti pratici e d’altro canto ha fornito il pretesto a irreggimentazioni in cui si abdicava a ogni dignità


Non è appunto questo ciò che lei persegue, specialmente attraverso la rivista «Esprit» e attraverso la dottrina personalista?

«Sì, con questa riserva però, che strettamente applicata alla situazione francese, noi facciamo collaborare a Esprit cristiani e noncristiani. Il marxismo ci ha spinto a riconoscere che da due secoli lo 'spirituale' ha disertato i problemi materiali e si è legato alla conservazione delle conquiste borghesi dell’89, che esso aveva prima contrastate. La borghesia francese è stata materialista e voltairiana fino al 1848, anche sotto la Restaurazione e in clima di Santa Alleanza. Essa si è convertita, metà ad un cristianesimo più o meno formale, metà ad uno spiritualismo senza consistenza, per paura del socialismo. Lo spirituale, e specialmente lo spirituale cristiano, non escono ingranditi da questa utilizzazione. Noi abbiamo cominciato col proclamare la 'rottura dello spirituale e del reazionario' che per certuni è la 'rottura dell’ordine cristiano e del disordine stabilito' e noi ci siamo impegnati a esplorare in tutte le sue esigenze materiali e istituzionali la crisi del mondo contemporaneo.
Bisognerebbe rinnovare il punto a partire dal quale Marx e Kierkegaard si son divisi, rompendo nella sua chiave di volta la rivoluzione socratica del XIX secolo. Sforzo rivoluzionario, ma anche sforzo di tradizione, perché si tratta spesso, inventando, di ricongiungere delle grandi tradizioni al di là del bivio in cui esse hanno deviato».

Crede dunque lei al destino liberatore dell’Umanità?
«Sì, e a un significato della storia, non definito sin dall’inizio in una fatalità senza ricorsi o anche in una Provvidenza inflessibile, ma proposto alle nostre volontà libere, e che spinge lentamente con esse la ruota degli eventi. Ci è necessario però ritrovare il volto dell’uomo e un senso ai suoi gesti. Io direi volentieri che si tratta di costruire l’universo della libertà attraverso il dominio di sé. La prima delle due clausole integra l’immenso sforzo dell’uomo sulla materia e la natura attraverso il lavoro e la sua forma moderna: la tecnica. In un recente libro io denuncio 'la piccola paura del XX secolo' che si oppone alla scienza, alla tecnica, al mondo del lavoro, per una semplice pigrizia dell’immaginazione. Ma il genio europeo non ha ancora pensato sufficientemente al dominio di sé, che preoccupa invece così fortemente l’Oriente, e la sua opera non sarà vitale se esso non sviluppa un pari sforzo da questa parte. È così che, senza rifiutare lo sviluppo materiale e 'socialista' del mondo, noi faremo che esso non torni a un’altra forma di oppressione dell’uomo sull’uomo».

Se io ben comprendo, il personalismo non è dunque solo una reazione di difesa contro il mondo moderno? Esso ha anche un atteggiamento positivo nei suoi confronti?
«Non è un ottimismo come quello dei due ultimi secoli. La condizione umana è una condizione drammatica e dibattuta, sempre esposta e precaria nelle sue conquiste. Denis de Rougemont ama parlare di un 'pessimismo attivo'. Io definirei piuttosto il personalismo come un 'ottimismo tragico'. L’umanità ha un senso e progredisce: l’idea del progresso è un’idea cristiana; ma essa non progredisce come una fiaba di fate; il fallimento è spesso la sua caratteristica, a breve scadenza, per potere, a lunga scadenza, riuscire. Noi non troveremo salvezza, in ogni caso, in ritorni nostalgici e in miti di ricostruzione, ma nella presenza in questo mondo come è, nella invenzione del mondo dal volto rinnovato che deve essere. Le cose eterne trovano da sole la loro eternità: preoccupiamoci di assicurare la loro presenza ».

Vede lei un rapporto tra queste idee e la missione dell’Europa?
«Io non amo che si leghi troppo strettamente un’idea a un territorio. Il 'pensiero occidentale', il 'pensiero europeo' è ben difficile e pericoloso da definire. Il Cristianesimo europeo ha la sua matrice in Palestina. L’Urss segue una Germania formata a Parigi e a Londra. Io penso solo che tra un comunismo, il cui centro di gravità si sposta sempre più verso l’Asia, e una tecnocrazia filantropica di volta in volta nuova, ingenua e brutale come gli Stati Uniti d’America, l’Europa ha un grande compito di ispiratrice da giocare. Essa non deve formare un terzo mondo, ripiegato su se stesso, ma un legame e una sorgente di vita. Essa può ed essa deve far sì che Usa e Urss non si scontrino in una guerra micidiale, ma nemmeno che si congiungano – altro pericolo di cui si parla meno – in una spietata tecnocrazia, in cui sarebbe distrutta la sostanza preziosa di più generazioni».

Scorge lei, in Italia, delle forze che le sembrano lavorare in questa direzione?
«Ciò che ci colpisce in Italia, in questo periodo in cui l’ideologia cristallizza tutte le posizioni, è la fluidità che il genio italiano conserva di fronte agli atteggiamenti e alle idee. Ciò che rappresentano un Vittorini o un Gramsci, lo sforzo lucido benché limitato del vecchio Partito d’Azione, possono essere il germe di un rinnovamento della sinistra tradizionale. Noi speriamo anche che i cattolici italiani, benché vincolati da una situazione diversa da quella dei cattolici francesi, sapranno trovare la maniera di affermare e di vivere il loro cattolicesimo nell’indipendenza da tutti i partiti politici».

Per gli esistenzialisti il mondo ha perduto ogni significato, ma essi hanno una certa disperata aristocrazia del cuore; cercano nell’universale assurdità una pratica che abbia del vigore La loro filosofia senza speranza demoralizza, in effetti, ma i più si esercitano a creare una 'morale del rischio'; solo ci si domanda su che cosa possono fondarla È la stessa disperazione che spinse i giovani tedeschi al nazismo

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IL FONDATORE DEL PERSONALISMO
«Noi siamo il partito dello spirito prima essere il partito della rivoluzione». In questo «primato dello spirituale» sul materiale – sancito per iscritto nel numero di dicembre 1932 della rivista Esprit , da lui fondata in quello stesso anno– c’è molto del pensiero di Emmanuel Mounier, il fondatore del pensiero personalismo, alternativo sia al comunismo, sia al liberalismo individualista sia ad una visione cattolica troppo tradizionalista. Nato nel 1905 (data simbolo in Francia, anno della legge sulla separazione tra Stato e Chiesa) a Grenoble, Mounier è stato allievo del filosofo Jacques Chevalier.
Entrato nel 1927 alla Sorbona, costituì negli anni Venti un fecondo sodalizio intellettuale con il teologo Jean Danielou (poi cardinale) e quindi con il pensatore Jacques Maritain, che gli fece pubblicare i suoi libri nella casa editrice Plon, di cui l’autore di «Umanesimo integrale» era direttore. Nel 1941, con l’inizio dell’occupazione nazista in Francia, Esprit venne soppressa dal regime collaborazionista di Vichy. In seguito la rivista riprese le pubblicazioni nel 1945. I testi fondamentali di Mounier restano Che cos’è il personalismo? (Einaudi), Il personalismo ( Ave), Lettere sul dolore. Uno sguardo sul mistero della sofferenza (Bur) nonchè Cristianesimo e rivoluzione (La Nuova Italia).
Di Mounier ultimamente sono usciti diverse riscoperte editoriali su tematiche specifiche e attuali. Si ricordano i due testi editi da Città Aperta, La paura dell’artificiale. Progresso, catastrofe, angoscia e I cristiani e la pace. Mounier è morto improvvisamente d’infarto a 45 anni: era il 22 marzo 1950.
«Avvenire» del 27 giugno 2010

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